Mio fratello – La scrittura, il teatro e Melville per accettare il dolore

Dopo Un amore esemplare, graphic novel dolce, divertente e sincero illustrato da Florence Cestac con testi di Daniel Pennac, quest’ultimo è tornato qualche mese fa in libreria con una sorta di memoir, un piccolo libro intimistico e profondo intitolato Mio fratello (tradotto da Yasmina Melaouah, storica traduttrice dell’autore francese, e pubblicato da Feltrinelli).Mio fratello è prima di tutto una dichiarazione d’affetto e di stima nei confronti di Bernard, fratello morto di Daniel che si spoglia dei suoi sentimenti più profondi di fronte al lettore. Attraverso le sue parole, Pennac esprime un dolore vero, straziante: «Era morto da sedici mesi. La sua presenza mi mancava. Abitavamo a settecento chilometri di istanza, ci vedevamo poco ma ci telefonavamo spesso. Nelle prime settimane dopo la sua morte mi è capitato di alzare il telefono per chiamarlo. Smettila. È una cosa da mentecatti. Riattaccavo senza aver fatto il numero, accusandomi di essermi lasciato andare a una piccola sceneggiata di lutto fraterno. Passati sedici mesi, mi mancava ancora, ogni giorno».
Pennac vorrebbe credere che suo fratello sia sfuggito alla morte per la terza volta, la prima volta era stato per un suicidio non riuscito, la seconda per un’operazione da cui era uscito miracolosamente vivo. Ma poi suo fratello glielo porta via una clinica privata, “praticano una resezione della prostata, perforano accidentalmente l’intestino, infezione diffusa, e tuo fratello muore di setticemia”.

L’autore utilizza la scrittura per metabolizzare l’assenza di Bernard, riempie i fogli con ricordi e momenti d’infanzia, alla fine del libro c’è anche una fotografia che li ritrae seduti su un muretto a piccoli. Bernard tiene Daniel con le mani, in modo protettivo e non possessivo. È una foto in bianco e nero, da cui traspare il risolino divertito di Daniel e lo sguardo fiero del fratello più grande.

Ma oltre alla scrittura, Pennac metabolizza il lutto grazie alla lettura ad alta voce. Dopo la morte del fratello, quei sedici mesi dopo, gli torna in mente Bartleby, lo scrivano di Melville e comincia a portarlo nei teatri dove la gente va perché legge i suoi romanzi e lo conosce.

La maggior parte degli spettatori non veniva per Bartleby, ma per me. Molti di loro erano miei lettori. Quindici anni prima avevo pubblicato Come un romanzo, una riabilitazione della lettura ad alta voce, e oggi venivano a sentirmi leggere ad alta voce. Venivano a sentire il loro autore che ne leggeva un altro. Grazie alla magia del teatro, però, appena cominciavo a leggere, io sparivo per lasciar posto a Herman Melville.

È proprio grazie a Melville e al suo Bartleby che Daniel tiene vivo il ricordo di suo fratello e, l’inserimento – nel libro – di appunti usati per portare in scena l’opera di Melville, fungono da pause, brevi e calibrate e permettono al lettore di entrare in contatto, seppur lontanamente, con Bernard. Un fratello di cui Daniel, scrivendo, si accorge di non sapere poi così tanto: «Se dovessi riassumere la vita di mio fratello, dire che fu innanzitutto il figlio e fratello preferito di una famiglia di quattro maschi, poi il dirigente stimato a capo di una ventina di operai di cui si era preso la briga di imparare il mestiere, poi il padre adottivo di due bambini fortunati, poi il padre sgomento di un bambino quasi morto, quindi l’anima parkinsoniana di una vecchiaia senza amore».

Dopo la saga dei Malussène e tantissimi altri libri, Pennac ha deciso di donare al mondo un libro personalissimo e toccante, come un cantastorie ci narra della sua infanzia, della vita di Bernard, ma soprattutto cerca parole per raccontare il lutto e l’assenza. Inutile dire che le trova le parole, eccome se le trova.

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