Attraverso la poesia: simbolo e allegoria

Salpiamo per un viaggio. Il percorso si muove attraverso la sensibilità poetica sia nella sua componente lirica che allegorica, dunque a partire dalla grande tradizione dantesca e petrarchesca sino al Novecento, secolo che recupera molte istanze del passato rimanendo sempre fedele a questi vettori.

Possiamo risalire, anzitutto, alle origini della lirica moderna e al suo riconosciuto fondatore: Petrarca. Il Canzoniere (1373), infatti, contiene tutti i caratteri essenziali della poesia lirica dei secoli successivi quale si è definitivamente affermata nel Rinascimento e quale si trova ancora nel nostro secolo. Tale modello ha una diffusione non solamente italiana, ma europea. L’opera petrarchesca ha posto le basi per l’affermazione della superiorità della poesia lirica su tutte le altre forme di scrittura, rovesciando il sistema dei generi trasmetto dalla classicità al Medioevo, entro il quale il primato spettava all’epica e alla tragedia. Nasce così quella idea della lirica come espressione pura, a cui in Italia, nell’Ottocento, Leopardi si mostra molto sensibile. Infatti, non solo fu autore nel 1825-1826 di un importante commento alla produzione volgare di Petrarca, ma fece del modello petrarchesco, la base costitutrice dei Canti. Ciò si manifesta in modo evidente nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che non solo, per molti aspetti, è riscritto sul modello della canzone L del Canzoniere, ossia Ne la stagion che’l ciel rapido inchina, ma inoltre i versi 21-22 «vechierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo» ricordano il sonetto «Movesi il vecchierel canuto e bianco» (v. 1). Più in generale, l’opera dei Canti presenta i caratteri essenziali della lirica petrarchesca per quanto concerne la centralità del soggetto lirico e la concezione del poeta come specialista dell’interiorità.

La figura del soggetto lirico da un lato acquista concretezza e verità psicologica, venendo a coincidere con la persona del poeta, in questo senso il petrarchesco: «solo et pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi et lenti» che diventa il leopardiano: «(…) io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando (…)» (vv. 9-11). Dall’altro lato, il soggetto lirico si definisce a sua volta come un nuovo istituto, anzi come l’istituto topico della lirica moderna: l’Io-lirico – l’Io-poetante.

Io-poetante, che è di fatto separato dalla vita politica, è, però, capace di dare valore a una sfera di competenza: l’interiorità presentata come il valore superiore e assoluto. Quest’esaltazione della poesia attraverso i secoli successivi: nel Novecento, Saba, ad esempio, intitola la raccolta complessiva della sua produzione poetica – Canzoniere, benché non senza un rovesciamento di alcuni presupposti di fondo. Ungaretti, invece, sperimenta nuove forme nel tentativo esplicitamente dichiarato di riproporre fedelmente il senso profondo del modello petrarchesco.

Tuttavia, per quanto attiene all’origine della linea allegorica, è l’esperienza dantesca che rappresenta l’inevitabile punto di riferimento sul quale verificare la ricerca di Petrarca. Ora, benché l’influenza di Dante sul Petrarca “volgare” venga sempre più riconosciuta, non c’è dubbio che la lirica petrarchesca si sviluppa in antitesi sostanziale rispetto alle soluzioni proposte da Dante. È anzi evidente una contrapposizione tra i due paradigmi di poetica avvertita ancora nel Novecento come valida e attiva. Dante è il fondatore della linea allegorica per quel che attiene alla poesia italiana che influenzerà anche il panorama culturale europeo. In un brano dell’Epistola a Cangrande (attribuita a Dante, ma di paternità incerta) Dante afferma che il significato della Commedia è molteplice cioè polisemico e in particolare distingue tra significato letterale e significato allegorico che tratteggia l’interpretazione figurale del poema in virtù di un esempio: quando la Bibbia racconta la liberazione degli Ebrei, racconta un fatto storico, ma nell’interpretazione medievale esso prefigura un fatto storico più importante, ossia la liberazione dal peccato dell’umanità attraverso la redenzione di Cristo. Quindi, il primo fatto è figura del secondo in quanto lo annuncia. Similmente, nel poema di Dante l’intera vicenda terrena è una figura del destino eterno. Secondo questa prospettiva Dante ha concepito, secondo il critico Auerbach, «una visione che vede e proclama come già adempiuta la realtà figurale».

Ciò premesso è chiaro che il soggetto di un’opera, sottoposto a due diversi significati, sarà duplice. E perciò si dovrà esaminare il soggetto della presente opera se esso si prende alla lettera e poi se s’interpreta allegoricamente. È dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera. Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto e l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina.

 

La priorità del significato allegorico offusca il letterale- o lo esalta – e nel poema dantesco si avverte tale prospettiva anche nella figura delle guide: Virgilio è guida in nome della ragione e della sapienza terrena; Beatrice in nome della teologia e della fede, ma entrambi possono esprimere tali significati solo in quanto storicamente li hanno incarnati.

Operando un confronto tra le due poetiche, è possibile rinvenire sul piano stilistico il riconoscimento di Dante come poeta sperimentale per eccellenza, mentre la ricerca petrarchesca insegue piuttosto la profondità e la ricchezza delle variazioni che permettono ad ogni vocabolo di moltiplicare il proprio potenziale allusivo e emotivo. Leopardi, nell’Ottocento, proseguirà questa quete facendo riferimento proprio al modello petrarchesco. In particolare, in un passo dello Zibaldone, che data 30 ottobre 1821, dedicato alle “parole della poesia”, scrive:

 «Le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, (larghezza, lunghezza, altezza vastità) ecc. sia in estensione, o in forma, intensità, ecc. sono pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti come nel Petrarca:

Te solo aspetto, e quel che tanto amasti

E laggiuso è rimasto, il mio bel volo

Dove notate che il ‘tanto’ essendo infinito fa maggiore effetto»

Sul piano ideologico, la proposta di Dante rappresenta ancora un tentativo di universalità, un’aspirazione all’integrità e all’integrazione: l’attività poetica è sentita come (parte) sistema di pensiero che abbraccia tutta quanta la realtà. Per Petrarca, invece, la poesia non può offrire verità, bensì permette di sperimentare lacerazioni e rinnovare dubbi, la stessa concezione che verrà ripresa in modo originale da Leopardi. La prospettiva leopardiana presuppone la tendenza all’oggettivazione, all’argomentazione, alla dimostrazione teorica e dunque alla filosofia e il punto di vista di Leopardi è drammaticamente, materialmente e realisticamente umano o «troppo umano».

Questa sorta di dicotomia espressiva e ideologica prosegue in forma di continuità sino al Novecento, epoca in cui l’intreccio di molte linee espressive spesso simultanee e antagoniste segna l’attraversamento di simbolo e allegoria. Le origini della poesia moderna sono da attribuire a Baudelaire. Nei Fiori del male del 1857 si individuano con chiarezza due filoni distinti. Il primo è quello delle Corrispondenze a cui Baudelaire dedica una poesia. Interessantissima è la prima quartina: è la strada del simbolo totalizzante e assoluto.

La Natura è un tempio dove incerte parole mormorano pilastri che sono vivi, una foresta di simboli che l’uomo attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari. Come echi che a lungo e da lontano tendono a un’unità profonda e buia grande come le tenebre o la luce i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi. Profumi freschi come la pelle d’un bambino  vellutati come l’oboe e verdi come i prati, altri d’una corrotta, trionfante ricchezza che tende a propagarsi senza fine- così l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.

È la Natura stessa a parlare e il poeta trascrive le sue parole in un linguaggio analogico e alogico che esprime l’universale. Si tratta di un’idea di poesia come rivelazione della verità assoluta o metafisica che può diventare un atto mistico o magico che si costruisce, dunque, come un mondo autonomo e separato dalla realtà. Proseguendo su questo tracciato si arriva all’orfismo e alla Lettre du voyant di Rimbaud.

Il secondo filone guarda piuttosto al mondo storico degli uomini, così gli eventi concreti diventano segni caricati di un significato ulteriore razionale e relativo. È la strada dell’allegoria; che per il poeta moderno non coincide più con la concezione figurale dantesca poiché l’atto con cui il poeta dà significato allegorico è soggettivo e arbitrario: ormai fra lui e il suo pubblico si è consumato irrimediabilmente una frattura, si tratta di quella «perdita dell’aureola» che è sempre Baudelaire a denunciare.

È una donna bella dalla nuca opulenta, che nel vino lascia spiovere i capelli. Gli artigli dell’amore, i veleni della bisca, tutto scivola, tutto si smussa sul granito della sua pelle. Ride alla Morte e sfida il Vizio, i mostri la cui mano, che sempre falcia e corrode, pure ha rispettato, nei distruttivi esercizi, la rude maestà di questo corpo dritto e sodo.

Cammina da dea e riposa da sultana; professa nel piacere una fede maomettana , e tra le braccia aperte riempite dai suoi seni con gli occhi chiama a sé la razza degli umani. Crede, sa bene, questa vergine infeconda eppure necessaria al cammino del mondo, che la bellezza del corpo è un dono sublime che strappa il perdono di qualsiasi ignominia. Sia l’Inferno che il Purgatorio ignora, e quando l’ora verrà, d’entrare nella Notte, saprà guardare in faccia la Morte, come un neonato, – senza odio né rimorso.

Ecco un’idea di poesia come ricerca e conoscenza della realtà che rimane umana e razionale perché dialoga con la cronaca e con la storia. Queste linee fissate da Baudelaire saranno seguite dalla lirica occidentale.

Almeno sino alla Seconda Guerra mondiale. Il tempo della profonda crisi. La ferita si apre sulla politica del simbolo che porta alla chiusura della poesia in se stessa, inerme e irresponsabile di fronte alla realtà attuale, approdando a una nuova poetica sempre più vicina alla linea allegorica.

Insomma, la poetica allegorica che aveva conosciuto una sorte meno fortunata a fine Ottocento, diventa sempre più sicura e salda nel corso del secolo successivo. Una posizione complessa assumeranno gli Espressionisti: anche per loro, come per i Simbolisti, si tratta di dare nuova forza e valore al linguaggio, eppure questa forza non deriva da un’investitura ‘sacra’ o da una fiducia religiosa, bensì da uno sforzo umano e relativo. È quello che mostrano i versi dell’austriaco Trakl.

È tramontato l’oro dei giorni, i bruni e gli azzurri colori della sera: sono morti i dolci flauti del pastore i bruni e gli azzurri colori della sera è tramontato l’oro dei giorni.

In Germania, la conclusione della grande stagione dell’Espressionismo creò l’irrigidimento della vita cultura tedesca. Negli anni Venti, come è noto, la personalità che si impose al di sopra di ogni altra, fu Brecht con la sua lirica militante che concepisce la poesia come strumento d’azione e insegnamento. Dalla poesia brechtiana (in antitesi con il modello simbolista) è esclusa la figura dell’Io quale epicentro emotivo del discorso. Quanto al linguaggio, l’interesse brechtiano non è mai per la suggestione analogica, per lo scontro tra significante e significato, la lingua è piuttosto asservita ad un fine pratico di conoscenza, persuasione e dimostrazione. Infatti, gli episodi di cronaca assumono un rilievo allegorico grazie al caricamento di senso che il poeta si incarica di compiere: la poesia di Brecht intitolata Fragen eines lesenden Arbeiters conclude con la considerazione:

So viele Berichte

So viele Fragen

 

Così tante cronache

Così tante domande

 

In rigore dell’esempio brechtiano, immancabilmente all’altezza del momento storico e del suo rilievo tragico, come ad esempio testimoniano i due versi di una poesia che con amarezza e pathos raccontano il presente (un impressionismo che ancora oggi sembra essere valido), si tratta di uno degli episodi apicali e più nobili della letteratura europea.

Der Krieg, der kommen wird

Ist nichet der erste. Vor ihm

Waren andere Kriege

 

La guerra che verrà

Non è la prima, Prima di questa

Ci furono altre guerre

 

Tuttavia, ci sono poeti che partendo da presupposti simbolisti sono giunti a una forma originale di classicismo modernista confermandosi come i poeti più grandi degli anni Venti-Trenta del XX secolo, è il caso del francese Valéry, dell’angloamericano Eliot e dell’italiano Montale. In particolare, per Eliot e Montale il nodo diventa unire forme auliche – che si ricolleghino alla tradizione occidentale – alla possibilità di parlare della realtà contemporanea. Ne scaturisce una poesia grandemente allegorica che passa dal piano individuale a quello collettivo, dal piano fisico [Do I dare to eat a peach?] a quello metafisico [Do I dare to disturbe the universe?] – questo è il cruccio di Eliot che in The love song of Alfred John Prufrock dà voce ai valori in cui tutta l’umanità civile potrebbe riconoscersi. È proprio lui, del resto, a mettere in risalto la precisione espressiva di Dante che fa della tecnica allegorica la somma arte della rappresentazione. Invero, la poesia dantesca, secondo Eliot consente un allargamento delle facoltà percettive e associative umane.

Montale sottolinea di preferenza l’irripetibilità del modello dantesco, pure di continuo presente davanti agli occhi dei poeti successivi. Il poeta italiano che più di ogni altro ha guardato all’esempio dantesco nel Novecento dichiara la distanza incolmabile tra il mondo di Dante – necessario al nascere dalla poesia – e il nostro mondo moderno-modernizzato.

Il punto comune sta nel fare del precursore fonte d’ispirazione che ci si sforza di attualizzare adeguando il linguaggio alla poetica personale ed alla nuova condizione storica. La rivoluzione eliotiana dell’allegoria è d’altronde evidente anche nella teoria del correlativo oggettivo che rifiuta il metodo analogico delle corrispondenze fra soggetto e oggetto per tendere ad esprimere solo l’oggettività di immagini assunte ad emblema di una condizione interiore taciuta o cancellata, muta.

Anche Montale aderisce a questo manifesto. La lezione di Montale è di fare grande la poesia parlando del mondo così com’è. La poesia non consiste in una forma di conoscenza – «non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe». La poesia può offrire solo qualche «storta sillaba secca» e non si tira indietro nemmeno all’ora della trascrizione del cosmico ‘mal di vivere’.

Un elemento del reale può svolgere la funzione di simbolo ed è appunto questo espediente del correlativo oggettivo. Nonostante Montale esprima il suo rifiuto verso i cosiddetti «Poeti laureati che si muovono solo fra le piante /dai nomi poco usati» (si legge ne I Limoni), attraverso l’adesione alla poetica del correlativo oggettiva diventa un nuovo poeta-vate che comunica con il lettore.

In questa direzione si può ristabilire un ultimo legame con la tradizione dantesca che mette anche in relazione linea lirica e allegorica (in generale): nel XXVII canto Cacciaguida prefigurerà la missione di Dante come poeta-profeta.

indi rispuose: «Coscienza fusca

o de la propria o de l’altrui vergogna

pur sentirà la tua parola brusca;

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,

tutta tua vision fa manifesta;

e lascia pur grattar dov’è la rogna!

Ché se la voce tua sarà molesta

nel primo gusto, vital nodrimento

lascerà poi, quando sarà digesta.

 

Due linee poetiche distinte, ma mai troppo lontane, sempre a rincorrersi, talvolta a incontrarsi come in seno alla missione del poeta. Questo viaggio, però, non si esaurisce mai, perché il viaggiatore è uno straniero la cui parola preannuncia l’esilio. Ancor più in età moderna quando simbolo e allegoria si trovano in una sibillina espressione di Julia Kristeva – «L’io è un altro di Rimbaud non era solo la confessione di un fantasma psicotico che infesta la poesia. La parola annuncia la possibilità o la necessità di essere straniero e di vivere da straniero, prefigurando così l’arte di vivere di un’era moderna, il cosmopolitismo degli scorticati».

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