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Il racconto della perdita: Chiamatemi Esteban di Lejla Kalamujić

Se esiste un colpo di fulmine con i libri, io l’ho avuto con questo. Ho visto la copertina, ho letto due righe del comunicato stampa, ho pensato sei per me. E così è poi stato: qualcosa in questo libro ha detto il mio nome – uno che non è quello che conoscono lə altrə, ma che questo libro sapeva e per fortuna ho deciso di rispondere.

Perché, senza saperlo, Chiamatemi Esteban di Lejla Kalamujić (Nutrimenti Edizioni, 2022) è andato a occupare un posto che per trent’anni è rimasto libero solo per lui. Fa parte della mia famiglia una persona che ha combattuto in quella guerra ancora ragazzino, fa parte delle mie preferenze di lettura le storie che parlano della perdita della famiglia elaborata attraverso la scrittura (Perec, Woolf, Biagini), fanno parte della mia persona e dei miei interessi l’identità queer, la malattia mentale, la madre. Tutto questo è nel libro, ma ci porta a scoprire molto di più.

Lejla Kalamujić mi è di poco più grande, questa è la sua seconda pubblicazione in forma di libro ma tanti racconti sono apparsi su riviste e hanno ricevuto premi e mi sembra già maestra sapiente in quel potere che è rendere senza tempo le parole: quello che racconta è un dolore vicino temporalmente, geograficamente e umanamente, ma assume un valore sociale, letterario e umano che diventa atemporale, come è stato in grado di fare La storia di Elsa Morante. Perché Chiamatemi Esteban è un libro in cui vengono intrecciati magistralmente il personale e l’universale, il locale e l’intimo, ma anche: la casa che è la città, l’immaginazione che anch’essa è sotto la mira dei cecchini.

Il racconto della perdita

Ed è fatto di una lingua che cambia con l’avanzare del libro, della vita e delle esperienze, che all’inizio è tutta immagini, colori e sensazioni, ancora pre–razionale più che infantile, che sembra anzi parlata da una creatura che è insieme bambina e anziana. Perché è così che cresce la piccola Lejla, più con nonni e nonne che con il padre o con chi ha la sua età, ed è così che acquisisce una visione del (suo piccolo) mondo allo stesso tempo terribilmente pratica ed estaticamente fantastica.

Nella nostra metà della casa c’eravamo nonna Safeta, nonno Nedzad e io. L’inquilino Guerra pareva avesse sloggiato. Da un annetto. Ma aveva lasciato un tale disordine dietro di sé. Un caos enorme come non si era mai visto. Attendevamo che nella stanza dell’inquilino traslocasse Pace. Sembrava sempre lì, ma non arrivava mai. Noi facevamo affidamento su questo affitto. Bisognava pur vivere.

p. 13

La guerra è quella jugoslava che scoppia agli inizi degli anni Novanta e la città è Sarajevo, vista da Lejla attraverso tre punti focali: Vratnik, il quartiere dove viveva con il padre prima della guerra, Grbavica, quello dove si è trasferita durante il conflitto, e Bare, il cimitero che sovrasta la città e dove è sepolta la madre.
Lejila cresce attraverso la perdita costante: della madre, della famiglia, delle persone, della città, della libertà, dell’infanzia, dell’innocenza, di se stessa, della realtà. Cambia il modo in cui comunica con noi, con cui assimila e rielabora ciò che succede, con cui sceglie le parole che mette nel mondo e con cui decide cosa è reale e cosa no.

Ciao, mia Bella! Gli anni passano. Bella, ciao! Non so se esistono altri mondo. Non ho le risposte. Ma ti giuro che ti ricorderò con tutto il cuore. Fino a quando potrò, come potrò. Devi sapere che solo il fatto che tu fossi lì mi ha reso più facile la vita. Ma sappi anche questo: la gente passerà di qui. Verranno persone migliori e più coraggiose di me. Fotograferanno e si stupiranno […], guarderanno la città con i tuoi occhi. “Che casa stupenda”, diranno. Sì, Bella, sarà così.

p. 63
Lejla Kalamujić

Le viscere della casa e della persona

Ho scoperto dopo aver finito di leggere il libro che si tratta di una raccolta di racconti, ma non è così che l’ho approcciato.
Forse perché vengo da mesi di letture come Il libro di X, Beautiful World Where Are You, Io sarò il rovo, Il dio dei crocicchi, che scelgono forme ibride o sperimentali, oppure come Antonio di Beatriz Bracher o La dorsale – L’anno del ferro di Maria Gaia Belli, che si muovono con grazia nel tempo senza doverne rendere conto a nessunə e mantenendo il loro segreto ben stretto, o ancora come La morte e la primavera di Mercè Rodoreda, che invece è come aprirsi la pancia per scrutarsi le viscere senza aver paura di dissanguare.

Ecco, Chiamatemi Esteban viene a coronamento di questo anno di letture lontane dai canoni e, con decisa delicatezza, allunga la mano per prendere con sé anche W o il racconto d’infanzia di Georges Perec, libro che è nel mio podio dei libri. Leggerlo è stato come spaventarsi e riconoscersi, rientrare a casa e scoprire che il tetto è stato tolto – ma che ora possono entrare aria e luce.

Sono già dieci anni che veniamo qui. Entriamo nelle interiora cave della mia infanzia.

p. 52

Durante la lettura, non ho mai pensato che i capitoli fossero racconti indipendenti l’uno dall’altro: la voce è così potente che si percepiscono come fratelli, sorelle, gemellə, il sangue che corre da una pagina all’altra è il medesimo ed è inconfutabile.
Anche quando Franz Kafka visita Lejla nella casa di Grbavica e si dividono una ciotola di chifel sfornati la sera prima, capitolo che si trova tra quello che racconta del primo inverno da profuga e quello che parla della prima estate al mare dopo la guerra, non ho battuto ciglio: perché Lejla spiega a Kafka come sta funzionando la guerra, chi sono i buoni e chi i cattivi, perché abbia già letto Il processo alla sua età, perché stia cercando di dimagrire ma poi famelica mangi quasi più chifel di lui. E scopriamo che Kafka le è apparso perché lei l’ha cercato per lamentarsi del libro, che trova terribile, e lo incalza: «come hai potuto scrivere una cosa del genere? Un uomo innocente condannato a morte. Così. Senza ragione. Voglio dire, davvero? Ma quando mai si è vista una cosa così?» (p. 32) quando poco prima il loro discorso è stato interrotto dal rumore delle sirene e degli stivali dei soldati, quando non bisogna avvicinarsi alle finestre per paura dei cecchini, quando bisogna muoversi con un lasciapassare, quando non conosce altra realtà che quella di una bambina cresciuta in una città in guerra. E parlare a Kafka non è che un altro modo per parlare a noi, al mondo, all’umano.

E non importava che una storia confutasse un’altra o che venissero alla luce incongruenze: il sacro non si tocca, nel sacro si crede.

p. 8

Più mi addentravo in questo libro e più mi dimenticavo dell’Esteban del titolo, il nome con cui Lejla vuole essere chiamata da noi?, o dalla sua famiglia?
E poi arriva, all’improvviso, luminoso: è l’Esteban di Gabriel García Márquez, raccontato ne L’annegato più bello del mondo (dalla raccolta La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata, 1972, una delle mie preferite al mondo). Un uomo annegato che è corpo meraviglioso abbandonato, senza patria e senza natali, ma con un intero paese a piangerlo per rispetto, per mancanza e per perdita, corpo per il quale è impossibile non provare amore e che deve essere accarezzato e curato. Un rito collettivo che è allo stesso tempo funebre e celebrativo della vita, e Lejla vorrebbe essere amata e accarezzata così, magari anche da sua madre, perché l’unico amore che conosce è quello che si dà ai morti.

Perché Lejla è massima esperta in quella che Nutrimenti definisce, ispirandosi alla poesia di Elizabeth Bishop che Kalamujić cita, «l’arte di perdere. È una caduta a corpo libero: perdere le persone, le case, i luoghi e infine ritrovarsi sul fondo, disorientata, sola e spezzata in un ospedale psichiatrico».
E Chiamatemi Esteban è un libro autofiction, ma è anche un testo sacro sull’esperienza della perdita, personale e universale.

Lejla Kalamujić nel cimitero di Bare | da kissthebottle.org

L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento
delle chiavi perdute, dell’ora sprecata.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Poi pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta:
luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare.
Nessuna di queste cose causerà disastri.
Ho perduto l’orologio di mia madre.
E guarda! L’ultima, o la penultima, delle mie tre amate case.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, proprio graziose.
E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. È evidente,
l’arte di perdere non è difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero (scrivilo! ) disastro.
— Elizabeth Bishop, L’arte di perdere

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