Tributi alla terra

The Climate of History in a Planetary Age di Dipesh Chakrabarty – La politica alla soglia fra globo e pianeta

La letteratura ambientale attrae sempre più interesse da parte di giovanə e meno giovanə. Il desiderio di comprendere le contraddizioni del mondo in cui viviamo, infatti, passa anche dal narrarlo. Da qui nasce la rubrica Tributi alla terra, un nuovo spazio dedicato alla recensione di romanzi, saggi, fumetti (e molto altro) dove l’ambiente è protagonista in tutte le sue sfaccettature. Ogni mese, Tributi alla terra – titolo ispirato dall’omonimo graphic novel del fumettista Joe Sacco – vi terrà compagnia con nuove storie da leggere per (ri)conoscere le disfunzionalità del nostro tempo e provare a trasformarle prima di tutto con nuove parole e nuove immagini.

In che modo il cambiamento climatico riconfigura il nostro senso del politico? Di quali categorie di pensiero disponiamo per comprendere il nostro impatto geologico di esseri umani, e come ripensare produttivamente tali categorie?

Dipesh Chakrabarty, con The Climate of History in a Planetary Age (Chicago University Press, 2021), sostiene che il cambiamento climatico pone delle sfide inedite al pensiero politico, perché vi introduce una nuova categoria: quella di pianeta. In questo momento di emergenza climatica, ci troviamo infatti a vivere sulla soglia fra un concetto politico già noto (per quanto variamente connotato), il globo, e la comparsa di un nuovo concetto, il pianeta, che non si identifica con nozioni già conosciute di globo, mondo o terra, ma costituisce una categoria e un oggetto di pensiero del tutto inediti.

Il pianeta, infatti, non è categoria dello spazio politico, ma è un concetto geologico che, per la prima volta, si immette possentemente entro l’orizzonte politico. Ciò che chiamiamo ‘globo’ è il risultato storico degli imperialismi, del capitale e delle tecnologie: il nostro senso del globo è condizionato dalle storie della globalizzazione, dell’espansione e del commercio europei, che ne fanno una categoria eminentemente politica, usata per trattare di globalizzazione; il pianeta, invece, è usato per trattare di riscaldamento globale – due fenomeni interconnessi ma distinti. Parimenti, globo e pianeta sono categorie diverse ma interconnesse, ed è al loro punto di incontro che dobbiamo ripensare il politico e, con esso, l’umano. Secondo Chakrabarty, siamo giunti alla categoria di planetarietà proprio a partire dal percorso del globale: l’intensificazione della costruzione capitalista e coloniale del globo ha comportato una pratica massiccia di estrazione, sfruttamento delle materie ed emissioni atmosferiche, che ha determinato l’insorgere di questioni ecologiche planetarie, sicché il globo umano incontra il pianeta geologico.

Globo e pianeta veicolano due diverse antropologie. Il globo è un costrutto antropocentrico, poiché la narrazione della globalizzazione è a protagonismo tutto umano; il pianeta, invece, decentra gli esseri umani comprendendo attori planetari più complessi e vari: agenti geologici, astronomici, atmosferici e climatici, fra cui gli esseri viventi (per non parlare degli animali umani) fanno la loro comparsa solo in modo contingente e tardo. Per questo, secondo Chakrabarty, il pianeta introduce un problema di agency. Mentre la globalizzazione interroga l’agency umana, disegualmente distribuita nel farsi di un globo capitalista, il cambiamento climatico introduce una diversa agency: gli esseri umani da soli non sono gli unici agenti del cambiamento climatico, ma bisogna considerare processi planetari ed esseri umani come co-attori. Così, l’idea che il cambiamento climatico sia innanzitutto una questione politica e sociale, in quanto prodotto da una frattura sociale, non ci consente di distinguere gli attori umani dall’attore pianeta, e far emergere la sua indipendenza dalla struttura delle società umane.

La convergenza fra globo e pianeta ci porterà allora a riqualificare del tutto la comprensione sull’umano. Da una parte, le esperienze storiche del colonialismo e del capitalismo producono fratture fondamentali fra esseri umani; dall’altra, la specie umana è un agente geologico singolo. Siamo quindi allo stesso tempo un soggetto storico diviso e un soggetto biologico-geologico unitario: questo equivale ad ampliare la scala della nostra immaginazione sull’umano, poiché ci fa pervenire a una scala geografica e temporale più ampia, quella geologica. Se la dimensione planetaria non è esclusivamente umana, allora le prospettive postcoloniali e anticapitaliste, da sole, saranno insufficienti a renderne conto: piuttosto, bisognerà portare sotto la stessa analisi la globalizzazione (dunque la critica postcoloniale e al capitalismo) e il riscaldamento climatico (dunque le scienze della terra), come processi che si intrecciano.

La frattura sociale in seno all’umano, discussa dalla critica postcoloniale e marxista, dovrà fare i conti con l’unità agentiva della specie umana a livello geologico, in particolare analizzando la congiuntura cronologica, in età moderna, fra l’acquisizione di libertà e l’acquisizione di impatto geologico: all’occorrere della rivoluzione industriale, e dei processi eterogenei che le conseguono, l’essere umano allo stesso tempo conosce emancipazione politica, e inizia ad esercitare un impatto geologico finora inaudito, soprattutto attraverso l’estrazione massiccia di combustibili. Così, la questione dell’unità del proletariato e quella dell’unità dell’umano come specie si intrecciano e si complicano a vicenda. Questa congiuntura pone una nuova sfida alla critica degli universali, costantemente esercitata dal pensiero postcoloniale, che contesta l’unità del mondo postulata dal pensiero liberale e l’unità degli esseri umani posta dal pensiero illuminista[1].

Ripensando l’umano, Chakrabarty complica l’opposizione fra modernizzatori e modernizzati, spesso adoperata per interpretare il dominio coloniale e il suo sfruttamento della terra: se già in Provincializzare l’Europa (2000) egli evidenziò come la modernità non è appannaggio europeo, qui discute come, dopo l’indipendenza, molti leader della decolonizzazione avviarono percorsi di modernizzazione e industrializzazione che sarebbe riduttivo considerare meramente emulativi dell’Europa; in questo senso, la categoria di antropocene è accusata di perpetuare logiche coloniali di comprensione del mondo, e la giustizia climatica di mantenere una temporalità storica di sviluppo: il Sud globale, infatti, è colpito più del Nord sia dalle catastrofi ecologiche, sia dalle misure restrittive sulle emissioni di gas, che intervengono proprio durante l’industrializzazione. Il problema della giustizia climatica risulta complicato dai processi di industrializzazione e modernizzazione nel Sud globale che conducono allo stesso tempo a crisi ecologiche e a democratizzazione e miglioramento delle condizioni di vita.

Il ripensamento dell’umanità alla luce dell’introduzione del concetto di pianeta ci porta allora al compito di ripensare da capo il politico: sulla scia della riflessione arendtiana[2] sul politico come azione, capacità di introdurre novità oltre il tempo delle singole vite umane, in ottica intergenerazionale, le questioni sulla giustizia climatica, interessando l’azione umana intergenerazionale, ricadono a pieno titolo sotto il politico. Il politico risulta ora complicato dalla scala del tempo profondo geologico, che sfugge alla percezione e all’intervento decisionale umani. La necessità di far congiungere le categorie e le scale della storia umana con le categorie e le scale della storia naturale, facendo convergere la storia degli imperi e la storia del dominio di Homo sapiens su altre specie, riconfigurando del tutto le concezioni dell’umano e dell’azione umana, rifonda il politico: il politico dovrà essere rifondato su una nuova comprensione filosofica dell’umano. In particolare, sotto una scala planetaria che riqualifica l’agency come non esclusiva agli umani, la specie umana diventa una minoranza globale. Il nuovo pensiero politico dovrà allora recuperare proficuamente l’eredità intellettuale del pensiero minoritario, e non quella che assume il dominio umano sull’ordine delle cose: è qui che il pensiero postcoloniale, così come quello femminista e nero, giocano un ruolo primario nel rifondare il politico sulla premessa di una posizione minoritaria dell’umano.

In virtù di questa diversa considerazione dell’umano, la dimensione planetaria rifonda l’antropologia filosofica. Per la prima volta, bisogna pensare insieme il capitalismo e la vita della specie, e quindi il posizionamento umano in seno al globo e al pianeta interconnessi: se l’antropologia filosofica “classica” pone gli assunti della specialità dell’uomo, della sua centralità, e del suo ruolo di vedente dell’intero, questa concezione della “posizione dell’uomo nel cosmo”[3] fa del pianeta un mero contenitore di realtà naturali omogenee e sostanzialmente statiche, uno sfondo immutabile per le vicende storiche. L’avvento dell’antropocene, invece, interrompe la possibilità di questa concezione del mondo, poiché porta in primo piano il tempo profondo della storia geologica del pianeta, che ne fa non un’àncora stabile e immota per la storia umana, ma un soggetto esso stesso storico, su una scala temporale che, sfuggendo alla percezione umana, è difficilissimo pensare in un orizzonte politico. Di qui la sfida.

Il politico andrà allora riconfigurato perché comprenda nei suoi spazi elementi non umani, a partire dal pianeta, senza però che questo venga a sua volta ricondotto, antropocentricamente, a una scala umana. Il pianeta geologico diventa spazio politico, ma non per questo antropocentrico. All’emergere della categoria di pianeta, sono percorribili due strade: quella di estendere al pianeta il dominio umano, continuando con il pensiero del globo; oppure, pensare un pianeta che non appartenga più all’ordine di dominio umano creato dagli imperi europei, ma ripensare il politico e l’umano come fatti planetari, senza però smettere di affrontare i problemi di ingiustizia inerenti alla globalizzazione.

La riconfigurazione del politico voluta da Chakrabarty è particolarmente ardua poiché, mentre il globo è da sempre pensato con forme politiche ed è suscettibile di etica, politicizzazione e governabilità, il pianeta non lo è: al pianeta, anteriore alle relazioni umane col mondo, non è applicabile alcuna normatività.

Nel momento stesso in cui entra nell’orizzonte di pensiero umano, il pianeta non ci interpella allo stesso modo in cui ci interpellano le categorie di terra, mondo e globo: per questo, assistiamo a una traduzione dei concetti geologici in concetti politici, per esempio ripensando la questione della sostenibilità alla luce di quella dell’abitabilità del pianeta. La sostenibilità, intesa come sviluppo che soddisfa le esigenze della generazione presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie, caratterizza la dimensione globale, ponendo al centro gli esseri umani; l’abitabilità, invece, riguarda non solo la questione della sopravvivenza e della riproduzione umana, ma le condizioni biologiche per l’emersione della vita nel suo complesso, caratterizzando la dimensione planetaria. Nel momento attuale di incontro fra il globale e il planetario, l’abitabilità del pianeta Terra diviene una questione politica, che complica e allarga il problema della sostenibilità.

Il nuovo senso del politico dovrà riconfigurare la relazione umana al pianeta e alla materia, in modo contrario all’astrazione concettuale che caratterizza la filosofia politica: attraverso figure astratte, come l’essere umano portatore di diritti o produttore di lavoro, l’essere umano, in quanto animale politico, è separato da altre forme di vita. Invece, si tratta ora di compiere l’inverso: immaginare non solo biologicamente, ma politicamente l’essere umano come una forma di vita fra le altre, connessa alle altre.

Isabella D’Angelo


[1] Lo “spurious one-worldism of the West” contestato da Argawal e Narain, Global Warming in an Unequal World: A Case of Environmental Colonialism, 1998.

[2] Arendt, The human condition, 1958, in italiano Vita activa: la condizione umana, 1964.

[3] La posizione dell’uomo nel cosmo, Scheler, 1927.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.