Hollywood – Ryan Murphy e la sua Dreamland

Una Hollywood sottratta al potere dei WASP. Questo è lo scenario che Ryan Murphy, già creatore di Pose e American Horror Story, ci propone nel suo nuovo telefilm. Hollywood, disponibile su Netflix a partire dal primo maggio, racconta infatti il mondo del cinema dalla prospettiva di chi, fino a questo momento, ne è stato escluso o sfruttato. La vicenda è ambientata negli anni Quaranta, l’epoca d’oro del cinema americano, quando storie del genere difficilmente avrebbero visto la luce. Non è perciò un caso che la serie esca ora, dopo che Harvey Weinstein, il produttore che per decenni ha abusato delle sue clienti, è stato finalmente condannato per stupro. Tutto nasce, dichiara lo stesso Murphy, dalla volontà di reagire a questo sistema malato, di cui l’industria cinematografica non è che un emblema, nel tentativo di dare voce a chi ne è stato sinora soffocato.

Avis Amberg (Patti LuPone)

Riscrivere dunque la storia, rappresentandola come vorremmo che fosse e non come purtroppo ci si presenta. È questo che fa Archie Coleman (Jeremy Pope), aspirante sceneggiatore che a suo modo rivive, prima ancora di raccontarlo, il dramma dell’attrice Peg Entewistle. Come la ragazza, suicidatasi a ventiquattro anni gettandosi dalla Hollywood Sign, anche il giovane, gay e afroamericano, è rifiutato da quel mondo a cui sente di appartenere. Storie reali si sovrappongono così a personaggi inventati – tra cui spiccano Jack Castello (David Corenswet), Raymond Ainsley (Darren Criss) e Camille Washington (Laura Harrier) – ma sono state tre figure, realmente esistite, a fornire l’ispirazione per questo grandioso affresco: Rock Hudson (Jake Picking), Hattie McDaniel (Queen Latifah) ed Anna May Wong (Michelle Krusiec).

Rock Hudson (Jake Picking) e Archie Coleman (Jeremy Pope)

Il primo, noto come l’attore che diede un volto all’AIDS, fu la prima celebrità a dichiararsi sieropositiva. Era il 1985, e all’epoca i coming out si facevano solo in punto in morte. Cosa sarebbe infatti accaduto se Hudson, il sex symbol di un’intera generazione, si fosse dichiarato all’inizio della sua carriera? Murphy ci fornisce una sua personale risposta, purtroppo lontana da ciò che riferiscono le cronache. Sappiamo infatti che all’attore, interprete di capolavori come The Giant o Magnificent Obsession, fu intimato di non rivelare il proprio orientamento. Fu lo stesso Henry Willson (Jim Parsons), l’agente che abusò di lui, a suggerirgli di sposare la sua segretaria, Phyllis Gates, ed evitare così eventuali scandali. Willson, vittima a sua volta del sistema che contribuì a creare, era noto per reclutare i suoi clienti nei bar di Sunset Strip, adescandoli per poi lucrare sui loro successi. Lo stesso fa con Roy, vero nome di Rock Hudson, che verrà realmente sottoposto a interventi e molestie. La sua storia non è del resto diversa da quella di Lana Turner, altra scoperta dello stesso agente, che solo durante le riprese di Imitation of life dichiarerà di essersi sentita per la prima volta, grazie al regista Douglas Sirk, un’attrice e non, testuali parole, “una donna utilizzata per la sua bellezza”. Ma di storie simili Hollywood abbonda: da Judy Garland, che a dodici anni aveva già sviluppato una dipendenza da stupefacenti, a Shirley Temple, che a quell’età non poteva già più recitare.

Camille Washington (Laura Harrier) e Hattie McDaniel (Queen Latifah)

E anche dietro apparenti vittorie, come l’Oscar a Hattie McDaniel, si celano in realtà storie di sofferenza e discriminazione. Alla première di Gone with the Wind, dove interpretava la famosa Mamie, non le fu nemmeno concesso di entrare in sala, con conseguente indignazione del collega Clark Gable. D’altronde in quegli anni, per una figlia di due schiavi come lo era McDaniel, le alternative eran ben poche e lei stessa affermò, non senza un pizzico di amarezza, che preferiva ricevere 700 dollari a settimana per interpretare una domestica invece che guadagnarne sette facendo le pulizie.

Una sorte simile è quella di Anna May Wong, prima attrice sino-americana a raggiungere la fama internazionale. La sua celebrità fu però frutto degli stereotipi, in base ai quali fu relegata a ruoli marginali e sottopagati. L’unica sua occasione di riscatto, il ruolo da protagonista in The Good Earth, sfumò dopo che venne scelta al suo posto Luise Rainer, attrice tedesca, che proprio con questa interpretazione vinse l’Oscar nel 1937.

Anna May Wong (Michelle Krusiec) e Camille Washington (Laura Harrier)

Ma la rappresentazione delle minoranze, purtroppo, non è una questione che interessa solo quel periodo. Non sono infatti lontani i tempi in cui Emma Stone, tutt’altro che asiatica, fu scelta per recitare la parte di una ragazza orientale o quelli in cui, per restare nel nostro paese – la patria di Faccetta nera – continua a ritenersi normale una pratica come il blackface. Solo ultimamente, e di questo dobbiamo ringraziare anche Murphy, si sta dando il dovuto spazio ad attori neri e attrici trans, trasformandoli da oggetto a soggetto del racconto.

Certo la serie presenta anche dei difetti, dalla diffusione dei soliti canoni estetici a soluzioni narrative spesso improbabili, ma uno dei meriti, se non il maggiore, consiste appunto nel dare visibilità a chi fatica ad averne. C’è infatti una differenza tra il permettere i festini notturni di George Cukor e Cole Porter e riconoscere, invece, la libertà di vivere la propria sessualità alla luce del sole o, perché no, anche davanti le telecamere. La stessa libertà che consiste nell’interpretare se stessi, e non per forza un’ancella o una domestica.

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Raymond Ainsley (Darren Criss), Archie Coleman (Jeremy Pope), Jack Castello (David Corenswet) e Rock Hudson (Jake Picking)

La storia, però, sta fortunatamente cambiando e, di conseguenza, anche il modo di raccontarla. Il potere non è più solo in mano ai MBEB, i nuovi WASP, ma c’è un’intera comunità di emarginati che ai margini non ci vuole più stare. Una nuova narrazione si sta infatti affermando, scritta da persone in cerca della propria identità e refrattarie ai modelli che vengono loro imposti.

Hollywood ne è esempio, e si spera che non rimanga l’unico.

Photocredits: www.advocate.com; mmagazin.mk

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