Nell’ombra di Boston

Articolo pubblicato il 30.04.2013 sul blog Les étincelles des mots, scritto da Charity Bliss in francese, tradotto in italiano da Laura Testoni

Non so se sono la persona migliore per scrivere di questo. Del resto, mia madre mi ha detto, “Sai qual è il tuo problema, Charity? Tu non hai una mentalità americana“. Ha ragione, perché in effetti non mi sento un’americana tipica; credo mia madre volesse dire che ho un punto di vista cosmopolita, piuttosto che un’adesione al cosiddetto “American Exceptionalism” inteso come la convinzione secondo la quale gli Stati Uniti sono il solo paese che protegge la libertà e diffonde la democrazia nel mondo intero. Le mie idee spesso si oppongono a questo atteggiamento, perché sono incline all’apertura del dibattito e del confronto con le idee di altri paesi e di altre culture. Mi sento a mio agio con gli stranieri o quando – io per prima – mi trovo ad essere un’ospite straniera all’estero. In realtà, sarebbe più esatto dire che ho la mentalità di un’immigrata nella mia stessa madre patria. Nella critica di mia madre mi sembra di percepire l’eco di “Maccartismo”, conosciuto anche come “Paura Rossa” degli anni ’50 quando si piombò in un clima di accuse di attività anti-americane (Un-American), un periodo buio per la nostra storia, un momento in cui il diritto di mettere in discussione la politica di questo paese è stato represso per paura del comunismo – simboleggiato dall’altro da noi – a detrimento di un mondo migliore. Roman Gary ha scritto che “il patriottismo è anzitutto l’amore per i propri, il nazionalismo, è anzitutto l’odio verso gli altri“. Spesso temo che ci si dimentichi questo concetto. Per quanto mi riguarda, io sono d’accordo con Camus, il quale confessò, “la mia patria è la lingua francese“. Detto ciò, questo articolo non è un’inchiesta sull’identità, bensì un tentativo di interpretare gli avvenimenti recenti da parte di una penna che può essere anche in disaccordo con la propria cultura di origine. Lo dichiaro: sono una pacifista: non difendo la violenza, ma cerco di comprenderla, analizzarla.

boston1Gli attentati della maratona di Boston del 15 aprile 2013 sono stati spaventosi, orribili. Quel giorno ed i seguenti sono stati ricoperti da una coltre di irrealtà simile allo stato del mondo dopo l’Undici Settembre. Lo choc, l’orrore, ma anche un sentimento di comunità che non è così frequente qui. Molte storie dentro la tragedia sono state toccanti: delle persone che dopo l’attentato hanno affrontato il rischio per la loro incolumità per aiutare i feriti; dei corridori che si sono salvati e sono corsi direttamente all’ospedale per donare il sangue e la loro corsa è stata più lunga dei 42.195 km da percorrere per completare il percorso tradizionale previsto dalla maratona. Tutte queste persone hanno risposto con enorme coraggio ed eroismo ad un’emergenza paralizzante e sono diventati l’ispirazione per noi tutti. Mi sale una grande collera quando vedo i danni tra le bandiere poste vicino alla linea d’arrivo della corsa, perché quelle bandiere rappresentano lo spirito di fraternità tra i partecipanti; si tratta, soprattutto nel caso di Boston, di una maratona organizzata per celebrare lo spirito dell’umanità, perché anche se c’è sempre un vincitore, un corridore si batte sempre per superare sé stesso in primis. Inoltre, non intendendo prendere alla leggera gli avvenimenti, aggiungo che sono inorridita al pensiero che siano state utilizzate delle pentole a pressione per realizzare gli attentati, perché per troppi anni esse hanno avuto la reputazione di esplodere in cucina, un incidente recentemente in forte diminuzione. Per me le pentole a pressione erano molto pratiche e mi facevano pensare alla vellutata che prepara la madre della mia famiglia francese – famiglia adottata ma beneamata. Non è una zuppa che saprei rifare, ma ha il gusto di casa. Detesto l’idea che d’ora in poi tutti penseremo ai fratelli Tsarnaev quando sentiremo pronunciare – o pronunceremo – una parola così familiare come pentola a pressione.

Qui – e forse in tutto il mondo – quando scorrono le foto e i video dell’attentato di Boston, si pensa immediatamente all’11/09/2001 e così i ricordi della caduta delle Torri riemergono. Uno dei libri più sconvolgenti uscito subito dopo il Ground Zero – di cui però purtroppo non ricordo il titolo – mostrava solo gli scatti che ritraevano persone intente a guardare le macerie del crollo. L’emozione dei loro visi, mi dà un brivido quando ci ripenso, ancora oggi. Ogni Americano si ricorda come apprese la notizia del dramma. Farò vari esempi. La libreria per cui lavoravo allora era conosciuta come l’ONU del centro commerciale in cui essa si trovava tra gli altri negozi. Ci guadagnammo questo appellativo perché c’erano più di una decina di paesi rappresentati dalla nazionalità degli impiegati e delle impiegate. Per questa caratteristica internazionalità, potevamo scambiare opinioni sugli eventi, discuterne insieme, approfondire e trasmettere le nostre elaborazioni ai clienti viandanti. Non eravamo soli, abbandonati a noi stessi, senza informazioni o conforto.. Vendevamo anche dischi: musica classica, jazz, ma soprattutto artisti internazionali. In libreria potevamo mettere una selezione di questi brani, e ogni libraio e ogni libraia aveva la sua playlist preferita. Uno dei miei colleghi, che è Iraniano, era un po’ in ritardo quel giorno e quando è arrivato ha notato che la musica era stata interrotta (dopo l’attentato non si è accesa la musica per una settimana e quando si è ripreso ad ascoltarla si sceglievano le melodie di Leonard Cohen), così ha messo su un disco di Buddha Bar con le canzoni arabe. Non aveva pensato che questo gesto avrebbe potuto essere impressionante, perché qualcuno gli aveva detto che erano stati i comunisti a compiere l’attentato. Le voci di corridoio si spargono così facilmente senza ritegno infiammando gli animi, che è importante, oggi più che mai, non fare accuse senza prove.

Un’altra collega, una Russa, stava tornando a casa, dai suoi genitori in Siberia per le vacanze. Il suo aereo era appena atterrato a Mosca quando la prima Torre è caduta. Ha dovuto prendere un secondo aereo per attraversare la Russia, senza essere consapevole del cambiamento definitivo che il mondo stava subendo mentre lei si stava imbarcando. Tanto meno avrebbe poi potuto sapere se sarebbe stata autorizzata a rientrare negli Stati Uniti. La mia amica è morta, ma oggi avrebbe provato orrore per i fratelli Tsarnaev che con il loro gesto hanno attirato l’attenzione indiscreta degli americani verso tutti i suoi concittadini russi, il loro passato e la loro vita privata.

Io quel giorno del 2001, invece, ero a casa di mia sorella minore. Tre giorni prima, aveva partorito la sua prima figlia. Ero nella sala dell’ospedale quando mia nipote stava nascendo e l’Undici Settembre ero a casa di mia sorella per fare loro visita, per aiutarla con i lavori di casa, e per prendermi cura di loro, di mia sorella e della sua piccola. Così, ho passato tutta la giornata con mia nipote tra le braccia guardando la catastrofe spiegarsi nell’atrocità: la fine di un mondo. Ero rientrata negli Stati Uniti solo due mesi prima, tornavo da un periodo di corso alla scuola culinaria di Parigi e non mi ero ancora riabituata alla vita qui. Dopo l’Undici Settembre ho capito che non mi sarei mai più riabituata: il mondo è cambiato in un istante e non sarebbe mai più stato lo stesso. Ho capito che mia nipote non avrebbe conosciuto un mondo diverso, un mondo senza questa macchia.

Oggi, la calma misurata di questo presidente e la sua risposta all’attentato di Boston mi sembrano diversi dal post Undici Settembre. Non c’è stata, in questo caso, una frenesia per puntare il dito contro un nemico certo a priori e io mi sono accorta della lotta che c’è stata contro il desiderio dei media di agitare i telespettatori. Infatti, si è assistito alla sconfitta dei media tradizionali, sena contare che la maggior parte delle notizie sono comparse su internet – soprattutto su twitter – prima che alla televisione. Queste implicazioni raccontano come il mondo sia cambiato in dodici anni. Nella settimana dell’attentato di Boston si sono succeduti una serie di fatti incredibili e gravi: il Senato non è riuscito a ottenere i voti necessari per approvare la riforma delle legge sul controllo delle armi; la esplosione della fabbrica di fertilizzanti in Texas; le lettere di ricina (veleno applicato tamponandolo con la polvere di riso) inviate a Barack Obama, al senatore Roger Wicker e al giudice del Mississippi Sadie Holland (quando il primo sospettato è stato interrogato, ha risposto in maniera tipicamente americana – ha detto che non conosceva quel veleno perché non mangia il riso – povero imbecille!); infine la risposta estrema alla caccia ai fratelli Tsarnaev che hanno il viso così giovane, ma così giovane. L’azione è riuscita, ma la decisione di chiudere ed accerchiare la città per una caccia a un solo uomo è insopportabile secondo me. Non nego l’efficacia dell’operazione della polizia durante il “lockdown“, ma sono preoccupata sul precedente che questa manovra ha creato: non si riguadagnano più le libertà a cui si rinuncia rimettendole allo Stato. Non si può continuare a dare risposte di sicurezza concepite in questo modo, con questi metodi. Non ci si deve dimenticare, che quest’uomo, Djokhar Tsarnaev, è americano e con tutti i diritti di cittadinanza. Negli Stati Uniti si dimentica che gli attentati e la guerra fanno parte della vita di altri paesi e popoli, ciò non significa che bisogna perdonare o non fare giustizia, al contrario: bisogna assolutamente lavorare per arrestare questa violenza, ma non ci si riuscirà con questi mezzi, soprattutto tali mezzi non ci faranno sentire meno terrorizzati, al contrario la violenza estrema come risposta alla violenza estrema esclude la comprensione dei problemi e non fa che accrescere la paura. Adam Gopnik, nel suo articolo per il New Yorker Magazine di questa settimana ha spiegato con parole forse più chiare delle mie: “What terrorists want is to terrify people; Americans always oblige“.

Spero che il mio Presidente permetterà al mio paese di esaminare con lucidità questi avvenimenti e come ci si è arrivati; altresì spero che ci permetterà di interrogarci e che ci lascerà formulare delle risposte, ci permetterà di trovarle anche in noi stessi, soprattutto quanto al modo di diventare un popolo migliore e sviluppato, maturo anche nella lotta al terrorismo. Penso sinceramente che abbiamo di nuovo l’occasione di rispondere al mondo. Perché dopo l’Undici Settembre si è perduta la buona volontà ed il rispetto del mondo per la fretta di entrare in guerra. Ero ancora a Parigi i giorni precedenti alla guerra all’Irak. Ho marciato nella manifestazione del 15 febbraio contro questa guerra. Ho visto i manifesti degli slogan che dicevano che questo rifiuto di partecipare alla guerra non era contro gli Americani, ma piuttosto contro la politica statunitense. Il coraggio contenuto nell’amicizia che esige di riconoscere che l’altro sta commettendo un errore e che non lo si potrà appoggiare. Nonostante questa presa di posizione, durante il mio soggiorno in Francia non ho mai vissuto esperienze di odio nei miei confronti come cittadina americana, né sono stata testimone di gesti di odio verso il mio paese. Mentre ho dovuto prendere atto del fatto che il mio governo voleva cambiare persino il nome delle patatine fritte, da “french fries” a “freedom fries“, e i Francesi rispondevano “ma le patatine fritte hanno un’origine belga“.

Oggi, dopo questa ennesima catastrofe dobbiamo riesaminare la nostra politica e il nostro posto nel mondo. Bisogna tentare. Nelle parole di Leonard Cohen, un uomo che mi ispira con le sue parole piene di grazia, trovo una preghiera dello spirito per Boston e per tutti noi, “Don’t really know who sent me to raise my voice and say: May the lights in the Land of Plenty shine on the truth some day

Davvero non so chi mi ha mandato per alzare la mia voce e dire: possano le luci del Paese della Cuccagna brillare sulla verità un giorno

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.