Etta

di Gaudenzio Schillaci

Cercando di voler essere parsimoniosi con le parole, si potrebbe riassumere la sua vita nella frase che dice più spesso, tutti i giorni, dalle ore 15:30 alle ore 19:00 circa, domenica esclusa: “Una sola, caro”. Sostanzialmente, la vita di Carla (ma che le poche amiche, e sarebbe più consono definirle conoscenti, chiamano Etta) Massironi si snoda tra quelle tre parole. Una, sola, caro.

“Una”, a indicare la sua pacatezza e la voglia di non strafare. “Sola”, che pare più riferirsi a sé stessa che ad altro. “Caro”, perché le buone maniere non devono venire mai meno.

Etta è una brava donna, ed è una brava donna perché nella vita le hanno insegnato di non disturbare mai. Ché nella vita, nonostante quello che dicono soloni e maestri buoni o cattivi che siano, la cosa più importante è stare al proprio posto. Senza alcuna remora. E poi sorride sempre, e questo le dona l’aria fragrante di certe zie di campagna rimaste zitelle.

Ha settantatré anni (ma nonostante la tinta color cioccolato ne dimostra almeno dieci in più) e un curioso modo di arrovellare la pronuncia della lettera “erre”. Però lei zitella non lo è. Vedova, ma non zitella. Di un uomo che non amava, certo, ma pur sempre non zitella.

Sono dettagli fondamentali, arrivati a una certa età.

Suo marito era il Comandante dell’Aviazione Matteo Valloni, pluridecorato per motivi che lei non ricorda più e morto a cinquantotto anni per un male che nemmeno la pensione precoce ottenuta ad anni cinquantuno era riuscita a rendere meno incurabile. Lei ne aveva quarantotto, con una figlia di sedici e una figlioletta di dodici – concepite con accondiscendente silenzio – da crescere, e la sola reversibilità della pensione su cui fare affidamento. “Poteva andarmi peggio”, disse il giorno del funerale di suo marito. Perché Clara, detta Etta, è una donna abituata a berlo, il bicchiere che vede mezzo pieno. E per non perdere la pensione non s’è mai risposata. Del resto, gli uomini non le sono mai importati più di una buona tinta per capelli.

Giuditta, detta Itta, è la figlia maggiore. Divorziata dal primo marito (evento che Etta ebbe a commentare con un dolente sospiro), vive a Ferrara dove è responsabile di una filiale dei supermercati Pam Panorama e si può permettere di guidare un SUV. Carlotta, detta Otta o, con un ulteriore vezzeggiativo francamente cacofonico, Ottina, è la figlia minore, insegnante alle scuole medie di Pieve di Cento in provincia di Bologna, sposata con un clarinettista sempre in giro appresso a scalcinate tourneé. Nel poco tempo libero Otta coltiva il ruolo di amante del preside della scuola dove lavora. Lei non può permettersi il SUV ma si gode altri piaceri, come quello di percuotere con forza le natiche del preside utilizzando il registro di classe quando misteriosamente tarda a uscire dal lavoro.

Tutte le domeniche Etta, Itta e Otta si riuniscono a Bologna e fanno lunghe passeggiate per i negozi di via Indipendenza, che di solito si snodano attraverso modesti acquisti da H&M e Zara (che Clara si premura sovente di definire “migliorati nella qualità dei tessuti”) e culminano in un aperitivo strettamente analcolico in un bar di Via Ugo Bassi.

Etta è felice di vederle, una volta alla settimana, anche se quell’incontro la distoglie dalla sua unica e vera passione: il gioco del bingo.

Per questo, la domenica è l’unico giorno della settimana in cui Etta non pronuncia le sue ormai mitologiche parole “una sola, caro”.

Il resto della settimana, invece, è il palcoscenico dove la sua pacatezza tripudia, ed è così da ormai otto anni, da quando una volta, per caso, si ritrovò a mettere piede dentro la sala Bingo “Principessa” in zona Murri per far compagnia alla sua vicina di casa ludopatica e, investendo la non irresistibile cifra di un euro, si ritrovò a vincere un ragguardevole gruzzoletto di 883,92 euro, diventato poi 860,00 perché “bisogna lasciare la mancia, è così che si fa”. Bingo bronzo, cioè annerire tutti i numeri scritti nella propria cartella prima dell’estrazione numero 53. A lei riuscì l’impresa di farlo all’estrazione numero 49.

“Per poco non feci Bingo argento, quella volta”, aggiunge rammaricata ogni volta che racconta quella storia.

E quella, di solito, è l’unica volta che non sorride.

Ogni tanto a Bologna c’è un’umidità nell’aria che somiglia alla periferia di Buenaventura in Colombia. Con meno gang di strada e meno baraccopoli, certo, ma l’umidità è la stessa. Allora Etta si arma di un k-way cerato di colore blu con dei grossi pois bianchi, prende l’autobus numero 13 e da via Ugo Bassi raggiunge la sala Bingo. E nel tragitto sorride a tutti, perché è così che è fatta. Una donna incapace di non manifestare tutta la sua cordialità.

Negli ultimi otto anni ha saltato quell’appuntamento solo due volte: una è successa perché una brutta febbre a quasi 39 la costrinse a letto per cinque giorni (che diventarono nove a causa di un sospetto principio di polmonite) e un’altra per via di un brutto incidente fatto da Carlotta in motorino. Ma in ospedale, nelle noiose ore passate al capezzale della figlia durante la lunga trafila di accertamenti a cui venne sottoposta, si domandava ugualmente a quanto fosse arrivato il jackpot del Bingo bronzo, a quell’ora.

Di certo non si può dire che le faccia difetto la costanza.

Etta ha settantatré anni, ha ospitato dentro di sé soltanto due uomini in tutta la sua vita e ha avuto una sola priorità: trovare la sua solita poltrona libera nella sua unica sala Bingo di riferimento.

Quando capita che qualcuno prima di lei abbia occupato quella poltrona, Etta sospira greve, si guarda intorno e continua a sospirare. E sospira perché sa che lei, senza la sua poltrona, quel giorno non si divertirà.

Accadde che un giovedì di inizio settembre Itta, la figlia con il SUV, le telefonò per avvertirla che quella domenica sarebbe stata ospite per un weekend alle Cinque Terre da parte di un non meglio precisato amico, tale Nicolò, rappresentante di un’azienda di prodotti surgelati. Omise il fatto che il cazzo di Nicolò raggiungeva, in erezione, la ragguardevole cifra di centimetri ventidue. Etta pensò che doveva liberarsi anche di Otta, a quel punto, e concedersi una sessione domenicale di bingo. Era elettrizzata, ma ancora capace di dissimulare. Le telefonò per dirle che aveva accettato l’invito a pranzo di un pensionato che le faceva la corte. Omise la lunghezza del cazzo del pensionato in erezione per due motivi: il primo è che non l’aveva mai visto, il secondo è che, verosimilmente, il suddetto pensionato era ormai incapace di raggiungere un’erezione. Scherzi del tempo.

“Ci terremo compagnia”, disse. Una cazzata.

Etta di solito le cazzate non le diceva mai.

Otta sorrise, e lei poté sentirlo dall’altro capo del telefono. Quello che non poté percepire fu la placida tenerezza di quel sorriso, ma le andava bene così.

Quella domenica, Etta arrivò alle ore 15:28 alla sala Bingo e trovò la sua poltroncina vuota. Anche in quel caso fece un sospiro, del resto è sempre stata una donna che sospira molto, ma questa volta marcato di sollievo. Si accomodò, ordinò un caffè alla bella cameriera in perfetta livrea ornata da cravatta gialla e iniziò a chiedere una cartella a partita.

“Una sola, caro”, diceva con una leggera smorfia impertinente sul viso. Il venditore di cartelle, di fretta per non sforare con i tempi, non se ne avvedeva nemmeno.

Alle ore 16:45 aveva speso tredici euro senza aver vinto nessun premio, manco una squallida cinquina.

Alle ore 17:30 il suo portamonete si era totalmente svuotato dei ventidue euro contenuti all’interno, così era stata costretta a far aspettare il venditore di cartelle durante la sua opera di ripescaggio del portafogli negli abissi della sua graziosa borsa di pelle color verde bottiglia. Il ragazzo, dall’alto della sua cravatta rossa, tradì un certo nervosismo durante l’attesa, ma anche lui fece sfoggio di estrema cordialità. Veniva pagato, per non perdere mai la calma e per perdersi le partite di Serie A.

Alle ore 18:02 lo speaker diede inizio alla partita numero cinquantatré della giornata. Trentasei secondi dopo, all’estrazione numero ventuno, qualcuno dalla sala fumatori aveva chiamato la cinquina. Su ventuno numeri estratti, lei ne aveva già segnati dodici sulla cartella da quindici numeri, seppur nemmeno cinque in fila. Le mancavano il numero 2, il numero 14 e il numero 90.

Il 90 fu il ventiduesimo numero estratto, e lei pensò che il destino volesse beffarla. Non sorrideva. Alla vicina di tavolo, una cicciona sfatta dai capelli ossigenati che puzzava di sudore e sogni mai realizzati, disse: “Peccato, mi mancavano giusto tre numeri per il bingo”.

Quella le rispose che bingo prima dell’estrazione numero 38 è superbingo, e lei concluse il rapido scambio di battute con un leggero, quasi soffiato e un tantino compiaciuto,  “Ah”.

Il trentaduesimo numero estratto fu il numero 14. Le mancava solo un numero. In quel momento il suo proverbiale ottimismo andò a puttane e si sentì come se dio volesse pisciarle addosso tutto il suo incomprensibile senso dell’umorismo. Continuò a non sorridere, ma aggiunse alla sua espressione un inedito tic della palpebra sinistra.

Pallina numero trentatré, 64.

Pallina numero trentaquattro, 13.

Pallina numero trentacinque, 57.

Il tic alla palpebra di Etta si fece sempre più forte, e iniziò a riverberarsi lungo tutto il lato sinistro del corpo.

Pallina numero trentasei, 88.

Un colpo di tosse le spezzò in due il fiato.

Pallina numero trentasette, 2.

“Superbingo”, urlò, prima che la sua testa sbattesse violentemente, esanime, sul tavolo in marmo.

Al suo funerale, Itta e Otta scoprirono che la loro madre aveva la passione per il bingo e si rammaricarono per averle fatto vivere tutti gli ultimi otto anni della sua vita a ripetere “Una sola, caro”. Riuscirono poi, attraverso l’ausilio di un avvocato amico di famiglia, a farsi corrispondere i tredici mila euro e spicci (senza lasciare alcuna mancia) del superbingo, e furono infine sollevate dal sapere che, in fondo, Etta era rimasta fino alla fine una donna pacata.

Otta, grazie a un piano di rateizzazione a tasso agevolato, riuscì a comprare un SUV più nuovo e meglio accessoriato di quello della sorella Itta, la quale, dal canto suo, era riuscita a trattenere nella sua vita quei ventidue centimetri di serenità muniti di multiproprietà alle Cinque Terre che le permisero di non mostrare alcuna gelosia nei confronti di quella macchina. Entrambe, rivolgono un pensiero a Etta, di tanto in tanto, ma solo raramente. In quei pensieri, la chiamano Carla.

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