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Il sole sulla città

di Natalia Guerrieri

 

Il corpo è piccolo, sottile. Così basso da non sembrare nemmeno un corpo, tanto meno lì, steso in mezzo alla strada, distrutto.

Ha frenato, troppo tardi. Ha pensato di gridare ma non ha gridato. I capelli le scendono sul viso, in ciocche umide. Sudore, sporcizia, le tracce della città.

Cammina, dove va? Arriva davanti a un posto. Da fuori non si capisce che genere di locale sia, né che gente ci sia dentro. O forse sì. Forse è quello che cerca. Ci si butta dentro, sorridendo fino a sentire male a due uomini appollaiati su alti sgabelli. Ciao puttana. Ciao come ti chiami vuoi il mio numero, sussurra lei d’un fiato, senza pensare né a loro né a se stessa – tutto ciò che vuole è distruggersi. Fatemi fuori.

Lavati le mani, così, guarda. Mostrargli il movimento con le sue mani bianche, la pelle sempre spaccata, piene di tagli per colpa del farmaco. Non resistere, prendere le mani di lui, piccole, color nocciola, toccarle, sudate, sentirne il calore e sfregargliele lei stessa sotto l’acqua, palmo contro palmo, con il sapone che fa la schiuma. Guardargliele, insaponate, sospese sul lavandino, impacciate, in attesa di lei. Era il suo bambino.

Sì perché no, scrivimelo qui, non se n’è neanche accorta ma uno dei due, non riesce bene a distinguerli, le porge una penna. Si alza la maglietta, sopra l’elastico dei boxer lascia scoperta la carne bianca, flaccida, punteggiata da una peluria biondiccia. Ha davanti due uomini seduti su degli sgabelli. È in un locale. È al Marais? È a Porte de la Chapelle? C’è una bella differenza. Scrivimelo qui, il tuo numero, dai. Ridono. Uno dei due non ha i denti? Cavità informe al centro della faccia. Chi sono questi uomini? Lei prende la penna, la stringe in mano. Inizia a scrivere il suo numero sul suo fianco molle, che trema, lui ride. Gli sta facendo il solletico ma si ferma a metà, tira una linea affondando la punta nella carne, l’uomo la scansa, spingendola. Putain, tu fais quoi. L’altro si alza in piedi e la tira per i capelli. Il dolore è lontano, arriva attutito al cervello, come tutto il locale le pare offuscato da una nebbia impossibile, forse fumo. Non è lì, comunque. Lei non è lì.

È scesa a guardare il bambino. E gli è sembrato lui. Anche se non può esserlo. Ha le guance leggermente paffute, gli occhi e i capelli neri, il maglioncino sollevato sulla schiena, i pantaloni troppo larghi. Una delle due scarpette da ginnastica è volata via, lasciando scoperto un calzino azzurro. Lo ha toccato, sui capelli. Ha appoggiato le dita sui suoi riccioli neri. La gente ha iniziato a fermarsi, a indicarla. Li percepisce attorno a sé, senza guardarli, come un animale. I passanti sono predatori sonnolenti, tutt’intorno. Deresponsabilizzati. Impiegano un’infinità di tempo per accorgersi che –

Il bagno è piccolo, buio, lurido. Ma c’è un barista, c’è un proprietario? In questa città li odiano quelli come lei. Un giorno aveva dei collant, sulle cosce bianche. Un barbone seduto per terra insieme a altri barboni l’aveva minacciata di ammazzarla. Meriteresti di morire. E lei aveva sceso i gradini della metropolitana immaginando le macchie del suo sangue, per terra, destinate a scurirsi sotto i passi di centinaia di scarpe. Se c’è un titolare sarà nella stanza affianco a scrollare le spalle, l’aveva vista lui che scriveva il numero di telefono sulla pancia di quello che l’aveva poi trascinata in bagno per i capelli (o era quell’altro?)

C’è uno specchio, così può vederlo dietro di sé. Un omone, massiccio, corpulento, con la barba. Ma chi è? Cerca di guardare se davvero non abbia i denti. Sullo specchio ci sono schizzi di ogni tipo. Guarda se stessa su quello specchio, ha del sangue sulle labbra tagliate, colpa del farmaco. Si accorge appena di quando lui le prende il collo. Ricomincia: putain, putain. La spinge contro il muro, la soffoca. Lei pensa che potrebbe morire lì, in mezzo al piscio rappreso sul pavimento, agli schizzi, ma anche questo lo pensa appena, in maniera confusa, potrebbe essere che morirà in quel bagno, non accorgendosene quasi. Lo guarda in faccia. I denti ci sono, almeno gli incisivi… Il suo alito le arriva dritto in faccia. È ubriaco, fatica a reggersi in piedi. Lo spinge via da sé, scivola contro la parete, esce dal bagno. Nel locale nessuno fa caso a lei, non c’è nemmeno più quell’altro, l’amico di quello che è rimasto piegato sul lavandino del bagno. 

Una chiazza di sangue si stende sotto di lui, sotto il piccolo corpo. Del sangue. L’impatto ha provocato – 

ha fatto per girarlo, prendendogli la testa, appoggiandoci sopra le labbra. È caldo. Cosa fa! Cosa, cosa! Hanno iniziato a urlare. Pardon, madame, madame, madame, madame, ma madame non è lei. Perché lei è lì, in quella città, a farsi chiamare madame? E cos’è successo, cosa cazzo è –

Fuori, il sole abbaglia. Non riconosce quella zona. Ha un taglio su una gamba, la caviglia appiccicosa, ci sono delle macchie sugli stivaletti neri con il tacco. Dove va adesso?

Rue de Montparnasse, Rochechouart, Avenue De Clichy. Tutto è uguale.

Una donna le sorride, davanti a una brasserie. Fuma. Ha le fossette sulle guance, i capelli rossi tinti, legati in una coda, è più giovane di quello che sembra. Vieni dentro, mangiati una bella bistecca, madame, come ti chiami, sei espagnola, russa, italiana? Dasvidania, sì? Che bei capelli, ma cosa hai fatto alla guancia? È il farmaco, ma chi è questa donna, cosa vuole? E cosa hai fatto alla gamba, sanguina! Torna con un fazzoletto imbevuto d’acqua e un menu. Non perde tempo. Cosa mangiamo oggi. Ti piacciono le pommes de terre, certo che ti piacciono, non sai ordinare, ordino io per te, una bella bistecca con le patate, la salsa, la Coca-Cola, sì?

È successo che il bambino sta attraversando la strada, da solo, e lei sta guidando la macchina. Il bambino non è sulle strisce pedonali, non è accompagnato da nessuno. E lei non lo vede. E per questo non c’è un motivo, una spiegazione, non c’è nessun senso. Che una macchina per strada, in Avenue des Poissonniers o in Rue Saint Denis possa non frenare in tempo, mentre il sole è alto sulla città e le persone corrono sui marciapiedi, e lui, il suo bambino, che non è proprio suo figlio ma per il quale lei è diventata una madre, se ne è già andato da tempo. Il padre lo ha portato lontano da lei, oltre il mare, fuori dall’Europa. Non c’è un senso nel fatto che questo altro bambino, che è quasi uguale a Nadir, stia attraversando la strada proprio in questo momento. Mentre lei è distratta forse, probabilmente, anzi quasi sicuramente perché sta pensando all’altro bambino, il suo. Anche lui con i riccioli neri, anche lui con la pelle color nocciola che è volato via dalla Francia con il suo papà lasciandola per sempre. 

Non voglio la bistecca, non voglio la Coca-Cola. La donna ha tutti i capelli sulla faccia, scompigliati, le urla addosso che invece la bistecca ora madame se la deve mangiare, ora che l’ha ordinata e fatta cuocere con contorno di patate. La sua bocca è enorme, dipinta di viola, e grida, mentre lei esce tappandosi le orecchie, farfugliando qualcosa, piegata in due, faticando a camminare. Il sole è accecante, troppo alto, troppo bianco, non finirà mai questa giornata.

Lei si è chinata sul bambino morto, sull’asfalto, gli ha baciato una guancia, tiepida, godendo del suo odore e del calore. Avrebbe voluto sollevare il corpo da terra e stringerselo al petto. Avrebbe voluto prendergli le mani piccole tra le sue, insaponargliele e asciugargliele una volta rientrati a casa. Premere le labbra contro la testa di capelli ricci, neri. Ma la gente tutt’attorno ha iniziato a urlare e lei è scappata, senza sapere dove, lasciando la portiera della macchina aperta, la folla ora non più indifferente ma inferocita, il bambino che ha ucciso investendolo con la macchina per terra, in mezzo a una strada di Parigi. Il corpo del bambino uguale a suo figlio. 

 

I diritti della foto in copertina appartengono a Emanuele D’Antonio.

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