Elena Gozzoli: convergenze tra Neuroscienze e Filosofia

Oggi alcuni sostengono che le neuroscienze si stanno trasformando in neurofilosofia, in quanto affrontano temi tipici del discorso filosofico quali l’identità, la libertà, la coscienza, la relazione mente-corpo, temi che non possono più essere formulati prescindendo dai risultati ottenuti in campo scientifico.

Così come viceversa la coscienza e la qualità delle esperienze soggettive possono essere spiegate dalle neuroscienze su basi neurobiologiche della percezione, dell’attenzione, della memoria, dell’apprendimento, del linguaggio, del sonno e della pianificazione delle azioni. Nell’ambito delle neuroscienze l’atteggiamento epistemologico prevalente è il materialismo eliminativo, per cui concetti quali credenza, libero arbitrio e coscienza potranno e dovranno essere ridefiniti e spiegati via via che la ricerca empirica farà luce sulla natura delle funzioni cerebrali.

Gozzoli Elena (Foto 2013)Ho conosciuto recentemente Elena Gozzoli,  Direttore dell’Area di Ricerca di Filosofia e Neuroscienze e Professore di Filosofia e Neuroscienze e di Filosofia Clinica, presso l’Istituto Superiore di Ricerca e Formazione in Filosofia, Psicologia e Psichiatria di Torino. Ha maturato negli anni una consolidata esperienza in ambito clinico e coordina progetti di Ricerca e di Formazione con particolare attenzione alla Filosofia Applicata e Interdisciplinare. Ha collaborato e collabora tutt’oggi con importanti Istituzioni Universitarie e Ospedaliere. Inoltre è Coordinatore Didattico del Corso di Alta Formazione Professionale in Philosophical Learning and Management – Filosofia Applicata (di prossima realizzazione) presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna, Affiliato all’Università Pontificia S. Tommaso d’ Aquino di Roma. Ha collaborato come Autore al volume di recente pubblicazione “Lo spazio della responsabilità. Approdi e limiti delle neuroscienze” (il Mulino, 2015, a cura di Marina Lalatta Costerbosa). Ho deciso di porle delle mie domande sul rapporto tra neuroscienze e filosofia, dimostrandosi molto disponibile – e per questo gliene ne sono grata.

Come è nato questo suo interesse per l’Interdisciplinarità? Chi l’ha influenzata nei suoi anni di Ricerca e cosa l’ha spinta a percorrere questa via all’insegna del dialogo interdisciplinare?
Sicuramente, come spesso accade, questa impostazione teorica e metodologica deriva da una serie di elaborazioni complesse, che hanno caratterizzato e che tuttora accompagnano la mia esperienza esistenziale, di formazione e professionale. La mia evoluzione conoscitiva e di comprensione è passata attraverso scelte difficili e, talvolta, sofferte. A cominciare da quando, una volta acquisito il Diploma di Maturità Classica in un Liceo di Bologna, in seguito al mio trasferimento da Trieste, dove ho frequentato il Ginnasio presso il Liceo Ginnasio “Dante Alighieri”, ho dovuto decidere la scelta universitaria da intraprendere: all’epoca, i miei interessi erano concentrati fondamentalmente e in modo pressoché equivalente su due fulcri tematici differenti, sia pure assolutamente compatibili e complementari, la Medicina e la Filosofia. Decisi, dunque, di iscrivermi alla Facoltà di Medicina e Chirurgia per poi approdare alla Facoltà di Filosofia e a quella di Scienze Psicologiche dell’Intervento Clinico.
In pratica, la sola Medicina, la sola Filosofia e la sola Psicologia, intese ciascuna in un’ottica di parzializzazione autoreferenziale non mi bastavano, né tuttora mi bastano. Dalle Lezioni del Docente di Psicopatologia Generale, Medico, Psichiatra e Psicoanalista ad orientamento Freudiano, ho maturato e sviluppato il mio interesse per le Neuroscienze, accostandomi ad Autori, quali G. Gabbard, A. Damasio, G. Edelman, M. Gazzaniga, E. Kandel, J. LeDoux, B. Libet e altri ancora. Ricordo ancora la notevole e particolare soddisfazione che provai durante lo svolgimento di quell’Esame, coronato dal punteggio di un 30 e Lode, insieme alle congratulazioni dello stesso Docente. Un altro Docente, Medico, Psichiatra ha contribuito a formarmi negli importanti e fondamentali ambiti applicativi dell’esperienza Clinica, della Cronicità, anche nell’ambito della Psicologia della Salute.
Ho appreso molto e ringrazio i Maestri di Docenza, pochi per ogni Facoltà intrapresa, ora divenuti Amici, che hanno contribuito ad accompagnarmi in un percorso conoscitivo affascinante, sia pure non certo privo di difficoltà: per contro, ringrazio anche quanti all’epoca, pur sempre stimandomi, mi guardavano, considerandomi con “sospetto” e, a volte, con una mal celata “diffidenza”, viste le mie ardite e pionieristiche tendenze al “rinnovamento” e all’“innovazione”. Li ringrazio, perché, in fondo, “il tempo” mi ha dato e mi sta dando ragione: ritengo di aver agito correttamente, perseverando negli intenti e negli obiettivi che mi ero prefissa, così come in seguito da alcuni di questi “insospettabili”, mi è stato riconosciuto. Naturalmente, quello a cui alludo non riguarda certo la mera constatazione di un successo personale, bensì la soddisfazione di vedere in via di realizzazione o realizzati, esiti di convergenza conoscitiva e di comprensione, che richiedono costanti e articolati elaborazioni e aggiornamenti.
Del resto, si sa, le fasi di Cambiamento non piacciono a nessuno e spaventano i più, dimenticando che proprio dal cambiamento possiamo evolvere in crescita. Oppure no: in tal caso, però, bisognerebbe sempre cercare di assumersene la responsabilità, concetto, oggigiorno, indiscutibilmente “desueto” e “fuori moda”. Possiamo “rinascere”, evolvendo dall’errore e dall’illusione solo rendendocene pienamente conto: naturalmente, bisogna essere intenzionati ad operare in tal senso. Attualmente, ci troviamo a gestirci in contesti poco o per nulla meritocratici, prevalentemente incentrati su troppe o troppo poche e sofisticate, ma sterili, logiche di parzializzazione autoreferenziale che, di certo, non contribuiscono a favorire processi condivisi di autentica conoscenza e comprensione.
La “parola chiave”, di accesso all’individuazione e alla comprensione delle dinamiche di Sistema, ritengo sia quella di “Complessità”. Molto brevemente, ricordo che si definisce “complessa” una totalità comprendente parti differenti unite e/o collegate insieme. Diverse le Discipline che hanno studiato e studiano i sistemi complessi, principalmente la Fisica, la Biologia, ma, naturalmente, anche la Filosofia. Le recenti ricerche Neuroscientifiche, ad esempio, approdano verso una concezione di complementarità di interazione del Sistema Mente-Cervello, abbandonando la prospettiva dualistica, di derivazione Descartiana. [In effetti, anche R. Descartes viene sempre tirato in ballo (!) e, se non fosse esistito, lui insieme alle sue teorizzazioni tematiche, naturalmente non saremmo qui a sottolineare certe divergenze di confronto, frutto di un’evoluzione del Paradigma Conoscitivo in atto]. Gli stessi sistemi sinergici interagenti che contribuiscono a caratterizzare e a definire l’universo “persona”, quali la Coscienza, i sistemi di Memoria, la dimensione Emotivo-Affettiva, le componenti motivazionali, quelle decisionali e altro, sono generate da criteri di complessità elevata e crescente: i medesimi contribuiscono a determinare l’Identità e la comprensione che noi abbiamo di noi stessi e del mondo circostante.
E ancora, si pensi a quanto la “ragionevolezza” di un processo decisionale non sia poi così “razionale”, come sottolinea anche Damasio: fondamentalmente, risulta impossibile, se non “illusorio”, riuscire a separare e a scindere la componente più propriamente cognitiva da quella emotivo-affettiva. È interessante notare come il nostro Pensiero, nei propri meccanismi e processi di elaborazione esplicativa sia costituito e proceda attraverso il determinarsi di componenti illusorie, anche di matrice inconscia, implicita, di non consapevolezza (si vedano, inoltre, l’illusione di controllo, l’ottimismo irrealistico, ecc): in tale ottica, l’Illusione acquisisce una valenza aggiuntiva e diversificata, in termini di costruttività, che, a mio avviso, andrebbe maggiormente e più appropriatamente indagata, anche introducendo nuove prospettive e orientamenti di Ricerca.
Entrambe le componenti, quella cognitiva e quella emotivo-affettiva, coesistono in una complementarità e sinergia di sistemi, sia pure mantenendosi distinte nelle loro caratterizzazioni e dinamiche di appartenenza. Pertanto, si dimostra evidente quanto giungere ad una conoscenza e ad una comprensione della Complessità non rappresenti, di certo, un dettaglio formale tra i tanti possibili, bensì una emergente necessità d’ essere e di divenire, entro contesti ambientali, caratterizzati, anch’essi, da criteri e dinamiche di complessità. In pratica, l’Interdisciplinarità risulta intrinsecamente ed intimamente connessa alla nostra natura.
La definizione di Salute proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) ne è un esempio evidente: “Salute non deve soltanto corrispondere ad un’assenza di malattia, bensì anche rappresentare il raggiungimento di un completo stato di benessere fisiologico, psicologico e sociale al quale contribuiscono fattori culturali e dimensioni sociali della persona”. Il Paradigma BioPsicoSociale intenderebbe rappresentarne un’applicazione coerente. Utilizzo il “condizionale”, perché, come spesso accade, non sempre l’applicazione pratica di certi nobili e aulici propositi si dimostra realizzata e/o realizzabile negli esiti dell’esperienza quotidiana: infatti, le frequenti variabili che intervengono e disturbano, anche e soprattutto riferite alle criticità del periodo storico che stiamo attraversando, ne ostacolano un’adeguata attuazione. Una Conoscenza autenticamente condivisa e, in quanto tale, potenzialmente efficace, resta, comunque, ancora una volta, una questione di coerenza, di responsabilità e di onestà imprescindibili. Da parte di tutti gli attori e i soggetti coinvolti. Senza dimenticare, appunto, che noi siamo responsabili della nostra Cultura tanto quanto la nostra Cultura lo è nei nostri confronti. Non creiamoci, dunque, “alibi” di comodo, tanto per mantenere una rassicurante o interessata stanzialità, magari camuffata da moto apparente.
Consiglio un’attenta lettura delle Opere di E. Morin, Autore più che mai attuale. Nella sua definizione di Pensiero Complesso, Morin parla di “consapevolezza, in partenza, dell’impossibilità di una conoscenza completa: uno degli assiomi della complessità è l’impossibilità, anche teorica, dell’onniscienza. Riconoscimento di un principio di incompletezza e di incertezza”; lo stesso Autore fa riferimento a “una tensione permanente tra l’aspirazione a un sapere non parcellizzato, non settoriale, non riduttivo, e il riconoscimento dell’incompiutezza e dell’incompletezza di ogni conoscenza”. Ciò richiama al fatto che una sana presupposizione di potenza è, comunque, raccomandabile, rispetto a facili, ma pericolose, presunzioni di onnipotenza. Dobbiamo essere consapevoli che per convergere verso una reale e coerente comprensione della Complessità è necessario aprirsi ad un nuovo modo di pensare, ad una nuova mentalità. Per fare ciò è importante una disponibilità alla creazione, ponderata e rigorosa, di nuove forme, strumenti, contenuti e modalità, in termini teorici e metodologici. Mi riferisco proprio ad una Educazione alla Comprensione, che risulti articolata in tutti i suoi possibili gradi di svolgimento, partendo dalle Scuole dell’Infanzia, per giungere a quelle Primarie, alle Scuole Medie e Superiori, fino all’Università e oltre: il rinnovamento deve essere capillare e articolato, oltre, naturalmente, a richiedere una partenza dal basso, che proceda, sin dall’inizio, in pratica sin da subito, verso una sensibilizzazione educativa sempre più strutturata e funzionalmente condivisa nella sua coerenza di realizzazione fattuale.
Soprattutto, una tale impostazione non deve rappresentare una sorta di “utopia”, bensì una concreta opportunità costruttiva entro cui ciascuno di noi può e deve assumere un ruolo attivo. Del resto, si sa, l’ho detto anche prima: cambiare i Paradigmi Conoscitivi non è facile e neanche comodo. Tuttavia, il cambiamento in sé fa parte della nostra esistenza e, in quanto tale, è potenzialmente gestibile: magari, cerchiamo di rendercene conto in modo maggiormente responsabile. “Cambiare tutto, perché, finalmente, tutto possa realmente cambiare”, tanto per stravolgere una nota considerazione di “gattopardiana” memoria.
Oggi alcuni sostengono che le neuroscienze si stanno trasformando in neurofilosofia, in quanto affrontano temi tipici del discorso filosofico quali l’identità, la libertà, la coscienza, la relazione mente-corpo, temi che non possono più essere formulati prescindendo dai risultati ottenuti in campo scientifico.
Infatti la coscienza e la qualità delle esperienze soggettive possono essere spiegate dalle neuroscienze su basi neurobiologiche della percezione, dell’attenzione, della memoria, dell’apprendimento, del linguaggio, del sonno e della pianificazione delle azioni. Nell’ambito delle neuroscienze l’atteggiamento epistemologico prevalente è il materialismo eliminativo, per cui concetti quali credenza, libero arbitrio e coscienza potranno e dovranno essere ridefiniti e spiegati via via che la ricerca empirica farà luce sulla natura delle funzioni cerebrali.

Lei si occupa da anni di Neuroscienze e Filosofia Applicata in diversi ambiti, quali Formazione, Psicologia, Psichiatria, Genomica, collaborando con importanti Istituzioni Universitarie e Ospedaliere. La Filosofia che funzione può avere – di conseguenza che responsabilità – nella comprensione della complessità delll’essere, del sé nell’attuale paradigma socio-culturale?
Per rispondere a questa sua domanda penso sia opportuno soffermarsi su una questione che ritengo cruciale e per nulla scontata, soprattutto considerati gli attuali sviluppi della Ricerca Scientifica e Neuroscientifica e le evoluzioni in ambito tecnologico e biotecnologico: l’Identità. E mi riferisco, in particolare, al rinnovamento di Identità che ciascuna Disciplina è tenuta a operare, nella prospettiva di una convergenza conoscitiva e di una condivisione efficacemente, coerentemente e responsabilmente interdisciplinare. Salvo rare e autorevoli eccezioni, nella realtà, soprattutto italiana, si preferisce “parlare” di “interdisciplinarità”, anziché procedere verso una realizzazione applicativa e sistematica della medesima: si sa, nel luogo comune, l’importante è, comunque, apparire “politicamente e formalmente corretti”. Tale atteggiamento rischia, tuttavia, di generare un’ennesima forma di parzializzazione autoreferenziale, tra le tante possibili, già disponibili, relegando a sua volta la funzione interdisciplinare alla denominazione di un’altra Disciplina: ciò significa contribuire ad un’ambiguità e ad un sostanziale fraintendimento, indotto da logiche strumentali, mosse da interessi di parte, spesso ancorate a forme di “cristallizzazione” destinate a preservare modalità di “controllo”. Non si dimentichi che il controllo rappresenta una componente di rilevante importanza nel nostro modo di pensare e di agire.
Come affermavo in precedenza, il cambiamento, in termini di rinnovamento, deve consentire un’educazione alla conoscenza e alla comprensione, entro una complementarità condivisa e realizzabile al lato pratico. Da parte di ogni Disciplina, è opportuno cercare di definire “linguaggi” comuni, tracciando percorsi tematici e applicativi, che agevolino la conoscenza e le implicazioni della complessità, per riuscire a comprendere meglio e più approfonditamente noi stessi e l’ambiente circostante, con il quale intratteniamo, volenti o nolenti, in modo responsabile oppure no, un rapporto costante, inteso in una reciprocità biunivoca: si pensi anche all’importanza dell’epigenetica, dove significativi risultano essere i fattori genetici, unitamente alle componenti ambientali.
Certo, naturalmente, ciascuna Disciplina presenta delle caratteristiche e delle peculiarità specifiche, che la identificano e la definiscono in quanto tale, differenziandola dalle altre: pur tuttavia, è possibile ed auspicabile generare un’osmosi concettuale, fattuale e procedurale tra tutti i partecipanti all’interazione. Ciò richiede competenza, impegno, determinazione, rigore, capacità di analisi, di sintesi e, come sempre, onestà e responsabilità nello stabilire i parametri di tale condivisione.
La Filosofia rappresenta un vero e proprio “catalizzatore” conoscitivo e di comprensione, in quanto esprime, in primis, una funzione educativa nella sua stessa essenza. Intendo, anche una Filosofia sempre aggiornata, disponibile e in grado di confrontarsi con i cambiamenti in atto. Una Filosofia attenta all’ascolto degli altri interlocutori disciplinari, capace di contribuire in modo efficace, coerente e responsabile, ad una crescita costruttiva del Paradigma Conoscitivo, Sociale e Culturale di riferimento. In termini di Filosofia Applicata, mi riferisco alla Figura Professionale di un Filosofo “Competente”, come sono solita definirlo.
Pertanto, essa non può e non deve sottrarsi a un compito tanto necessario quanto arduo. Del resto, come mi piace ribadire: “Quando il gioco si fa duro, i Filosofi cominciano a giocare!”. Al di là di questa mia semplificazione, ne sono sempre e più che mai convinta. Anche se, proprio all’interno della stessa Filosofia, similmente a quanto accade in tutti gli altri ambiti Disciplinari, si enucleano tenaci arroccamenti di resistenza al cambiamento: comprensibili, senza alcun dubbio, ma essenzialmente e funzionalmente dannosi, ai fini di un’evoluzione propria e di quella del proprio Paradigma Conoscitivo, Sociale e Culturale, più in generale.
Capita spesso, infatti, che Insegnamenti appartenenti ad una stessa Disciplina comunichino scarsamente tra loro o non comunichino affatto: questo non agevola sicuramente il progetto, di per sé già complesso, di rinnovamento dell’Identità e, tanto meno, saranno create le basi per una convergenza conoscitiva e di comprensione. Esprimere, in partenza, una funzione intrinsecamente disadattiva implica conseguenze rischiose che, a lungo andare, possono rivelarsi fatali e infauste, per il mantenimento della stessa sopravvivenza. È comprensibile quanto ci si debba ancora impegnare, con determinazione e sistematicità, per la realizzazione di tali essenziali e fondamentali obiettivi. Sottolineo che anche e principalmente alla Filosofia spetta l’assunzione di un ruolo attivo, nel compito di rieducazione e di ricostruzione del Paradigma Conoscitivo e Socio-Culturale: questa è la responsabilità della mission che, in diversi, ci siamo prefissi.

Le recenti scoperte delle neuroscienze pongono in discussione il dilemma millenario del «libero arbitrio». La preoccupazione è infatti che la comprensione dei meccanismi biologici del cervello possa minare le nostre credenze su di esso e sulla responsabilità morale. Si riattualizza pertanto il dualismo filosofico tra mondo «deterministico» (tutto è stabilito da Dio o dalla fisica) e «libertario» (tutto è casuale). Ha collaborato recentemente al libro “Lo spazio della responsabilità. Approdi e limiti delle neuroscienze” (2015). Come possono le neuroscienze giustificare la responsabilità del dato tra assunti teorici e realtà applicative?
Come affermavo in precedenza, si deve essere pronti al cambiamento, alle proposte e alle possibilità teorico-metodologiche che inducono il medesimo. La Conoscenza, la comprensione evolvono e il nostro Pensiero dovrebbe evolvere, anch’esso, in modo coerente, proporzionato e conforme ai criteri implicati nel cambiamento stesso.
La formulazione di nuove ipotesi e prospettive, certo, può contribuire a cambiare radicalmente, oppure a modificare in parte, determinati aspetti conoscitivi, insieme alle loro articolazioni di sistema. I Paradigmi passano e crescono anche attraverso “rivoluzioni Copernicane”. Per quanto riguarda la questione del “libero arbitrio” e della “libertà di scelta”, i contributi del Neuroscienziato B. Libet e dei suoi Collaboratori hanno suscitato grande interesse e scalpore, offrendo un contributo rilevante negli sviluppi della panoramica recente. È opportuno, tuttavia, soffermarsi su alcune considerazioni introduttive.
La questione della Coscienza, definibile come uno stato di consapevolezza percettiva e/o di attenzione selettiva, riassumibile, per l’essere umano, nella consapevolezza di essere consapevoli, è un dato imprescindibile: essa consiste in un processo e non in una cosa o in un luogo determinati, come ricorda anche G. Edelman. Si consideri il fatto, anche questo ineludibile, che, la soggettività dell’esperienza cosciente rimane attualmente un’incognita per la Ricerca Scientifica. Oltre a constatare la molteplicità, la multidimensionalità dinamica e la variabilità dei sistemi complessi implicati. La Coscienza è irriducibilmente soggettiva e risponde a criteri e ad esigenze di complessità. Difficile pensare di riuscire a giungere ad una comprensione della soggettività di coscienza attraverso gli attuali strumenti e metodologie messi a disposizione dalla Ricerca Scientifica: per quanto evoluti e sofisticati, gli stessi si rivelano, comunque, ancora inadeguati e insufficienti. Forse, un giorno riusciremo ad azzardare una “neurobiologia” di senso e di significato, oppure no, irrimediabilmente, a causa degli insormontabili limiti presenti nei nostri processi mentali e nel nostro cervello. Non si dimentichi l’importante ruolo svolto dal concetto di “limite”, nella sua valenza strutturale e funzionale: come ho sempre sostenuto, è possibile riferirsi ad una coerenza del limite, in quanto necessità biologica e di comprensione. La capacità nasce anche dalla selettività del limite.
Altra questione importante, le componenti inconsce, implicite, di cui non abbiamo consapevolezza, che sono potenzialmente rilevanti e determinanti nel nostro pensiero e nella nostra azione. Il fatto che noi non percepiamo una determinata cosa, non significa che questa non esista e nemmeno che la stessa risulti insignificante e ininfluente nelle nostre decisioni e nel nostro modo di agire. Allo stesso modo, però, neanche le componenti esplicite, di cui noi abbiamo o crediamo di avere una consapevolezza, si rivelano poi così definite e scontate. Quello che noi siamo, in ogni istante della nostra esistenza, esprime dinamiche di cambiamento continue e in costante evoluzione: il pensiero non è mai uguale a se stesso, così come il percepire e l’agire, entro la nostra esperienza esistenziale.
Si sa, in natura, non esistono due cervelli identici, neanche nel caso dei gemelli omozigoti, che condividono il medesimo patrimonio ereditario; pertanto, ogni cervello risulta essere significativamente unico e ha impresse in sé, in modo irripetibile, le conseguenze della propria storia, considerando il suo sviluppo e le esperienze vissute. La plasticità, ad esempio, detta anche “modificazione plastica”, riassumibile come la capacità di cambiare in base all’esperienza, svolge un ruolo rilevante nelle funzioni di memoria e di apprendimento: ciò consente di attivare strategie adattive, volte al mantenimento della sopravvivenza. La memoria, unitamente ai suoi sistemi, esprime le proprie potenzialità strutturali e funzionali in termini di passato di presente e di futuro: ci è possibile ricordare un evento trascorso, gestire il presente e pianificare una progettualità futura, entro una sinergia costante dei sistemi implicati. Si pensi anche alla working memory, estremamente sofisticata e implicata in ogni forma di pensiero e di problem solving. Ulteriore aspetto, il processo di rievocazione è soggetto a continui cambiamenti ed è, inoltre, caratterizzato da ridefinizioni e da ristrutturazioni costanti: cambiano i contenuti, ma anche i significati che noi attribuiamo agli eventi. In pratica, se è possibile descrivere in termini generali la configurazione complessiva delle connessioni entro una determinata area cerebrale, pur tuttavia, la variabilità microscopica del cervello nelle sue ramificazioni più sottili, a livello neuronale, risulta essere immensa. La variabilità individuale garantisce il controllo della capacità del cervello di rispondere e, altresì, di associare le innumerevoli e le imprevedibili situazioni, che possono verificarsi in futuro.
Tornando a B. Libet, il quale, nei suoi esperimenti, si era ispirato a quelli svolti in precedenza dal Collega H. Kornhuber (1976), di certo, ha sollevato questioni rilevanti, aprendo a scenari per nulla scontati: detto molto brevemente e semplicemente, nei suoi esperimenti, si evidenziava come dalla semplice osservazione dell’attività elettrica cerebrale, fosse possibile prevedere quello che una persona avrebbe fatto (esecuzione di un atto volontario, come previsto dalla procedura sperimentale), prima ancora che la persona fosse effettivamente consapevole di avere deciso di farlo. Se si considera la scelta determinata nel cervello prima che si decida di agire, viene da chiedersi se la nostra sensazione di “decidere” i nostri movimenti rappresenti, anche qui, un’“illusione”, una sorta di razionalizzazione a posteriori di qualcosa che è già accaduto. E ancora, la scelta può essere compiuta sì liberamente, ma non consciamente, dettata da un’inferenza inconscia. In cosa consiste, allora, il “libero arbitrio”? Come si può essere ritenuti “responsabili” di decisioni e di azioni che sono compiute senza esserne “consapevoli”? (Vanno qui distinte una consapevolezza di primo e una di secondo livello).
Si comprende bene quanto un tale interrogativo possa generare derive di pensiero alquanto pericolose e destabilizzanti: diversi Studiosi hanno cercato di porre dei limiti rigorosi a tali considerazioni, adducendo che, se la nostra mente cosciente può non possedere una libera volontà, sicuramente possiede una libera non volontà. Secondo Libet stesso, lasciando aperta la prospettiva della possibilità del “libero arbitrio”, se sono forze inconsce quelle che danno il via all’inizio del movimento, esiste pur sempre il tempo di porre il veto e di inibire l’azione stessa, appena si sia consapevoli delle proprie intenzioni. Altri Autori, invece, dissentono da tale posizione. La questione, comunque, a tutt’oggi, rimane aperta. Pur tuttavia, come sostiene Gabbard, resta il fatto che noi siamo “consciamente confusi e inconsciamente controllati”. La responsabilità, anch’essa, risponde a criteri di Complessità. Quindi, ancora una volta, dobbiamo impegnarci per ulteriori sviluppi ed evoluzioni delle metodologie di Ricerca.

Proprio lo scorso anno Milano ha ospitato il 9° Fens Forum of Neuroscience, conferenza biennale della Federazione Europea delle Neuroscienze, con la partecipazione di oltre 5.000 ricercatori da tutto il mondo. I neuroscienziati a livello internazionale discutono dell’apporto delle neuroscienze ad alcuni aspetti rilevanti per la vita e la conoscenza dell’uomo (si indaga l’empatia, la capacità creativa, il rapporto che c’è tra estetica e utilità, i risvolti nel funzionamento della mente umana, i collegamenti tra le decisioni al modo in cui funziona il cervello e i processi decisionali). Come ritiene sia percepito dai neuroscienziati il connubio con la Filosofia? Quali sono gli esiti concreti ed efficaci di tale connubio interdisciplinare?
Personalmente, ritengo che molti passi avanti siano stati fatti, ma che molti altri ancora debbano essere fatti, dall’una e dall’altra parte, considerando il rapporto Neuroscienziati e Filosofi, Filosofi e Neuroscienziati. Alla luce di quanto ho affermato in precedenza, la realizzazione di una convergenza e di una prospettiva concretamente interdisciplinare, in termini teorici e metodologici, deve procedere attraverso una legittimazione normativa sistematica, estesa e articolata in modo capillare, di contenuti e di metodi riconosciuti e condivisi in una tale impostazione educativa di riferimento.
Ogni Equipe, Gruppo di Lavoro e di Ricerca dovrebbe includere, al proprio interno, anche il Filosofo, in quanto Filosofo Competente, aggiornato e disponibile al confronto con le opportunità di rinnovamento, così come il Filosofo, a sua volta, dovrebbe riuscire ad accogliere il contributo di altre Figure Professionali di diverso ambito Disciplinare. Esistono realtà di Ricerca, Scienziati e Neuroscienziati illuminati, che già attuano e sostengono tale impostazione, richiedendo, più o meno apertamente, il contributo Filosofico: del resto, è comprensibile quanto l’esercizio sistematico del “riduzionismo” necessiti di ulteriori riferimenti, anche diversi tra loro. L’essere umano è anche “riduzionismo”. Certo, un “sano” riduzionismo è necessario al fine di produrre il dato: senza i criteri di misurazione, di quantificazione, ecc. non sarebbe possibile creare un riferimento più o meno definito e, in quanto tale, specifico. Ciò significa, altresì, stabilire dei parametri di “controllo”, rassicuranti e necessari al fine di una potenziale gestione dei fenomeni implicati e indagati. Tuttavia, in determinati ambiti di Ricerca, è bene fare particolare attenzione nell’“esaustivizzare” la valenza del dato: soprattutto quando ci si riferisce ai criteri di comprensione e alla complessità del nostro universo mentale-cerebrale. È sconcertante dover riconoscere che, a differenza delle realtà estere, le quali dimostrano, comunque, una maggiore sensibilizzazione in tal senso, in Italia, purtroppo, determinate realtà siano relegate alla sporadicità di “isole felici”, punte di eccellenza, entro un contesto generale – ahinoi – alquanto desolante e progressivamente sconfortante. Spesso, nel quotidiano, capita di imbattersi in confronti “di facciata”, dove l’osmosi di cui parlavo in precedenza non è volutamente realizzata, bensì osteggiata, dietro ad una mera parvenza di confronto, che altro non rivela se non un ostentato sfoggio di parzializzazione. Si sa, una concreta e coerente costruzione interdisciplinare è indubbiamente faticosa.
Riguardo ai contributi della Filosofia che, sicuramente, riguardano uno spettro molto ampio di azione, mi piace ricordare, ad esempio, anche le prospettive di Ricerca riferite al concetto di enhancement, “potenziamento” e/o “miglioramento”, tanto menzionato, auspicato e decisamente abusato, quanto ignorato nei suoi risvolti e implicazioni più essenziali. Si pensi, in particolare, all’enhancement cognitivo, alla possibilità di manipolare i sistemi di memoria, cancellando o creando ex novo un ricordo, tanto per dirla molto semplicemente. Questi Studi nascono dall’intenzione di trattare determinati disturbi, si pensi, ad esempio, al Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD), ma poi, senza alcun dubbio, il campo di azione si può ampliare, articolandolo con ulteriori obiettivi. Tanto per intenderci, un conto è cercare di “riparare” un cervello danneggiato, tutt’altra questione l’andare a produrre una o più alterazioni, in termini di qualità e di quantità, nell’ambito di determinate funzioni, intese in un contesto di “normalità”. Si pensi a quanto la Memoria contribuisca nella costruzione della nostra stessa Identità. Intaccando e alterando determinati sistemi, potremmo persino giungere a produrre una sorta di “umanità seriale”: anche questo potrebbe rivelarsi utile, al fine di generare e mantenere l’esercizio del “controllo”, da parte nostra e, soprattutto, di altri. Esistono orientamenti di Ricerca, espressi anche nelle loro correnti più radicali, volti all’eliminazione e al superamento dello stesso concetto di “limite”, elemento intrinseco nella natura umana.
È comprensibile quanto l’Etica, unitamente alle sue implicazioni, emerga sempre e in ogni questione. Anche in questo caso, però, rischia di assumere i toni di un “discorso di parte”, vagamente e banalmente “buonista”, di certo autorevole, ma per definizione scontato, frammentato e appiccicato qua e là, finalizzato a circostanze “di comodo”, alla stregua di una Disciplina a se stante, più che mai autoreferenziale: al contrario, l’Etica dovrebbe essere considerata la Disciplina entro la quale fare interagire tutti i campi di azione. Da una tale prospettiva siamo ancora lontani: probabilmente, nell’evidenza dei fatti, la tendenza sta procedendo in tutt’altra direzione. In tal senso, il ruolo anche politico della Filosofia è facilmente intuibile e ritengo debba essere incoraggiato.

Nell’interazione tra neurologia e filosofia, nasce la «neurofilosofia». Si parla oggi di neurologia, connettendola alle discipline più diverse (l’economia, l’estetica, la teologia, la politica, il neuromarketing), perché non così spesso ancora di neurofilosofia, in particolare in Italia? Forse perché sostenendo la possibilità di descrivere l’uomo in modo oggettivo si porrebbe fine all’era della soggettività, il complesso diverrebbe reale? Ponendole questa domanda, penso al filosofo della mente Thomas Nagel, nel celebre articolo «Cosa si prova ad essere un pipistrello?», sosteneva che «qualsiasi teoria della coscienza che tiene fuori l’aspetto soggettivo elude il problema».
È chiaro quanto il dilagare di un’impostazione improntata sulla “neuromania” stia generando anche inevitabili forme di “neurofobia”. Superando la concezione “cardiocentrica”, siamo approdati ad un riferimento “encefalocentrico”, “neuro-centrico”, per di più, spiccatamente “antropocentrico” (e anche questo rappresenta, di fatto, un limite). Certe definizioni comportano, tuttavia, il rischio di degenerare in tante frammentazioni autoreferenziali, spesso lontane da una condivisione comune di senso, per la quale è consigliabile adoperarsi.
Detto questo, in parte ho già risposto in precedenza. La realtà italiana presenta delle importanti problematiche di fondo, essenziali e fondamentali, per nulla marginali: ciò diventa necessariamente anche un fatto sociale e culturale, riflettendo falle e lacune rilevanti. Generare una “nuova mentalità” richiede impegno costante, determinazione e, indubbiamente, la volontà di farlo, imbarcandosi in un’impresa affascinante senza alcun dubbio, sotto il profilo di una crescita conoscitiva e di comprensione, ma altrettanto scomoda, ai fini di una preservazione degli “interessi” di parte. La responsabilità di una scelta, in tal senso, richiede una certa urgenza, oltre che, naturalmente, la dovuta attenzione.
L’“oggettivazione” può rappresentare una soluzione “comoda”, ai fini di una maggiore gestibilità di uno o più sistemi; non necessariamente essa è in antitesi con la componente più propriamente “soggettiva”. La “soggettività”, di per sé, risulta complessa e anche reale, in tutta la sua concretezza. Si pensi alla soggettività dell’esperienza cosciente sulle cui considerazioni mi sono soffermata prima. Tra l’altro, l’unicità, la soggettività, l’esclusività della Persona sono confermate anche sotto il profilo biologico: ciò non contraddice, di fatto, la complessità.

Nel 1986 la neurobiologa Patricia S. Churchland, neuroscienziata con preparazione filosofica, col libro Neurophilosophy Toward a United Science of the Mind-Brain – pronunciadosi sul materialismo eliminativo – propose di introdurre strutturalmente, nella filosofia della mente, i dati delle neuroscienze cognitive per indagare la natura della coscienza. Il materialismo eliminativo implica sul piano metodologico un approccio naturalistico, in quanto assume che nessun metodo a priori possa da solo far scoprire la natura della mente, e che sia possibile spiegare in termini di attività nervosa, di evoluzione del cervello e di interazione tra cervello e cultura anche scelte e responsabilità morali. Una proprietà emergente è una proprietà scientificamente spiegabile, non una proprietà non fisica non spiegabile dalla scienza.
Qualche anno fa Francisco Varela coniò il termine neurofenomenologia differenziandola dalla cosiddetta neurofilosofia di matrice angloamericana. Nell’integrazione tra approccio in prima persona e terza persona Varela propone un nuova direzione anti-riduzionista di ricerca nell’affrontare la coscienza che superi le tradizionali dicotomie soggettivo-oggettivo, corpo-mente, interno-esterno. Lei che tipo di posizione appoggia?

Non ritengo contraddittorio affermare che le apprezzo entrambe. Anche i contributi di Patricia Churchland derivano dall’evoluzione di un determinato Paradigma Conoscitivo, così come è avvenuto per Francisco Varela, sia pure in posizioni chiaramente differenziate. Del resto, in una sana e autorevole gestione della “complementarità”, penso sia importante conoscere l’apporto di Patricia Churchland per poter riuscire ad apprezzare pienamente le posizioni di F. Varela.

I filosofi Owen Flanagan e David Barak hanno felicemente battezzato Neuroexistentialism nel 2010 lo sconcerto universale causato dalle neuroscienze. Affermano che la terza ondata esistenzialista – prima quella caratterizzata dagli scritti di Kierkegaard, Dostoevsky e Nietzsche e poi quella personificata filosoficamente da Sartre, Camus e de Beauvoir – si è sviluppata in risposta alle nuove scoperte neuroscientifiche che minacciano le ultime vestigia di un’anima immortale. Con il crescente potere esplicativo e terapeutico delle neuroscienze, la mente fornisce il fondamento del significato del mondo. Cosa ne pensa di tale tesi?
Le Neuroscienze stanno sicuramente contribuendo a formare e a condizionare la nostra esperienza esistenziale: è inevitabile. La nostra comprensione sta cambiando, insieme al modo di considerare noi stessi, l’ambiente con il quale ci relazioniamo, la nostra welthanschauung, visione del mondo. Prima ancora, la scoperta del gene, il sequenziamento e le evoluzioni della genomica e della proteomica.Ricordo, inoltre, quanto anche dopo S. Freud, il Complesso di Edipo si sia innestato all’interno del nostro Paradigma Culturale, contribuendo a cambiarlo: ragionare “in termini edipici” diventava naturale, un atto quasi “banale” nel quotidiano.
Al di là di un timore “fisiologico” nei confronti del cambiamento, l’ignoranza e/o la negazione non fanno che alimentare derive di approssimazione e forme di paura altrettanto inquietanti, essenzialmente disfunzionali alla comprensione della complessità che ci caratterizza in quanto tali. Non riconoscere, bloccare o deviare l’evoluzione di un flusso conoscitivo in rapida e costante evoluzione sarebbe fuorviante per la nostra stessa crescita e comprensione:è, tuttavia, essenziale educare e partecipare alla costruzione di un Progresso coerente e responsabile, possibilmente anche efficace nei suoi esiti di applicazione all’esistenza, entro criteri condivisi di Civiltà.
Per quanto mi riguarda, l’“immortalità dell’anima” non risulta necessariamente compromessa: come sempre, dipende da come si intende porsi nei confronti di tale questione.

Per indicare (anche se in modo non chiarissimo) gli stati d’animo personali, tentando di riempire un «explanatory gap» (una lacuna esplicativa) in cui sono incappati i neurofilosofi si è introdotto il termine «qualia» (plurale del latino «quale»). Il cosiddetto “problema dei qualia” consiste nel tentativo di spiegare scientificamente i caratteri qualitativi inesprimibili del sentire individuale, cui soltanto noi stessi possiamo accedere. È necessario ammettere che i qualia sensoriali potrebbero davvero essere delle entità metafisiche intrinsecamente semplici e indiscutibili, che le scienze fisiche non saranno mai in grado di avvicinare.
Tuttavia, a queste argomentazioni è opportuno replicare che non siamo ancora in possesso della conoscenza necessaria a verificare tale ipotesi, che è alla ricerca che spetta determinare le caratteristiche dei qualia e che una teoria degna del massimo rispetto, derivata dalle scienze fisiche, si sta già confrontando approfonditamente con i fenomeni in questione, riportando successi tutt’altro che insignificanti. Che ne pensa?

I Qualia, definibili come discriminazioni multidimensionali, rappresentano ancora una sorta di enigma per la Ricerca Scientifica. Se e quando, come dicevo prima, si riuscisse ad indagare la soggettività dell’esperienza cosciente, di conseguenza si assisterà ad una sorta di rivoluzione all’interno dello stesso Paradigma Scientifico e Culturale, più in generale. Questo traguardo, senza dubbio ambizioso, potrebbe essere raggiunto con ulteriori e importanti sviluppi anche nelle metodologie implicate nella Ricerca. Rimaniamo propositivi!

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