Diamante

di Marco Broggini

Dodici percento. Dodici. Alle nove di sera. È così che fanno i cellulari, adesso. Li compri, li togli dalla scatola e iniziano subito a deteriorarsi un tanto al giorno. Sei mesi, massimo un anno, e dopo mezza giornata sei già senza batteria. Così sei costretto a comprare una power bank per tenerla in vita, salvare il salvabile, prolungare er un altro po’ l’agonia.
Fabio fruga nella tasca dello zainetto senza staccare gli occhi dalla strada. Tira fuori il simil dildo elettronico. L’iPhone è attaccato alla pinza sul bocchettone dell’aria. Ficca lo spinotto, ma l’affare è più scarico del telefono. Sarà una lunga notte. Da affrontare con il dodici percento.
Nove percento, perché lo stronzo si mette a suonare e sullo schermo appare il nome di un altro stronzo, Sam: “Ehi Asino! Come va?”
“Sto andando a lavorare. Cazzovuoi?” Fabio allunga il dito verso il tasto del vivavoce. Il terzo tentativo è quello buono.
“Uno: stai calmo. Due: sicuro?” La voce di Sam è più bassa, adesso.
“Sai com’è, sul contratto c’è scritto ventidue-sei.”
“Non stai andando sotto casa sua, vero?”
“Ho firmato ‘sto contratto di schiavitù apposta,” ammette Fabio mentre cerca di ricordare perché abbia risposto alla chiamata.
Sette percento. Freccia a sinistra, rotonda, freccia a destra, terza uscita. Via Borsellino. Nome appropriato per una strada in cui appostarsi, a patto che stavolta la macchina non esploda.
“Ti sento lontano, però.”
“Ho attaccato il vivavoce. Più di così non riesco ad alzarlo”.
“La frase più usata di sempre da Fabio Nacci.”
“Non ho voglia di scherzare mentre vado al turno di notte.”
“Ma se ti riempiono di soldi! Cazzo, ti sei fatto pure la macchina nuova.”
Strisce bianche. Marciapiede opposto, proprio sotto la finestra giusta.
“Sì, che non ha il vivavoce.”
“Autoradio estraibile?”
“Cretino.”
“Cosa l’hai comprata a fare?”
“Perché mi piace. Ci deve essere per forza un motivo?”
C’è il vicino di sotto. Un signore tutto ingobbito con il cappotto e il cappello. La solita valigetta Piquadro macchiata d’inchiostro sulla ribaltina gli pende dalla mano destra. Rientra sempre tardi dal lavoro. Appare nello specchietto, ma sta guardando per terra. Cosa che continua a fare fino al portone di casa. Scompare nella tromba delle scale. Non ha ancora superato la sua paura dell’ascensore.
“È GPL almeno?”
“Diesel.”
“Quindi tra un po’ sei fermo. Che scienziato.”
Fermo sotto casa sua. Come ieri. Come l’altro ieri. Come tutti i giorni nell’ultimo mese. In fabbrica l’avranno visto quattro volte, forse cinque.
“Se ti aiuta a dimenticarla hai fatto bene, socio. Seriamente.”
“Puoi dirlo. Sto guardando avanti.”
Davanti, due macchine dopo, c’è la sua vecchia Punto grigia. Se i sedili dietro potessero parlare… Di sicuro c’è ancora anche il buco nella gommapiuma. Quella volta erano troppo indaffarati per badare alla sigaretta accesa mentre cadeva a un centimetro dai loro culi sudati.
Probabilmente Sam sta continuando a blaterare. La signora del secondo piano gira l’angolo. Passa in rassegna un’auto dopo l’altra. Si ferma accanto a una 206 grigia scura, si china e guarda dentro. Annulla il riflesso con le mani. Sembra una che pianifica un furto. Ora Fabio è certo di aver speso bene gli ultimi soldi.
“Ci sei ancora?” Sam è più lontano che mai.
“Sì, sì.”
Uno percento.
“Potresti anche rispondere quando uno ti parla.”
“Ho detto sì.”
“Non fare stronzate, Nacci. Io lo conosco ‘sto silenzio.”
“Ma va.”
“Oggi si va in ga…” Schermo nero. Sarà una lunga notte.
I parchetti dei quartieri residenziali fanno paura quando sono vuoti. Quelle recinzioni così alte, senza nessuno da proteggere. E poi i bambini non scendono più al parchetto a giocare. Se ne stanno a casa, attaccati al tablet, mentre i genitori tentano di ritagliarsi qualche minuto di tempo libero. La settimana scorsa i Terulli hanno dimenticato la luce accesa in camera del figlio di sei anni, tutta la notte. Lo hanno portato il giorno dopo all’ospedale perché aveva male agli occhi. Urlava fortissimo.
A dire il vero nessuno esce più. Nemmeno lei. L’ultima volta è stata tre settimane fa. A piedi, in tuta, con le bottiglie di vetro in mano. Fino ai distributori dell’acqua e ritorno. È stato lì che gli ha detto che non voleva più vederlo.
Fabio tira gira la manopola per tirare giù il sedile. Arriva al fondo con il fiatone. Uno sforzo sprecato, tra l’altro: il portone si spalanca e appare lei. Fulmine al guinzaglio, i capelli raccolti, la stessa tuta dell’altra volta.
È finita tre settimane fa, ma l’immagine di lei è come un diamante nella testa di Fabio. Un diamante bello, ma soprattutto duro. Immutabile. Non riuscirà mai a dimenticarla, o anche solo a vederla in un altro modo.
A meno che…
Fabio si alza di scatto, gira la chiave. Per un attimo dimentica di mettere la prima. La Polo si lamenta, ma è meglio così: lei deve accorgersi di ciò che sta per accadere. Romba fuori dal parcheggio. Il sangue si sparge sull’asfalto. Il diamante si è rotto, come il parabrezza. Freccia a sinistra, rotonda, freccia a destra, prima uscita.

Hanno lasciato la bara aperta. Anche lì, a neanche un metro dal buco in cui verrà calata per sempre. Lei non ha mai messo quel vestito per uscire con lui.
Il diamante è ancora lì.
Le pompe funebri hanno fatto proprio un bel lavoro.

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