L’Uomo Buco

di Gabriele Bordogna

Una mattina d’agosto Ettore si sveglia con l’impressione che il suo ombelico sia diventato un po’ più profondo. Infilandoci l’indice nota che entra fino alla seconda falange, con i polpastrelli avverte la pelle tenera, intonsa, là in quell’anfratto della sua pancia solo un poco grassa.
Ettore va al lavoro senza pensarci, dove dirige un piccolo gruppo di operai in una fabbrica di scarpe. Il suo settore è preposto alla creazione di quei cerchietti in metallo e in plastica che vengono sistemati sulla scarpa in modo tale da rinforzare i buchi entro cui passano le stringhe. La sua giornata è fatta di rulli che odorano di gomma bruciata e tute da lavoro di un grigio slavato. “Faccio un lavoro noioso” dice senza problemi quando qualcuno glielo chiede, e il discorso finisce sempre lì.

Torna la sera nell’appartamento conficcato in un tozzo condominio che spunta dal cemento come un’escrescenza della strada. La sua abitazione è angusta o accogliente a seconda delle giornate. Straripa di vecchi mobili ed elettrodomestici che “è un peccato buttar via”. La camera da letto è l’unico luogo asettico: un matrimoniale, due comodini e un mobile, sul muro il poster lucido di un brutto quadro famoso di un pittore di cui non ricorda il nome.
Si spoglia e fa distrattamente sesso con la moglie. Durante il silente amplesso lei si aggrappa con le braccia alla schiena di lui, con tutta la forza che ha: una cosa che la fa sentire molto vicina a qualcosa che somiglia al piacere; non può fare a meno di percepire una leggera fossetta presente esattamente al centro della spina dorsale di Ettore, una rientranza come quella che hanno sulle guance alcune persone quando sorridono. Non gli dice niente, sistema invece in quella leggera concavità i polpastrelli dei suoi due indici e dei due medi, trovandovi un’infantile sensazione di dolce conforto, carnale ma non sensuale, che contribuisce a distrarla da quel sistematico ondeggiare atto solo a consumare i dieci cigolanti minuti necessari ad accompagnare entrambi al sonno.
Ettore sente le dita della moglie in quella sua fossetta, percepisce una sensazione di vuoto proprio lì sulla schiena. Mentre è in bagno, sotto la luce bluastra del neon, si guarda allo specchio osservandosi quella zona della schiena rischiando di farsi venire un torcicollo: c’è chiaramente una fossetta, appena accennata, come un gibollo. La raggiunge con le dita e quella mancanza, quel vuoto sulla sua pelle, in un certo qual modo gli dà sollievo.

La mattina dopo al lavoro il suo collega Maurizio, uno strano ibrido tra un profeta e un rutto, fa un discorso sulle donne, come sempre, ma questa volta mettendoci una nota di malsana creatività: “le donne in effetti non sono così diverse da questo cerchietto di metallo che fabbrichiamo, loro sono il contorno a un buco, anzi magari la vera donna è il buco stesso, e il contorno di quel buco che chiamiamo ‘fica’ altro non è che un’escrescenza. La fica in realtà non finisce con le grandi labbra, la fica prosegue oltre, la fica è tutta la donna, tutta la struttura che sorregge la cosa più importante: quel buco. Così belle e così essenziali, ah, le donne.”
Ettore mentre affronta il viaggio in metro per tornare a casa è seduto di fianco a una donna carina, distende il braccio in modo tale da toccare con il dorso della mano il braccio della signora accanto, senza infastidirla. Pensa al discorso di Maurizio, se quello che ha detto fosse vero dovrebbe sentirsi in colpa per quello che sta facendo, la sta violando; ha una sensazione di schifo che gli si stiracchia nel petto, ma non ci bada, la pelle della sua vicina è calda e liscia.

Arrivato a casa si va a cambiare in bagno, in equilibrio tra lo stendino, la lavatrice, il water e la doccia, e non può fare a meno di notare che il suo ombelico sembra essersi allargato, sembra anche più profondo. Prova a infilarci l’indice e vede che ci sta tutto: la pelle dentro è morbida e calda come l’interno dei buchi sulle focacce. Rimane a fissarsi per una mezz’ora buona, si guarda anche la schiena e vede che anche la fossetta sembra essersi allargata ed è persino più profonda.
Non vedendolo arrivare a cena la moglie irrompe nel bagno trovandolo nudo, lì tutto storto, intento a scrutarsi. Non fa domande, si avvicina e si china, come per ammirare un piccolo animale esotico, impressionata e allo stesso tempo attratta dalla cavità sulla schiena di Ettore.

Il giorno dopo Ettore va dal dottore, che non nasconde la sorpresa per la sua particolare situazione, una sorpresa che oscilla pericolosamente tra la preoccupazione e un malcelato entusiasmo: “Signore qua abbiamo un bel problema, abbiamo la patologia di Hanson Gregory, altresì nota come malattia del buco”.
“Malattia del buco?”
“Sì, è una reazione del cervello che in qualche modo costringe il corpo a mutare forma, è come una cancrena innocua: la sua carne diminuisce sulla pancia e sulla schiena ma senza lasciare danni, semplicemente viene consumata ed espulsa. Non si tratta di una perforazione. È come se si stesse restringendo ai lati, perderà peso, le si creerà un buco nell’addome da parte a parte, potrà vederci attraverso… Ma non si preoccupi, la pelle continuerà a ricoprire tutto il suo corpo, non avverrà nemmeno il rilascio di mucose, sarà tutto molto pulito e sembrerà del tutto naturale.”
A Ettore viene da vomitare ma la serenità del dottore lo distrae dalla persistente nausea che gli gorgoglia sopra quel suo buco.
“Ma… C’è una cura?”
“No, ma possiamo arginare la cosa tramite una serie di medicinali. Il buco si creerà ma saremo in grado di fermare la sua estensione… In genere una volta raggiunti i dieci centimetri di diametro il buco rallenta la sua crescita. Sarà in grado di vivere normalmente, il suo cervello continuerà a percepire la colonna vertebrale come se fosse ancora intera. Non avrà nemmeno grossi problemi a mantenere la posizione eretta. Gli organi naturalmente verranno semplicemente spostati lateralmente, non avrà problemi a digerire o ad andare di corpo.”
Ettore è pallido, si tocca la camicia, nello spazio tra i due bottoni vicini all’ombelico, dove la piccola fessura tra le due parti di tessuto lascia intravedere una seconda fessura, molto più grande e profonda più sotto.
“Dottore ma… è una cosa terribile.”
“Ma no, ma che dice, non sia drastico. Lo sa perché si chiama così la malattia? Hanson Gregory?”
“È quello che l’ha scoperta?”
“Sì e no, Hanson Gregory era un marinaio che a sedici anni, stufo di mangiare pane dolce poco cotto al centro, decise di applicare un buco a tutti i suoi dolci prima di infornarli, in modo da rendere tutto il dolce ben cotto e ugualmente gustoso. Gregory inventò le ciambelle.”
Ettore tace.
“Signor Ettore la pensi così: la parte di lei che rimarrà sarà la parte migliore di lei, è un buco che la farà solo migliorare.”
Ettore mai si sarebbe sognato di doversi immaginare come una sorta di ciambella.

Passati due mesi il buco di Ettore è finalmente completo: riesce a vedersi da parte a parte e quella sensazione di assenza inizia a piacergli. C’è freschezza in quel punto vuoto tra la pancia e la schiena, un formicolare piacevole, come un mescolarsi di briciole d’aria che non erano abituate a incontrarsi lì, nel mezzo di una persona.
Sua moglie quando lo abbraccia sente il vuoto di quell’addome, percepisce quel buco e sta bene, sta bene e basta: espira, inspira, espira, espira ancora, ed è quasi come se sentisse di avere lei stessa quel foro nel corpo.
I medicinali fanno effetto: dopo tre mesi il buco ha smesso di crescere e sia lui che sua moglie si sono abituati a quel pezzo di carne mancante. Quando fanno sesso lo fanno con più vigore, con tutto il corpo, spezzando il monotono dondolio che contraddistingueva i loro plastici rapporti degli ultimi anni.
La percezione di quel vuoto, di quella concavità, in lui e in lei, dona ad Ettore una sensazione di leggerezza, di conforto, un alleggerirsi a vicenda, un evaporare di ansie.

Non vedendo più crescere il buco non sente più quella sensazione di alleggerimento costante che lo allietava ad ogni risveglio, decide di non prendere più i medicinali. Ogni volta che pensa al buco percepisce le viscere strette ai lati del suo addome, le sue carni compattate come hamburger sottovuoto e sente che deve liberare più spazio.
Dopo un mese senza medicine il buco finalmente riprende a crescere: al lavoro lo maschera grazie ai vestiti e non ne fa parola con nessuno, ma è con estremo piacere che tasta quei cerchietti di metallo che ha passato quindici anni a produrre con meticoloso disprezzo. Quando ne prende in mano uno adora sentire come i polpastrelli affondano in quel buchetto: sente il vuoto, sente la parte che manca, è un piacere che sfiora il godimento.
Lui non produce i cerchietti, lui produce buchi, circoscrive un’assenza rendendola incredibilmente presente, concreta. Se lo ripete come un mantra: “io produco buchi, rendo concreto il vuoto”.

Ogni sera si tasta la pancia e gode nel sentire che il suo buco è sempre più grande: non ha quasi più una pancia e il bordo superiore del buco ha quasi raggiunto il petto.
Una mattina, dopo otto mesi dall’inizio della malattia, si sveglia sentendo che il punto in cui credeva che ci fosse il cuore è finalmente diventato vuoto, assorbito dal buco. Il suo petto, che per tutta la vita aveva percepito come un sacco pieno di sassi, si è finalmente svuotato.
Inconsciamente ha passato l’intera esistenza con un intreccio di ansia, di angoscia, di malinconia, condensato nella forma apparentemente innocua della sua stessa carne, del suo cuore, del suo sterno, delle sue costole, di tutta quella matassa superflua di organi e vene e viticci purulenti.
Ora, vuoto completamente nel mezzo, respira e sente tutta la sua assenza gonfiarsi e sgonfiarsi con lui: è un respiro che somiglia al dilatarsi di un cumulonembo solitario e gigantesco in un cielo vasto e sereno.
Al primo respiro al mattino si sente ogni volta come se respirasse per la prima volta: “amore tu non sai cosa voglia dire respirare davvero”, dice soddisfatto girandosi verso sua moglie.
Col tempo però smette a provare piacere nell’avere rapporti sessuali con lei, ha schifo a toccarla persino: quel corpo è un coagulo di carne, così pieno, soffocante, denso, e il buco tanto idolatrato dal suo collega Maurizio non è niente in confronto al suo enorme vuoto.

Passano mesi in cui per provare piacere invece che fare sesso Ettore si guarda allo specchio, infila il braccio in quell’enorme buco e sente un formicolio in quel punto vuoto, come se la carne, in qualche modo, esistesse ancora nella forma di una nebulosa invisibile. Sentire quel connubio tra presenza e assenza diventa la sua droga, un orgasmo delicato e continuo.
Il vuoto, passati due anni, diventa la sua ossessione: tutta quella materia, tutti quegli oggetti pesanti, i mobili massicci, gli elettrodomestici in ogni angolo della casa, gli edifici rigidi che si accatastano ai lati delle strette tangenziali come lapidi, non fanno altro che fargli stringere la trachea, intasandogli la gola d’ansia.
La gola: maledetta gola. Lì ora si annidano tutte le sue ansie, le sue paure, le sue malinconie, come un lavandino otturato pieno di peli e capelli e sputi di dentifricio calcificato. Guarda le persone piene, guarda le cose non cave e si sente soffocare, come se tutta la carne che ha perso si fosse schiacciata proprio lì nella gola, dietro il pomo d’Adamo.
Prova a respirare come faceva qualche mese prima, quando il buco aveva iniziato a crescere, cercando di avvertire l’enormità del suo foro e la vuotezza del suo tronco, ora sotteso ai lati solo da due sottili fili di carne e muscoli, ma niente. La sua vuotezza è ancora insufficiente: quelle spalle scricchiolanti e ossute, quelle anche dure e grumose, e quel pene poi, diventato così inutile, pesante, così pieno di carne e così solido in certi momenti: un inenarrabile fastidio.

La salvezza, dopo settimane di pazienza e di crisi nervose appena sfiorate, arriva un mattino d’agosto. Ettore si sveglia e il buco si è espanso nuovamente: il suo bacino se ne è andato come anche la sua gola. Respira e ancora una volta sente che le sue angosce non possono trovare posto acquattandosi in qualche angolo del suo corpo. Invano prova ad alzarsi, non riesce nemmeno più a muoversi, inerme e sdraiato può solo godersi quell’enorme vuoto, percependone tutta la freschezza e la levità. Non ha bisogno di infilare il braccio in mezzo al busto per sentire il buco, il buco è ovunque.

Si dice che passò un anno intero in quello stato, con un’espressione felice sul viso, a occhi chiusi, lì a pensare al vuoto che abbracciavano le poche parti rimaste del suo corpo. Pare che sua moglie lo andasse a trovare di tanto in tanto ma che Ettore non si degnasse nemmeno di ascoltarla.
Un giorno, si dice, la moglie entrò nella stanza e non lo trovò più. Lo cercarono per giorni nei paraggi ma niente: Ettore pareva essersi dissolto.
Sua moglie è convinta che sia ancora vivo, dorme su quel letto e nel silenzio della notte riesce a percepire Ettore attorno a sé, dice che è come dormirci dentro. Avverte un formicolio per tutto il corpo, come se fosse delicatamente abbracciata da un qualcosa di igneo, incorporeo, una nube acroma e impercettibile. È convinta che Ettore sia sereno, tutto svuotato, tutto alleggerito, tutto scorporato e finalmente trasformato nell’assenza stessa: un buco.

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