“Tempi moderni” la storia dei nostri tempi


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«All’inizio Charlot simboleggiava un gagà londinese finito sul lastrico. All’inizio lo consideravo soltanto una figura satirica. Nella mia mente, i suoi indescrivibili pantaloni rappresentavano una rivolta contro le convenzioni, i suoi baffi la vanità dell’uomo, il cappello e il bastone erano tentativi di dignità, e i suoi scarponi gli impedimenti che lo intralciavano sempre»

Charles Spencer Chaplin nasce a Londra nel 1889. Suo padre cantante, sua madre attrice. Da bambino crebbe, dunque, in un ambiente da music-hall e, ben presto, nella povertà. Dopo essere stato galoppino, stalliere, impiegato, diventò vedette del teatro di varietà a soli 19 anni. Chaplin divenne il personaggio di Charlot e la carriera statunitense gli si spalancò, già nel 1914, all’epoca del suo secondo film, era il tempo del cortometraggio Charlot si distingue.

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Da attore di successo, Chaplin passò dall’altra parte della cinepresa e si affermò a Hollywood come regista e produttore indipendente, ossia: con pieno controllo di tutti gli aspetti della realizzazione dei suoi film.

Esemplare è la pellicola Tempi Moderni, non solo ne fu autore, interprete, produttore e regista, ma continuò la tradizione: nonostante la rivoluzione degli anni ’20, Chaplin restò fedele al cinema muto.

Tempi moderni fu proiettato a New York il 5 febbraio del 1936 e fu l’ultimo film muto girato ad Hollywood e l’ultima apparizione del personaggio di Charlot sugli schermi.

La trama è semplice: Charlot è operaio in una fabbrica dove si stanno sperimentando delle tecniche di lavoro  alla catena di montaggio per ottenere massimo rendimento. Lui è scelto come cavia per la macchina che regola il mangiare degli operai, da mettere a punto affinché si accorci la pausa pranzo e pertanto si ottimizzino i tempi di produzione. Ad un certo punto, però, il meccanismo si rompe e Charlot, improvvisando la manutenzione del macchinario per non essere licenziato, perde il senno. Ricoverato recupera la salute, ma una volta dimesso la malasorte inizia a perseguitarlo: disoccupazione; prigionia; lavori effimeri e precari; vagabondaggio.

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Artista a Parigi (2012)

Insomma, Charlot mette in scena, essendone vittima, l’alienazione urbana industriale e le conseguenze del capitalismo che ha affondato le sue radici ideologiche e pratiche sulla vendita della forza-lavoro. La monetizzazione – che accelera il ritmo della quotidianità – richiede produzione in serie ed accumulo ed in questo modo si arriva a naturalizzare l’apparizione della ricchezza come scopo, come volontà, fino a pretenderne la necessità ontologica.

La creazione di un’immacolata concezione della ricchezza (Armand Mattelart) rende così il processo di produzione naturale e mai sociale e, soprattutto, il possesso di quella ricchezza viene ricondotto tout court ai “padroni” cancellando – per suggestione – la mediazione del lavoro che diventa, in ultima istanza, astrazione simbolica. Attraverso questo processo di falsificazione si sono strutturate le classi sociali: la ricchezza dell’uomo industriale  (delle famiglie) non doveva apparire meschina o feticistica, bensì essere purificata dall’allusione ad un’origine magica, secondo la quale egli non interverrebbe volgarmente per procurarsela/procacciarsela, ma, semplicemente, se la meriterebbe per la propria genialità imprenditiva, senza altro sforzo o logica. Altrimenti, come sarebbe possibile motivare che qualcuno è “padrone” e qualcun altro “disoccupato” in un mondo condiviso, mediato da ragione e comunicazione?

In quest’ordine istituzionalizzato, invece, l’aspetto della distribuzione della ricchezza ricade all’interno della sfera dei rapporti umani che conseguentemente assumono “necessariamente” (prioritariamente) una forma mercantile e aziendalizzata connessa con lo spazio sociale e politico solo attraverso carità (a sostituzione della solidarietà e dell’azione); assorbimento;  consumo (la passività). In uno scambio e flusso di monete in incessante movimento. Dominanti sono i sentimenti di frenesia e di paura: meccanicità e paralisi che Charlot incarna incespicando in goffi tentativi per aggiustare gli ingranaggi più grandi di lui.

Non è un caso che Charlot, dopo il ricovero per nevrosi, finisca  in prigione a causa di una manifestazione di operai nella quale si ritrova casualmente coinvolto: le figure che si oppongono al sogno universalizzato di una classe particolare (quella borghese ed industriale) – che non esaurisce le esperienze, le professioni ed il mondo – devono essere definite con elementi caricaturali e stigmatizzanti come una presunta criminalità innata innescata da un’altrettanta presunta invidia sociale. Un’ostilità sigillata dal fantasma del carcere per assicurare la percezione dell’illegittimità delle aspirazioni dell’altro come soggetto psichicamente ed economicamente autonomo. L’altro è quindi il nemico – impiegato nella produzione della ricchezza ma come tale “debole” così eliminato dall’immaginario “vincente”- dipinto come presenza che minaccia il diritto di alcuni di impadronirsi in via esclusiva della ricchezza.

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Insomma, è questo anti-modello il rivale pericoloso per eccellenza (perché potenzialmente usurpatore dei privilegi del padrone delle ricchezze) e non il vero ladro. Anzi, il proprietario se fosse circondato da veri ladri, trasformerebbe la storia in una lotta tra legittimi proprietari e delinquenti che verrebbero giudicati secondo la legge della proprietà che lui stessa ha stabilito. Questa spietata logica polarizzata, in Tempi Moderni è rappresentata dalla storia della ragazza che Charlot incontrerà dopo l’arresto.

La struttura ideologica che fissa l’epistemologia del materialismo reale favorisce il mantenimento della condizione di predominio sociale operando la riduzione di ogni sovversione politica a un’infermità psicopatica, cancellando il fenomeno della solidarietà di classe che potrebbe mutare l’ordine e sottrarsi all’auto-sfruttamento  Così i difetti del proletario sono trasformati in tare, in oggetti di riso e barzellette, per non turbare lo sfruttamento a cui è condannato, non concedendogli nemmeno l’originalità: la borghesia ha bisogno di colonizzare tutti, imponendo le sue stesse aspirazioni, meglio diventare nuovi sfruttatori che abolire le cause dello sfruttamento o della moderna schiavitù.

La caricatura del proletario stravolge ogni caratteristica che potrebbe farlo apparire degno e temibile, e quindi identificabile come classe sociale. Offrirlo al pubblico come spettacolo di beffa e di scherno serve a depotenziare ogni sua pregnanza politica e psicologica a lungo termine. Questo mette in scena Chaplin: i miti dell’industrializzazione che attualmente la cultura di massa propina quotidianamente per stabilire il nuovo impero dell’era tecnologica. Lukacs concorda, «Chaplin è riuscito a dare una espressione umoristica, ampia, totalmente valida al senso di smarrimento dell’uomo medio di fronte all’ingranaggio e all’apparato del capitalismo moderno».

Il criterio per dividere buoni e cattivi è – che oggi come allora plasma anche e principalmente i rapporti affettivi e le loro eredità – l’onestà ed il rispetto per la proprietà altrui, solo la carità, allora, rimane a disposizione: “l’opera buona” è il buon veicolo per la ricchezza, è un viatico ed un sicuro investimento morale.

Dietro il bene e il male, non solo si nascondono i due antagonisti della società industriale e post industriale, ma una loro definizione in termini di spirito contro corpo, di anima contro materialità, di cervello contro braccia, di lavoro intellettuale contro lavoro manuale. La divisione del lavoro è ciò che non deve essere messa in dubbio. Sono i proprietari delle ricchezze contro chi si deve sottomettere all’ordine di vendere il proprio lavoro.

tempi_moderni_chaplinTrasformando questa forza-lavoro in una corsa di gambe che non raggiungono mai l’obiettivo – celebre è l’immagine di Charlot che cavalca gli ingranaggi – si qualificano i portatori delle idee (e coloro che prendono le decisioni) come coloro che sono i legittimi proprietari della ricchezza, in quanto avrebbero vinto un’equa competizione. Non solo: sarebbero state le loro idee a creare la ricchezza, a intraprendere quella ricerca e a provare ancora una volta che esse sono superiori alla mera forza fisica dicotomizzata rispetto al resto del corpo sociale. Soprattutto si scorpora la forza creativa (affermativa) da quella esecutiva (aderente al preconcetto, alla omologazione a detrimento della riproduzione di significati). La prima, evidentemente, sarà attribuita ai detentori della ricchezza come destino per rafforzare, sigillare, sacralizzare e monopolizzare il Potere, carismatico diavolo delirante travestito da promessa di salvezza e felicità che ha molti cortigiani pronti a ipotecare l’anima e non solo la propria, ma della propria generazione.

Così si trasfigurò – e si trasfigura – lo sfruttamento, giustificandolo: si vuole così dimostrare che solo quel possessore può continuare a creare ricchezza come suo esclusivo (escludente) dominio, e in definitiva tutto ciò che ha guadagnato in passato si tinge di legalità.

Chi ha il capitale ed è padrone dei mezzi di produzione, in ogni tempo, non è perché un tempo ha sfruttato qualcuno o ha accumulato denaro ingiustamente: anche nella nostra contemporaneità si afferma che la ricchezza del capitalista è stata ottenuta in circostanze identiche, che le sue idee gli hanno sempre dato il vantaggio nella corsa al successo. E le sue idee lo sapranno difendere. Non più solo nella gestione del mercato, ma anche in campagna elettorale.
Per riprendere l’analogia tra tempi moderni e tempi contemporanei, tra storia europea ed epopea americana, non sfuggirà che l’ambientazione incriminata sia sempre – e non solo cinematograficamente – la business city di Detroit. Il riferimento non è solo l’orizzonte Chrysler per la Fiat, ma anche all’ispirazione della pellicola di Chaplin che rinvia all’archetipo delle fabbriche automobilistiche fondate da Henry Ford, le prime ad introdurre le catene di montaggio, come concetto e pratica (passati alla storia come fordismo).

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Recentemente, a proposito del caso italiano di Fiat, Dario Fo ha scritto un articolo intitolato La fabbrica delle scimmie riprendendo la metafora chapliniana:

«Questo tragico e grottesco accordo di Mirafiori e Pomigliano ci riporta subito al film “Tempi Moderni” di Charlie Chaplin, dove si vive per la prima volta nella storia del lavoro dentro una fabbrica con catena di montaggio e assemblaggio automatizzato. Gli operai, Charlie Chaplin in testa, si muovono a ritmi stabiliti, gesti indicati dal programma in una strana danza che sembra festante, ma ha i tempi illogici di una storia di pazzi. come insegna Graham, il perfezionatore di tempi e metodi nella catena di produzione, per riuscirci   il soggetto operante deve distogliere ogni pensiero o ragionamento dalla vita emotiva, dall’inserto mnemonico dei sentimenti. Uscire completamente dal pensiero, dal clima delle emozioni e delle proiezioni intellettive, tipo: “Che sto facendo? Era questo il mio programma? Dove mi porta questo lavoro? Dentro che vita mi sto muovendo? E mio figlio, mia moglie, cosa sto dando loro di me? In che società sto campando, ne val la pena?” Ecco questo, ci avverte Graham, è il cancello del baratro: se lo spalanchi e ti lasci andare nel precipizio sei finito. A ‘sto punto, torna in primo piano Charlie Chaplin, che come un automa viene risucchiato dentro gli ingranaggi della grande macchina. Anche lui pian piano si   rende conto d’essere fatto di bulloni, cinghie di trasmissione, cerchi rotanti, stantuffi e trapani avvitanti» (cfr. approfondimento Goodbye Fiat).

germinal_zolaTempi Moderni – che dipinge le conseguenze e l’efficacia della mercificazione e della banalizzazione dell’esistenza, della cosiddetta infelicità senza desideri – per molti è un’aspra critica alle derive della Promise Land, che descrivono una realtà non così dissimile dalle condizioni europee della Metropolis di Fritz Lang e dello scenario rivendicativo di diritti e dignità del Germinal di Émile Zola. Un modello internazionale (uno dei primi “prodotti” globali) quello della prima e della seconda rivoluzione industriale, che spinse Alexis de Tocqueville a scrivere in termini profetici sulla democrazia americana: «si potrebbe ben stabilire nel mondo una specie di materialismo onesto, che non corromperebbe gli animi, ma li addolcirebbe e finirebbe per dispiegare senza chiasso tutte le risorse».

Cosa ispirò Chaplin lo raccontò Chaplin stesso nell’autobiografia Histoire de ma vie (ed. Robert Laffont, 1964): «mi ricordo di un’intervista che avevo concesso a un giovane e brillante reporter del World di New York (..). Mi aveva parlato del sistema della catena di montaggio che c’era là: la triste storia della grande industria che attirava delle fattorie di giovani robusti che, dopo 4 o 5 anni di lavoro in catena di montaggio, diventavano dei relitti umani. Fu questa conversazione a darmi l’idea per realizzare Tempi Moderni. Ho usato una macchina automatica da alimentazione come mezzo per guadagnare tempo per permettere agli operai di continuare a lavorare durante la pausa pranzo. La sequenza della fabbrica termina con la visione di Charlot colpito da una depressione nervosa. L’intrigo si sviluppa in relazione dall’incatenamento naturale degli eventi. Una volta guarito, viene arrestato ed incontra una ragazza che è stata arrestata per aver rubato del pane. Si incontrarono sulla camionetta della polizia piena di delinquenti. La storia diventa quella di due anonimi che cercano di barcamenarsi nei tempi moderni caratterizzati dalla crisi, dagli scioperi; dai tumulti e dalla disoccupazione

I nostri tempi moderni.

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