Generazione 140 caratteri

140. L’avvento di Twitter ha segnato un limite, una frontiera invalicabile per scrittori e opinionisti: 140 caratteri. Una frase ad effetto, una sententia più fulminante di quelle che resero famoso Seneca, verso il quale i pedagoghi dell’epoca, come Quintiliano, parlavano già di stile corrotto, per quanto spettacolare.  Un periodare spezzato, unaricerca smodata della frase ad effetto a tutti i costi, perfino quello di sacrificare il ragionamento. Arena sine calce, come lo definì il malevolo Caligola.

L’evoluzione del modo di intendere la scrittura può essere riassunta dalle abitudini degli internauti. In un primo tempo ci furono gli Spaces, inclusi negli account di Windows Live Messenger, popolarissimo fino a qualche anno fa e ormai diventato un rudere della rete. Questi Spaces erano dei veri e propri spazi che racchiudevano sfoghi, commenti e opinioni su vari temi, senza limiti di spazio. La prolissità di molti testi era il contraltare di una ritrovata voglia di scrittura e di approfondimento.

Poi venne Facebook, il Social Network per antonomasia. Il continuo ricambio di link e status rende meno fruibili e d’impatto i testi troppo articolati. Testi superiori alle 5 righe diventano una rarità, la sintesi diventa la dote più importante.

Infine Twitter e i 140 caratteri. Twitter e gli hashtags, con i loro #cancelletti. Le notizie calde del momento sono racchiuse in uno slogan, in un commento breve, sarcastico, brillante.

Aristotele, nella sua Retorica, prefigurava tre funzioni che un discorso aveva il dovere di assolvere: docere, ossia insegnare ed informare, movere, riferendosi alle emozioni da suscitare nel pubblico, e delectare, ossia rendere il discorso vivace e non noioso. Le funzioni che rispettivamente adempiono lo space, Facebook e Twitter.

La letteratura e la cultura in generale, come sempre, si adeguano alla loro epoca cercando di inserire gli stili linguistici attuali nella koiné letteraria. Abbiamo quindi romanzi sempre più brevi e ridotti all’osso, scritture volutamente scarnificate e involute, testi leggeri e fin troppo fruibili. Perfino l’informazione ormai si configura sempre di più con una modalità basata sulle notizie flash, sui titoli, al punto che un frontman come Enrico Mentana, che dedica un commento iniziale alle notizie della giornata, ha destato scalpore per il suo carattere vintage e ormai estraneo alla nostra generazione.

Ovviamente ci sono anche dei vantaggi. Alle medie e alle scuole superiori molti studenti producevano temi ridondanti e ripetitivi, perdendo il filo del discorso in una prosa interminabile e spesso ampollosa. Ma il rimedio, se non opportunamente controbilanciato, sembra essere peggiore del male.

Non tutti sono Oscar Wilde, è difficile condensare tutto in poche parole, avere capacità aforistiche. Molto più comune è la tendenza alla banalizzazione e alla generalizzazione tipica dello slogan, che non parla al cervello ma alla pancia delle persone, e che è il miglior propulsore per la demagogia e la disinformazione.

Perché, come direbbe Daniele Silvestri in una sua famosa canzone, lo slogan è fascista di natura. Ma non è uno slogan anche questo?

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