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Livia Franchini e i “Gusci” che proteggono

C’è un account Instagram che amo molto che raccoglie e salva dal tempo e dai cestini le liste della spesa di sconosciuti. È bello soffermarsi e scrutare le calligrafie, notare i misspelling delle parole, immaginarsi le vite dietro queste scelte e apprezzare le piccole note a margine.

Anche Gusci, l’esordio narrativo di Livia Franchini, italiana che vive a Londra e scrive in inglese – infatti il titolo originale dell’opera è Shelf Life – si basa su una lista della spesa. Ogni voce, ogni alimento, ogni prodotto diventa un capitolo, si espande nel passato e nel presente, rimbalza da persona a persona, da voce a voce, mutando e rivelando la storia.

Gusci si apre con un allontanamento fondamentale: quello tra Ruth Beadle e Neil, che dopo dieci anni di relazione ha deciso di prendere un’altra strada. Una che non comprende Ruth, che ha al dito un anello di fidanzamento – e che Ruth non riesce a comprendere. Il trauma del rifiuto e dell’abbandono fa entrare in scena la rabbia, il dolore, la delusione: tutti siamo stati lasciati e tutti lasceremo, è un’esperienza universale. È il dopo, la ricostruzione, che conta.

Quella che sembrava una scelta impulsiva di Neil, quasi un capriccio, rivela una premeditazione: quasi tutto è sparito da casa, tranne una sua scarpa. A Ruth è rimasta la lista della spesa che aveva preparato per i giorni a venire, che ora si trova a reggere in mano da sola, senza nessuno con cui condividere quei beni materiali se non se stessa. Ogni cosa, però, rimanda a un’altra: è così che prende forma il racconto.

Ruth è la protagonista, ma non è solo alla sua voce che è affidato il racconto: ogni capitolo rimbalza da un personaggio a un altro, cambiando tanto device o servizio (telefono, computer, sms, Msn, email, chat) quanto registro in accordo, restituendoci un quadro che non è più completo ma è sicuramente profondo. Sta a chi legge mettere assieme i pezzi per quel che può, un po’ come da una lista della spesa si può provare a evincere una routine o una preferenza alimentare, ma non si arriverà mai a capire veramente l’intera vita dell’autore di quella lista – nemmeno a sapere se l’abbia compilata per sé o per qualcun altro.

Ruth, infatti, non ci dice mai molto di sé: siamo noi ad avvicinarci a lei per tentativi, per abbordaggio, mentre leggiamo come si comportano gli altri in sua presenza, come lei subisca le scelte degli altri. La conosciamo per reazione, non per azione: tant’è che leggiamo i suoi messaggi in risposta a quelli di Neil a Roma, e che quando si presenta all’addio al nubilato in gran spolvero noi siamo increduli tanto quanto le sue compagne. Non conoscevamo questo aspetto di lei – ma, d’altronde, ne avevamo diritto?
«L’idea alla base era indagare quali sono i codici e le narrative che impattano sull’identità di una donna della mia generazione» ha detto Livia Franchini in un’intervista. E quindi messaggini e retoriche sociali, ruoli politici e dating entrano in gioco: perché non è solo come le donne parlano, ma anche come parlano di se stesse, come si rivelano al e come si mettono nel mondo.

Se c’è una cosa che noi scrittori Millenial possiamo fare, è quella di reclamare gli strumenti che abbiamo.

Livia Franchini

Contrariamente alle nostre speranze di lettori consumati, però, Ruth non ha mai una vera redenzione, una vera riappropriazione di sé. Le donne attorno a lei non sono esempi, non fanno comunità, non rivendicano nulla. La perdita di Neil non è quella di un compagno di vita, ma la liberazione da un narciso prolisso che Ruth non riesce nemmeno a trasformare in occasione, contrariamente alla retorica del «si chiude una porta si apre un portone», «la vita è troppo breve ecc». A questo proposito, anzi.

Shelf Life, il titolo inglese e originario del libro, ha un significato più forte e sfaccettato di quello scelto per la versione italiana: shelf life indica infatti la data di scadenza, ovvero il tempo (life) che un prodotto può rimanere sugli scaffali (shelf) di un supermercato prima di dover essere tolto dalla vendita.
È questa, forse, la vera chiave di lettura che dovremmo dare a questo libro, che si perde nella versione italiana: la paura del tempo che passa, l’ansia del non aver colto le occasioni, la coscienza di essere disposable. Se leggiamo le azioni di tutti i personaggi sotto questa luce, scopriamo innumerevoli verità, comprese quelle che negano a loro stessi.

Ci sono protagonisti antipatici ma generosi, che donano comunque qualcosa a chi legge: perché anche il lettore, come il personaggio, sta compiendo un percorso. La Ruth italiana, invece, ci è sempre opaca, ma non in modo avvincente: non è misteriosa, è distante. Anche nei momenti in cui siamo in casa da soli con lei, in cui siamo svegli con lei in piena notte, nei momenti in cui non mangia e prova a riappropriarsi della propria casa, le camminiamo paralleli, senza punti di incontro. Livia stessa ha detto, in conversazione con Claudia Durastanti, che capire chi fosse veramente Ruth significava anche capire che «era un personaggio che non poteva cambiare più di tanto» per permetterle di vere la propria storia, attorno al quale il libro doveva mettersi come «una forma di protezione». Dare giustizia ai propri personaggi, anche negli aspetti che non amiamo, è un grande atto, ma c’è qualcosa che continua a sfuggirci nelle pagine di Gusci. Ora, però, voglio proprio leggere Shelf Life.

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