Transizione – Il futuro migliore è dietro l’angolo

Se fino a qualche anno fa potevamo dire di trovarci ad un bivio, quello tra il tradizionale modello di sviluppo e la strada per il cambiamento, oggi non è più così. Non si tratta più di una scelta, ma di un imperativo: se vogliamo assicurare la sopravvivenza (parlare di benessere sarebbe già troppo avventato) della nostra specie è indispensabile operare un cambio di rotta. Il criterio della crescita infinita è infatti inconciliabile con un pianeta come il nostro, le cui risorse al contrario hanno dei limiti ben precisi. Se sovrasfruttiamo il capitale naturale questo perde la capacità di rigenerarsi, causando il crollo dei nostri sistemi vitali e condannandoci all’estinzione.
Lo scenario sembra davvero apocalittico visto che i nostri consumi aumentano di anno in anno, ma la soluzione c’è ed è anche abbastanza elementare: eliminare i bisogni non necessari, diminuire gli sprechi, adottare pratiche più sostenibili. In poche parole tutto quello che ritroviamo alla base del concetto di Transizione, movimento nato in Inghilterra tra il 2005 e il 2006 grazie alla figura di Rob Hopkins, ecologista ed insegnante di permacultura al Kinsale College dell’omonima cittadina irlandese. Nell’arco di dieci anni il movimento ha fatto il giro del mondo, influenzando centinaia di realtà anche molto diverse tra loro accomunate però da un’unica idea: cambiare per garantire la stabilità del pianeta e quindi dell’uomo. Un cambiamento alimentato dal desiderio ottimistico di trovare una soluzione e soprattutto di farlo insieme, riscoprendo il senso di comunità.vadetransition

Una meravigliosa ed articolatissima macchina di ricostruzione del sistema di rapporti tra gli uomini e gli uomini e tra gli uomini e il pianeta che abitano. È questa la definizione di Transizione offerta dal blog Transition Italia, il principale punto di riferimento per chi nel nostro Paese vuole tentare un approccio più consapevole al movimento e magari parteciparvi attivamente.

Come spesso accade per le invenzioni o le scoperte, anche il fenomeno della Transizione nasce praticamente per caso. Infatti, quando Rob Hopkins decise di assegnare alla sua classe il compito di trovare possibili soluzioni per affrontare il problema del picco del petrolio nella cittadina di Kinsale, non avrebbe mai immaginato che quel progetto dall’impostazione tutta scolastica avrebbe finito per innescare una reazione a catena di livello mondiale. Nel 2003 il progetto dal titolo Energy descent action plan viene pubblicato e addirittura adottato come documento ufficiale dalla locale giunta comunale. Tornato in Gran Bretagna, Hopkins dà luce nel 2006 all’iniziativa Transition Town Totnes, basata su un sentimento di eccitazione, di possibilità e di impegno diffuso. L’obiettivo principale è quello di far fronte (comune) alle conseguenze del cambiamento climatico, costruendo un modello alternativo di approvvigionamento energetico e di consumo, secondo il presupposto che ognuno può fare la sua parte.
Con il movimento della Transizione (dal latino trans-ire, andare verso, altrove) per la prima volta si sente finalmente parlare di possibilità, quella di un mondo migliore, senza minacce o inutili toni catastrofisti. Là dove la maggior parte dei gruppi ambientalisti ha fallito, la Transizione arriva e si infiltra tra la gente col suo bagaglio carico di ottimismo, andando oltre il concetto di cambiamento come sinonimo di privazione e proponendo soluzioni non solo realizzabili ma anche molto divertenti. Non servono bacchette magiche né pozioni misteriose, tutto ciò che conta è la volontà. Come una guida inter pares, Rob Hopkins mette a disposizione di tutti gli strumenti senza mai peccare di superiorità; un chiaro esempio sono le pagine del suo Manuale pratico della Transizione, attraverso le quali ci invita ad intraprendere un viaggio verso una meta lontana ma non sconosciuta, quella di una società dove l’unica dipendenza non è dal petrolio ma dalla forza delle comunità locali.la-citta-del-futuro-transition-towns-L-Hdo8Xm
Inoltre, se spesso ci si concentra esclusivamente sul “cosa” fare tralasciando il “come” farlo, questa volta è diverso perché il segreto per il successo del movimento c’è ed ha un nome ben preciso: resilienza. Di origine molto antica, questo termine indica la capacità di un materiale, e più in generale di qualsiasi sistema, di resistere e di mantenere il proprio funzionamento nonostante un cambiamento o uno shock subito dall’esterno. Alla base della resilienza troviamo una logica di autosufficienza, cioè la capacità di una cultura di funzionare e prosperare a prescindere dalle condizioni esterne (se pensiamo ad una eventuale penuria di petrolio o cibo). Applicato al nostro sistema sociale si tratta di un concetto relativamente semplice dalle implicazioni molto complesse se pensiamo agli effetti su tematiche controverse come la globalizzazione, l’economia, i modelli di sviluppo. Un sistema resiliente presuppone infatti un graduale abbandono dell’economia di importazione\esportazione, dei carburanti liquidi fossili a basso costo, della logica quantitativa che guida gli attuali processi produttivi. Immaginare un mondo senza questo tipo di dipendenze può sembrare un’utopia, ma è proprio contro questa impressione che il movimento per la Transizione si batte: lo stile di vita dovrà orientarsi verso l’efficienza energetica e produttiva e dovrà farlo necessariamente.
Il tentativo è quello di creare un percorso alternativo per costruire un futuro qualitativamente migliore ma per farlo c’è bisogno di una risposta collettiva, quindi nazionale, governativa ed economica a ogni livello scrive Hopkins nella sua introduzione, ma se mancherà questo senso di esaltazione, di anticipazione dei problemi, di voglia di partecipare a un’avventura su vasta scala, ogni risposta governativa sarà destinata al fallimento.groeneuitrol-1425168798ng48k
I popoli potrebbero essere protagonisti di una vera e propria rinascita economica, culturale e spirituale ripristinando l’agricoltura e la produzione di cibo locali (i sempre più diffusi orti urbani ne sono un esempio), rilocalizzando la produzione di energia e riscoprendo i materiali locali per l’edilizia. A partire dal Regno Unito le realtà di questo tipo si sono moltiplicate in tutti e cinque i continenti e anche l’Italia conta ormai più di una trentina di comunità attive, impegnate in attività virtuose e di collaborazione con università e centri di ricerca, dimostrando come sia possibile contribuire alla realizzazione di una vita più a misura di uomo e natura. Certo, il problema dell’esponenziale crescita demografica e del conseguente aumento della domanda di risorse non contribuiscono a semplificare il processo ma questo non può rappresentare una scusa per non agire. Costruire un mondo più sobrio con meno “cose” e meno bisogni fittizi da soddisfare può rivelarsi una piacevole scoperta. Potremmo dimenticare la frenesia e la perenne insoddisfazione dei nostri giorni tenendo bene a mente che crescita illimitata non significa benessere né tantomeno felicità: la decrescita serena dell’economista e filosofo Serge Latouche, concetto alla base delle idee di Rob Hopkins e condiviso dalle comunità di Transizione, costituisce il punto di inizio per una svolta sempre più urgente ed imprescindibile.

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