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#MonterosaRacconta | Città Sommersa, di Marta Barone

Ho iniziato a seguire Marta Barone su Twitter prima di averla inquadrata nel nostro panorama letterario; quasi sicuramente ho visto il suo libro prima da Simone Tribuzio che da chiunque altro nel mio radar. Non ci si può tirare indietro dai suoi consigli: l’ho acquistato e letto in tre giorni, a marzo. Poco dopo, la notizia che Città Sommersa di Marta Barone era tra le file dello Strega, una scalata fino alla cinquina (sestina) e poi il colpo d’anca.
Ma se il Premio Strega racconta «il nostro Paese, documentandone la lingua, i cambiamenti, le tradizioni» e incoraggiare «i lettori italiani a leggere se stessi, la loro storia e il loro presente attraverso lo specchio della narrativa contemporanea», allora Città Sommersa (Bompiani, 2020) ha soddisfatto abbondantemente questo compito. Quello che da alcuni viene presentato come un libro sul terrorismo e sugli anni Settanta–Ottanta è molto, molto di più: è una storia personale e nazionale insieme, una storia che si svolge nelle movimentate strade di una Roma o di una Torino del passato e, contemporaneamente, nell’immobilità dolorosa di una Milano contemporanea. È una storia che ci dimostra, nuovamente, come in Italia l’identità funzioni anche per separazione, e di come la ricerca del passato è sempre un ritrovamento di se stessi – o un ricongiungimento, almeno. Per questo oggi, 13 Agosto, è a Monterosa Racconta.

Non somigliava a nessun adulto che conoscessi e non somigliava a un genitore.

Marta Barone, Città Sommersa

Il protagonista di Città Sommersa è un padre prima che sia un padre, la trama è creata da una figlia a caccia di questa persona che è esistita prima di lei. Un uomo che era un medico operaio, un attivista, arrestato nel 1984 e processato per aver curato uno di Prima Linea, ma anche un amico, un innamorato, uno studente. Marta va a caccia chiedendo ad amici e cari, ma anche a persone che fino ad allora non aveva avuto modo di incontrare; chiede loro notizie e ricordi su L. B., intrecciando e confrontando le risposte, aggiungendo tasselli a un ritratto che fino ad allora le era rimasto in ombra. Lo fa cercando negli articoli di giornale e nei documenti giudiziari, guardando servizi d’archivio e scrutando tra i volti della folla, nel tentativo di riconoscere qualcuno che (ancora) non conosceva. Non sa bene cosa scoprirà, non sa se lo deve temere o desiderare: sa solo che deve continuare.

Non ricordo dove, ma mi è capitato di leggere che* l’Italia è un Paese senza padri; e, forse perché in questo momento mi trovo vicino a Trapani, penso subito a Enea che, prima di poter conoscere Didone e di poter arrivare nel Lazio, deve necessariamente lasciare le spoglie del padre Anchise a Erice, perché non può creare una nuova stirpe se rimane figlio e non è patriarca lui stesso. È nel momento stesso in cui diventa orfano che può davvero istituirsi come autorità: prima la missione non poteva essere portata a compimento, era necessario perdere il padre. Così come Marta Barone è «consapevole che il libro esiste perché non c’è più l’uomo», così come negli anni Sessanta inizia la rivolta ai padri e l’epoca dei figli.
Città Sommersa è una storia italiana non solo perché intrinsecamente legata all’orizzonte temporale che ci è vicino, ma perché porta con sé i segni di questa vicinanza, così prossima da essere quasi illeggibile.

Non è un romanzo storico né storiografico; non è una vera biografia, né un’autobiografia. Non è un libro politico e non è un memoriale. A dover pensare a libri in cui si affrontano temi simili, La vita agra di Bianciardi e Gli anni del giudizio di Arpino potrebbero essere dei candidati; ma non mi viene in mente una mancanza così forte della voce principale, non mi vengono in mente donne, non mi vengono in mente figlie. C’è La più amata di Teresa Ciabatti, ma manca quel background politico e sociale che costituisce la spina dorsale de La vita, Gli anni e Città. In comune con La più amata, c’è però un sentimento pervasivo di resa dei conti: con la memoria e con il suo potere, simile a quello infallibile della letteratura, di glossare sulle cose, di trattenere ciò che vuole e di tralasciare il resto, di raccontare e raccontarsi una storia, che forse non è la Storia.

Ho detto e scritto spesso che mio padre, per me, rappresenta il Novecento. Non solo perché vi è nato e vissuto, ma soprattutto in quanto corpo e mente che hanno sperimentato esperienze e contraddizioni che non si ripeteranno mai più. A volte mi è difficile conciliare che mio padre sia una cosa così prossima come metà del mio patrimonio genetico e, al tempo stesso, sia stato testimone di accadimenti quasi mitologici: il gabinetto in giardino, lo sbarco sulla Luna, il viaggio a Stalingrado, i pullman sgangherati per le feste dell’Unità, andare in colonia con i bimbi poliomielitici e mangiare i budini inviati dagli Alleati, le occupazioni del Politecnico, in vacanza dormire in tenda con un coltello sotto il cuscino perché c’è il mostro di Firenze in giro, la mensa universitaria a 250 franchi**, i funerali di Berlinguer.

Quello che ho ritrovato quindi, nel libro di Marta, è anche una parte della mia educazione civile e personale. È anche quel senso sommesso di resa alla Storia che condividiamo con i nostri genitori, il compromesso che portiamo sulle spalle e le contraddizioni di ogni giorno, la consapevolezza che per parlare la lingua dei padri bisogna usare vocaboli amari e speranzosi assieme, vuoti e al tempo stesso dall’eco profonda.

Lo slogan era molto semplice: pane, pace e lavoro. La questione più torva e irrisolta, ossia il fatto che per arrivare a una rivoluzione occorresse passare attraverso la violenza – violenza armata – restava sotterranea. […] E poi, almeno fino a quel momento, la violenza e il delitto erano stati appannaggio dell’altra parte. I fascisti e la polizia.

Marta Barone, Città Sommersa

Città Sommersa viene a chiedere i conti: a una certa retorica, a una memoria collettiva che non è e che non può essere nazionale, perché è di parte per sua natura, perdente di nascita, comune per aspirazione. Città Sommersa ci prende per le spalle mentre negli anni Venti del Duemila siamo milanesi senza patria e senza passato in comune, mentre non sappiamo non essere Europei e andiamo in treno a Bologna senza sfiorare la morte. Eppure è perché è successo che siamo così. Del terrore e delle battaglie non sappiamo niente, dello sporcarsi le mani e la coscienza, del dover scegliere tra giusto e sbagliato nel giro di un attimo. Ma nemmeno del chiedere a una voce di parlare attraverso gli altri, di rivelarsi dai fogli, di sorgere dagli archivi, noi che con pochi click abbiamo il mondo davanti agli occhi, che con la stessa facilità reperiamo online film sovietici del 1938 o l’esplosione a Beirut dell’altro giorno. Se cerco «occupazione politecnico milano» trovo solo pagine e pagine di dati sull’impiego dei laureati negli anni: per la storia vera devo chiedere a mio padre.


* Bastava fare una ricerca su Google, come per tutte le cose, per trovare per esempio Massimo Recalcati, Patria senza padri, Minimum Fax 2013 oppure Emilio Gentile, Italiani senza padri, Laterza 2011
**Nella mia area della Lombardia, la lira veniva comunemente detta “franco”

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