Ragazze che hanno alzato la voce: intervista a Laura Gramuglia

Pensate ai vostri artisti preferiti, magari in campo rock e hip hop. Cinque nomi, non di più. Per piacere, fatelo senza starci troppo a pensare, usate l’istinto.

Quante artiste avevate messo in lista? Poche, vero?

C’è un assunto molto comune secondo cui la storia viene raccontata dai vincitori, o comunque da una classe dominante. Forse la storia della musica non ha molte differenze: tante artiste di talento hanno dovuto sopportare etichette, stereotipi, un’industria musicale che voleva plasmarle e in un certo senso anestetizzare le loro asperità, un pubblico che non perdona nulla, soprattutto il loro essere donne.

Rocket Girls, edito da Fabbri Editori, nasce per raccontare una realtà diversa,  e omaggiare 50 grandissime artiste e le loro vite, rivendicando la loro influenza e il loro incredibile talento. Ma attenzione, non stiamo parlando di un’enciclopedia o una banale antologia: Laura Gramuglia, una delle migliori storyteller musicali in Italia, ci trasporta tra la Storia e le storie, dando vita ad una playlist che parla di ostacoli da superare, provocazioni, orgoglio. In una sola parola: rivoluzione. Il tutto accompagnato dalle splendide illustrazioni di Sara Paglia.

Ne abbiamo parlato con l’autrice, che ringraziamo per la gentilezza e l’entusiasmo.

Laura Gramuglia

Laura Gramuglia

Rocket Girls nasce come  volume illustrato, per poi diventare una fortunata trasmissione su Radio Capital. Com’è stato il passaggio dalla carte alla voce? Cosa cambia nel tuo modo di raccontare?

Era accaduto lo stesso con Rock In Love. Nel caso di Capital Hot, il programma che ho scritto e condotto un paio di stagioni fa, il passaggio è stato inverso. Le storie più scollacciate del rock, e non solo, hanno riempito intere pagine di Hot Stuff. Sono format differenti, anche se i protagonisti sono gli stessi, il trattamento è molto diverso e necessita sempre di una riscrittura. Sono fortunata, perché di solito quello che non riesco a raccontare in radio per questione di tempo, ho la possibilità di svilupparlo su carta. Carta che ha bisogno di una colonna sonora e quindi mi sembra giusto mettere il lettore nella condizione di scegliere tra radio e playlist creata ad hoc su Spotify. Ogni canzone racconta una storia, da lì inizia la narrazione. Pezzi dunque mai casuali, ma di supporto al tema trattato, di solito piccole e grandi rivoluzioni che hanno contribuito a cambiare le regole. Non ero interessata a compilare un almanacco rock, in giro ce ne sono già tanti e poi basta aprire Wikipedia per scoprire per sommi capi la vita di ognuno. Quattro pagine non sarebbero mai bastate e il rischio di lasciare storie incompiute era troppo grande. Ecco perché ho scelto di fotografare momenti, attitudini, impegno politico, battaglie sociali: Nina Simone e Joan Baez in prima linea per i diritti civili, le campagne di Beth Ditto contro la dittatura del corpo perfetto, Madonna e la discriminazione legata all’età delle donne, Kathlenn Hanna e ancora prima Slits e Joan Jett impegnate a garantire modelli alle ragazze che desideravano farsi largo in una scena a maggioranza maschile.

Patti Smith

Patti Smith

Nella tua carriera, da scrittrice e conduttrice radiofonica, sei diventata un punto di riferimento per il tuo modo di raccontare la musica e le sue storie. In Rocket Girls ce ne racconti tantissime, da Janis Joplin a Björk. Qual è la tua preferita, o quella in cui ti riconosci?

È difficile rispondere a questa domanda perché ognuna delle cinquanta artiste che racconto mi ha accompagnato o continua ad accompagnarmi. Se così non fosse non avrei inserito i loro nomi in una rosa per altro molto ristretta visto che le donne nella musica non sono affatto poche, sono poche quelle di cui ci si ricorda, una manciata di nomi, di solito, artiste che hanno scalato montagne e compiuto vere e proprie rivoluzioni. Accanto a loro però hanno combattuto eserciti di musiciste le cui storie premono per essere raccontate. Vite straordinarie fatte di sfide e grandi canzoni, di scelte spesso difficili e dischi di cui non si può più fare a meno una volta scoperti. Là fuori c’è una strada alternativa a quella più battuta, una strada lastricata di pietre rotolate via troppo in fretta. Si sa che il rock è a predominanza maschile e anche allargando il discorso musicale a pop e dintorni, non si può pensare neanche lontanamente a una rappresentanza femminile paritaria. Tuttavia, si può tentare di espandere la visione, si deve fare. Tornando alla tua domanda, se sono nomi che mi chiedi, allora non posso evitare di indicarti lo spirito guida del libro, Patti Smith, sua la citazione che apre il libro e sua la citazione che lo chiude. Patti Smith è stata tra le prime a lamentarsi della mancanza di modelli femminili nel rock. Quando all’inizio degli anni Settanta cercava disperatamente di salirci da protagonista sul palco, dopo aver incontrato, ascoltato e apprezzato tanti colleghi, si rese conto che di donne in giro non ce n’erano poi molte. Secondo Vivien Goldman, giornalista inglese, scrittrice e più tardi anche affermata musicista, quando cominciò a scrivere di rock per la stampa a metà degli anni Settanta, le musiciste erano così rare che, in quello che potrebbe essere stato il primo articolo di Woman in Rock, descrisse una chitarrista con i capelli lunghi come se fosse stata un unicorno. È la stessa mancanza che lamenta Patti Smith all’inizio del suo periodo newyorkese. Le ragazze nel mondo del rock, e più tardi nel punk, scarseggiano al punto che i maschi sembrano i soli depositari della scena. In realtà le cose non stanno così dalla parte opposta dell’oceano, ma all’epoca era difficile che ci fosse un contatto tra esperienze simili su sponde distanti. Si può dire quindi che Patti Smith sia stata una vera pioniera, non solo ha anticipato di alcune stagioni il punk e
la new wave, ma ha introdotto nel rock una qualità di scrittura pari a quella di Bob Dylan. Non che sia necessario cercare il corrispettivo maschile per ogni protagonista; in questo caso chiamare in causa il primo cantautore Premio Nobel per la Letteratura è significativo, soprattutto per chi pensa che una lettura tutta al femminile della musica non sia possibile. Alla cerimonia di consegna del Nobel c’era Patti Smith a intonare A Hard Rain’s A-Gonna Fall, al posto dell’amico Dylan. Sono molto legata anche a Betty Davis, conosciuta ai più per essere stata la moglie di Miles Davis e la musa di Bitches Brew. Betty in realtà è stata soprattutto una donna indipendente, una musicista curiosa e affamata di novità. Non solo introdusse il marito al rock, ma appena Miles cominciò a metterle i bastoni tra le ruote abbandonò subito l’idea di stargli accanto se questo significava tenere a freno la propria creatività. Tra il 1973 e il 1975 registra tre album intrisi di funk arrabbiato e voce poderosa. Il suo look è unico, eversivo, sul palco come sulle copertine dei dischi. Betty fa tutto da sola, scegli i musicisti che la accompagnano nelle sessioni in studio, scrive e arrangia brani ed è in
anticipo sui tempi. La sua era una visione creativa, personale del rock mischiato al funk, in una parola: fusion. Chi mai aveva sentito prima canzoni del genere? Di certo non i discografici che continuavano a dirle di cambiare atteggiamento, immagine, stile. Non le radio che si rifiutavano di programmare pezzi così espliciti cantati da una donna. Betty Davis non era disposta a scendere a compromessi, sapeva il fatto suo, sapeva di avere tra le mani qualcosa di nuovo, importante, sarebbe stato sciocco tornare indietro e conformarsi a ciò che il pubblico già conosceva. Ecco perché alla fine degli anni Settanta si perdono le tracce del suo talento. Il mondo non è pronto per Betty? Pazienza, è stato bello lo stesso, grazie e tanti saluti. Per avere successo e continuare a fare il proprio lavoro, l’industria musicale chiede alla donna di stravolgere la propria natura, diventare un’altra. Betty non ci sta, preferisce lasciarlo quel mondo anziché diventare la persona che non è.

Betty Davis

Betty Davis

Rocket Girls non segue un ordine cronologico, alfabetico o di stile, ma passa dal punk all’hip pop, dagli anni ’70 al nuovo millennio, per poi riavvolgersi e tornare indietro, come una playlist. Hai scelto tu in che modo accostare le artiste o è stata una cosa istintiva?

Da quando ho avuto l’idea del libro, ma ancora oggi, quando sfoglio una recensione, mi terrorizza e avvilisce l’idea che il libro possa passare per un’enciclopedia rock. Capisco che sia la definizione più immediata, ma basta sfogliare una storia qualsiasi per rendersi conto che non mi occupo di dati e biografie. Le parole sono e restano al centro della narrazione, le parole delle stesse protagoniste che ho raccolto con cura, parole che, soprattutto attraverso la musica, rappresentano il lascito di queste donne. Valeria Parrella ha scritto che Rocket Girls è adatto a ragazze dai 12 ai 95 anni. Ecco, trovo sia la definizione più calzante. Mi emoziono sempre quando in libreria scopro che alcuni librai sistemano il libro nel reparto young adult. Trovo sia quella la collocazione più consona, anche se la maggior parte delle volte occorre invece dirigersi al reparto musica. In ogni caso nessuna pretesa di esaustività, le storie contenute nel libro si possono leggere in ordine sparso; Rocket Girls è per prima cosa una richiesta di attenzione, una lettura che incoraggia a guardare oltre le etichette e a considerare la musica scritta, suonata e prodotta dalle donne non un genere a sé, ma un mondo ricco e sfaccettato quanto quello maschile.

Una delle cose più belle è il modo in cui ci fai immergere nelle storie, raccontandoci il contesto storico, la scena musicale, intervallando il racconto con il contributo di grandi firme internazionali. In che periodo stiamo vivendo oggi, musicalmente e non?

È complesso e rischioso tirare le somme del presente, si rischia di prendere grosse cantonate o di passare per Cassandre che quasi mai vedono un futuro roseo. Una cosa è certa, tutto corre talmente veloce che quasi ci dimentichiamo di prendere appunti, certe esperienze vengono spazzate via da altre che al loro emergere sembrano essere il nostro unico credo, salvo poi infrangersi al primo scoglio. Avere spazio e possibilità è qualcosa che anni fa le donne nel mondo della musica, e non solo, potevano solo sognare. Per la maggior parte di loro matrimonio e maternità rappresentavano ostacoli insormontabili al seguito della propria carriera. Oggi fortunatamente non è più così, ma ci
sono campi in cui la disparità salariale, soltanto per fare un esempio, è ancora la norma. Le sfide insomma non finiscono mai, lo sintetizza bene St. Vincent quando dice che se non sei al tavolo, sei sul menù. Le ragazze possono arrivare  dappertutto, certe madri magari non lo chiamavano ancora femminismo, ma sapevano che era qualcosa di innato nel loro DNA. In alcuni settori poi, dove la presenza delle donne non è affatto scontata, le prove sono all’ordine del giorno. Pensare a una donna dietro a un mixer è ancora, nel 2019, piuttosto inusuale per molti giornalisti del settore, ma la
storia insegna che ci sono signore che hanno combattuto per queste posizioni fin dagli anni Cinquanta: Cordell Jackson e Bonnie Guitar, per esempio, sono state due pioniere della produzione; Leslie Ann Jones, già road manager e poi tecnico del suono, negli anni Settanta venne estromessa dalle registrazioni a causa di alcune mogli troppo gelose; Susan Rogers, tecnico del suono di Crosby, Stills & Nash, ma anche di Prince, sa che la maggior parte delle donne che sceglie questo mestiere deve affrontare una lunga strada in salita: “Se una donna fa un ottimo lavoro, aiuta se stessa e tutte le altre che vengono dopo di lei. Se non è eccezionale, renderà le cose difficili per la prossima che ci proverà. Gli uomini, di solito, tendono a essere giudicati individualmente”.

In Italia siamo ancora lontani dalle atmosfere e le rivendicazioni che hanno caratterizzato le artiste di Rocket Girls. Quali potrebbero essere le rocket girls italiane? Che idea ti sei fatta della scena musicale italiana?

Non credo che esista una differenza sostanziale all’approccio; a ogni latitudine, in ogni epoca, le donne sono sempre andate alla ricerca di credibilità e legittimazione. Cose che gli uomini probabilmente non si sognano di individuare perché parte del loro bagaglio alla nascita. Lo spiega bene Kathleen Hanna – storica leader di Bikini Kill e del movimento Riot Grrrl – alla fine del documentario The Punk Singer: “C’è questa convinzione per cui quando un uomo dice la verità, quella è la verità. E quando, come donna, dico la verità, sento di dover negoziare il modo in cui verrò percepita. Come se ci fosse sempre un sospetto riguardo alla verità di una donna. L’idea che tu stia esagerando”. In una recente intervista, Carmen Consoli ammetteva che quando si trova a suonare per la prima volta con una band, è costretta a demandare al suo chitarrista ciò che tecnicamente non torna. Anche se è lei ad accorgersi che qualcosa non funziona, se lo facesse notare per prima non otterrebbe la stessa attenzione. E stiamo parlando di una cantautrice tra le più talentuose e riconosciute nel nostro paese. Ti dico questo perché all’estero non c’è molta differenza. Quando però Rocket Girls ha iniziato a prendere forma, ho preferito non occuparmi delle artiste italiane perché, per quanto giustificata come opzione, visto che il libro è uscito in Italia, non mi sembrava corretto lasciare fuori esperienze di altri paesi non anglofoni come Francia, Germania, Sud America, soltanto per citare la terra di provenienza di artiste che cito nel testo e che poi trovano ampio spazio nel programma radiofonico. Su Radio Capital ho persino scritto un’intera puntata composta da sole artiste italiane come Gianna Nannini, Loredana Bertè, Nada, Alice, Caterina Caselli. Cristina Donà e Carmen Consoli sono state le uniche italiane invitate al Meltdown di Londra. Poi certo, se parliamo del presente ci accorgiamo che il nostro paese qualche problema con le musiciste ce l’ha. È un dato di fatto che le donne che fanno musica, quelle che arrivano al grande pubblico o anche soltanto quelle che riescono a completare un percorso di studi siano ancora in minoranza rispetto agli uomini. Eppure all’inizio non è così. Da qualche parte però un imbuto c’è. In Italia per esempio sono tantissime le donne che si occupano di uffici stampa, promozione eventi, anche management, lavori dedicati alla cura dell’artista. Quando però si tratta di salire nell’ordine e di arrivare a ruoli di dirigenza, ecco che di donne non se ne incontrano quasi più. Per una musicista, ancora più che per un’interprete, le cose possono essere più complicate perché ha un’idea precisa di quello che vuole fare mentre un’interprete è più malleabile e si può plasmare anche in base agli autori che scriveranno per lei. Fiorella Mannoia racconta poi di non essere mai stata discriminata
nel corso della propria carriera, fatta eccezione per il cachet. Quello, dice, ancora oggi è sempre inferiore a quello di un artista maschio di pari livello. Stessa difficoltà anche per quanto riguarda la presenza femminile nei cartelloni estivi, un problema che alla fine riguarda da anni anche l’estero. Alcuni, vedi l’esperienza dell’ultimo Primavera Sound a Barcellona, sono corsi ai ripari, altri ci stanno provando. Per fortuna oggi esistono realtà che anni fa non c’erano come ad esempio Shesaid.so – ora anche in Italia – una rete globale formata da donne che lavorano nell’industria musicale a tutti i livelli e in tutti i campi dell’industria: dalle etichette, al pr, al management, agli uffici stampa, alla produzione di concerti fino ad arrivare alle stesse artiste e molto altro ancora. Il quartiere generale della rete si divide tra Londra e Los Angeles, ma le reti locali comprendono anche New York, Parigi, Berlino, Mumbai, Barcellona e altre importanti città in tutto il mondo, per un totale di tredici gruppi locali e più di duemilacinquecento membri. Questo per dirti che l’attitudine rock non ha confini. Quando si scrive però si deve arrivare a un punto seguendo la strada più logica e lineare e questo mi ha portato naturalmente a scegliere cinquanta protagoniste, ma anche a lasciarne fuori molte altre. Sogno di avere la possibilità di confrontarmi presto con un secondo volume, ma questo dipende ovviamente dall’interesse che susciterà questo.

Ecco, a proposito: ci consiglieresti un’artista emergente che tra qualche anno potremmo trovare in un
ipotetico Rocket Girls volume 2?

C’è così tanto da ascoltare oggi. Trovo sia un privilegio enorme avere la possibilità di conoscere e scandagliare la scena più remota con un solo click. In questo, Spotify ha abbattuto qualunque distanza, puoi avere accesso ad artisti sconosciuti in qualunque momento. Per chi come me è ossessionato dalla possibilità di offrire una lettura sempre diversa di ogni esperienza d’ascolto, da poco ho i mezzi per studiare a fondo la cultura e la musica di altri paesi e di sintetizzare questa ricerca nei miei dj set. Tengo però anche a ricordare che l’ascolto ragionato passa attraverso la qualità del suono. Non si tratta quindi solo di opportunità e quantità. Ecco perché quando ascolto un artista nuovo, dopo le dovute ricerche, non ascolto mai il suo lavoro tramite un’applicazione o un servizio digitale che comprime il suono e rende le voci tutte simili tra loro. Diffido anche degli algoritmi, perché se all’inizio sono una piacevole scoperta, di solito, dopo una manciata di pezzi, tendono a mandarti completamente fuori strada. Ma va bene così, è lì che subentro io con il mio lavoro di dj in radio e live. Se invece sono nomi che mi stai chiedendo, allora sono lieta di segnalarti quelli di Hurray For The Riff Raff, Carrie Brownstein, Amanda Palmer, Ani DiFranco e insieme a loro tantissime ragazze di ieri maltrattate dalla storia, le cui storie premono per essere raccontate: Karen Dalton, Judee Sill, Connie Converse, Ace of Cups, Polly Styrene, Mia Zapata.

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