Gli atomi del digitale – Internet e l’insostenibile impatto ambientale

«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma»

Recita così il postulato di Antoine Laurent Lavoisier che definisce la legge di conservazione della massa. Tradotto, vuol dire che in un circuito o sistema chiuso la somma delle masse dei reagenti sarà uguale alla somma delle masse dei prodotti. Sebbene questa definizione non possa essere adattata in maniera pedissequa alle relazioni che intessiamo nella vita quotidiana (la Terra è un sistema chiuso, ma non una soluzione chimica), resta pur sempre una buona leva per avviare una riflessione in merito al nostro rapporto con le tecnologie digitali e le risorse naturali. Tra le varie cose che la pandemia ha reso esplicite, ad esempio, vi è la propagazione tentacolare di queste ultime in una molteplicità di sfere sociali. Se da un lato i media digitali hanno avuto un ruolo positivo come “collante sociale” durante il primo lockdown, permettendoci di mantenere legami sociali pur non potendoci spostare e diventando uno strumento di fruizione di prodotti culturali, dall’altro hanno rafforzato una serie di ambiguità rispetto alla loro piena sostenibilità ambientale.

Il digitale, al pari di molte innovazioni tecnologiche susseguitesi nel tempo, è stato rivestito da un’aura mitica, facendo sì che questo ci sembrasse etereo, immateriale, che fosse un mondo altro rispetto a quello reale/materiale. Questa narrazione, fatta propria e amplificata da quel sistema di credenze noto come “Ideologia californiana” e “utopismo digitale”[1], si è nutrita di una forma di determinismo tecnologico per il quale sembra che il digitale possa rappresentare la soluzione a gran parte dei problemi che affliggono la società contemporanea, sia dal punto di vista economico-organizzativo-lavorativo, sia da quello ambientale. Ma noi non crediamo ai miti. Per questo diventa fondamentale aprire la scatola nera del digitale e sollevare il velo mistico da cui è stato avvolto: per innescare il processo di comprensione di ciò che il digitale è e di ciò che il digitale fa, è imperativo sottrarsi alla tentazione di trattarlo come qualcosa di religioso, di dato-per-scontato, ossia come un pacchetto di conoscenze implicite che non necessitano di essere problematizzate.

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Con digitale intendiamo quel vasto insieme di tecnologie, servizi, dispositivi e infrastrutture che contribuiscono a dare forme e rendere possibile una parte delle attività della nostra vita quotidiana. Prese nel loro insieme, e in dialogo con altre sfere che strutturano la quotidianità, questo assemblaggio digitale definisce un mondo in connessione: connessione tra dispositivi, tra persone, tra risorse naturali, tra oggetti. Il digitale, cioè, è un prisma che ci interroga sulle relazioni più-che-umane, sul mutuo rapporto tra Natura, logiche e pratiche di consumo delle società contemporanee. La linea rossa che collega tutto ciò è l’energia necessaria per la riproduzione della vita quotidiana e, perciò stesso, delle tecnologie digitali di cui sopra. Tuttə noi navighiamo su Internet, abbiamo gruppi Whatsapp e Telegram, usiamo servizi cloud di archiviazione online, ascoltiamo musica su Spotify, guardiamo serie Tv su Netflix, film su Amazon Prime, postiamo foto e video su Instagram, Facebook e TikTok, leggiamo libri con gli ebook. Fruiamo di tutti questi servizi attraverso il nostro smartphone, il nostro pc e il nostro tablet. Durante il primo lockdown questo assemblaggio ci ha permesso di mantenere i contatti con le persone a noi care, di rimanere aggiornati su quanto accadeva al di fuori delle nostre abitazioni, di alleviare l’ansia e la pressione legate a un evento di portata epocale. Tutto questo, tuttavia, non ci ha spinto a riflettere sul dark side della connessione al digitale, contraddistinta da una pesante impronta ecologica.

Guardare i numeri pre-pandemia di quella che può essere definita come propagazione digitale ci può aiutare a cogliere la portata di quanto sopra detto. Ad esempio, secondo i dati di Cisco e dell’International Communication Union (ITU), al 2019 oltre la metà della popolazione mondiale era online (cioè, potenzialmente connessa). Nello stesso periodo sulla Terra vi erano più abbonamenti a servizi di telefonia mobile che abitanti: questo perché molte persone ne possiedono più di uno. Se nella fase iniziale i Paesi ad economia avanzata hanno trainato la diffusione dei servizi ICTs, questi si stanno indirizzando ora verso il punto di saturazione, lasciando ampio spazio ai cosiddetti paesi in via di sviluppo per aumentare la loro quota. Quotidianamente, nel 2019, sono stati inviati oltre 74.500 GB di dati ogni secondo da circa 21.7 miliardi di dispositivi connessi. Durante la pandemia, particolarmente nei paesi ad economia avanzata, i numeri della propagazione digitale sono aumentati (anche rispetto alle previsioni precedenti all’evento pandemico). Sempre secondo l’ITU, nel 2020 il traffico internet medio globale è aumentato del 48 percento, mentre il picco del traffico è cresciuto del 47 per cento (gli analisti avevano previsto, in fase pre-Covid, un aumento medio annuo del 30 per cento). Allo stesso modo, l’utilizzo di servizi broadband fissi è aumentato mediamente di 2.30 ore al giorno. Parallelamente, una fetta sostanziale di lavori impiegatizi è stata rimodulata digitalmente.

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Questi numeri (che rappresentano solo una minima parte del quadro generale) ci servono per dire una cosa fondamentale: la portata della propagazione digitale è possibile solo grazie all’utilizzo massivo di energia elettrica, la quale necessita ovviamente di fonti naturali, per lo più ancora legate all’impiego del fossile. Infatti, malgrado le big five (Alphabet-Google, Facebook, Microsoft, Apple. Amazon) abbiano avviato negli ultimi anni una conversione parziale verso le fonti rinnovabili per rifornire di energia elettrica i loro datacenters, è opportuno evidenziare che l’analisi deve essere effettuata a tutto tondo, considerando perciò anche le fasi estrattive e manifatturiere. Infatti, senza materie prime come coltan, cobalto, litio e terre rare, senza smartphone e pc attraverso cui fruire dei servizi digitali, difficilmente l’ecosistema delle big five avrebbe raggiunto la rilevanza odierna. Un dato su tutti: per produrre un Iphone la fase connotata dalla maggiore emissione di gas serra (circa l’80% del totale) è quella manifatturiera. A sua volta, questo dato ci interroga sulle reali responsabilità dell’emissione di gas climalteranti: se è vero che il Sud-est asiatico è la regione che ne emette di più, è anche vero che vi è un legame molto forte con i processi di esternalizzazione e delocalizzazione dei processi produttivi da parte delle imprese occidentali per risparmiare su lavoro e aggirare le tutele ambientali[2].

In altri termini, bisogna analizzare il digitale come un’industria organizzata su scala globale, considerando le “mani e le menti” che lo compongono senza incorrere nella banalizzazione di associarlo a una mera innovazione tecnologica. Proprio per questa ragione, il digitale non si configura come campo neutro ma, al contrario, costituisce un’arena di contesa nella quale si condensano le tensioni e le contraddizioni più ampie del regime di accumulazione e dei modi di produzione contemporanei. Considerare il digitale come un’arena implica la presenza di una “lotta” per il suo governo, il quale può essere esercitato dall’alto o dal basso. La comprensione profonda dei presupposti e delle conseguenze socio-culturali ed ecosistemiche del digitale passa necessariamente per una critica alla mitopoiesi di quest’ultimo. Inoltre, solo attraverso tale critica sarà possibile ipotizzare percorsi alternativi rispetto a quelli dati.

Giorgio Pirina


Ph. Credit: Copertina – Nick Sirotich per Washington Monthly (2019). A seguire: Dig.watch, Corriere.it/dataroom-milena-gabanelli

[1] Mosco, Vincent (2014). To the cloud. Big data in a turbolent world, London: Paradigm Publisher.; Mosco, Vincent (2004). The Digital Sublime. Myth, Power, and Cyberspace, Cambridge: The MIT Press; Fuchs, Christian (2014). Digital Labour and Karl Marx. New York: Routledge.

[2] Per un approfondimento sulla questione ed una critica sui meccanismi adottati dagli Stati e dalle organizzazioni sovranazionali per contrastare il cambiamento climatico si veda: Leonardi, Emanuele (2017). Lavoro, Natura, Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, Napoli-Salerno: Orthotes.

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