La città dei vivi di Nicola Lagioia: un libro, tanti libri

Il 4 marzo 2016, a Roma, Luca Varani viene a lungo torturato e infine ucciso da Marco Prato e Manuel Foffo, nell’appartamento di quest’ultimo al quartiere Collatino. Un caso di cronaca tanto eclatante quanto efferato, che all’epoca colpì per la giovane età dei protagonisti (23 anni la vittima, 29 i carnefici), lo scontro di classe che vedeva opposto Varani, ragazzo di borgata adottato da una coppia di venditori ambulanti, ai medio-alto borghesi Foffo e Prato e, soprattutto, per l’assenza di un movente e l’assurdità di un gesto così atroce e sadico perpetrato ai danni di un quasi sconosciuto.

Prato, Varani, Foffo (da Il Messaggero)

Nel momento in cui apprende l’accaduto dalla TV Nicola Lagioia è in un tranquillo periodo di transizione: è il Premio Strega in carica, sta lavorando a un nuovo libro e ancora non sa che, da lì a un anno, diventerà il direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino. La notizia prima lo ipnotizza, poi lo disgusta, poi lo divora come un tarlo che gli impedisce di pensare e lavorare ad altro; infine diventa un’ossessione che lo scava dentro, mentre lui smette di scavare tra le virgole del nuovo romanzo e inizia a farlo negli anfratti di questa storia.

La città dei vivi, edito da Einaudi, è il risultato di quattro anni di scavi. Un libro che è talmente tante cose insieme che chi ama le etichette e le catalogazioni faticherà a collocare.

Peter Falk, Colombo photographed in Los Angeles, CA November 1988 (Photo by Douglas Kirkland/Corbis via Getty Images)

Banalmente è un’indagine, quasi un giallo alla Colombo, dove lo spettatore già conosce vittima e assassino e gradualmente viene condotto dentro la ricostruzione di fatti, legami, psicologie, principi di azione-reazione. Ma Lagioia non è un lento detective riflessivo con impermeabile e sigaro, il ritmo che impone è una schizofrenia di rielaborazioni romanzate, atti processuali, post sui social, testimonianze di protagonisti e personaggi secondari che vanno dallo strumentale al memorabile, pezzi di interviste e di comparsate alla TV, tentativo personale, febbrile e nervoso di dare un senso all’insensato.

Ed è in questa ricerca che il libro si fa romanzo di formazione, diventa un viaggio dell’eroe che l’autore stesso compie per affrontare un fatal flaw da troppo tempo sopito, con tanto di elementi strutturali vogleriani ben riconoscibili: la chiamata all’avventura e il rifiuto della stessa quando gli viene proposto di scrivere della vicenda sul Venerdì; l’attraversamento della soglia verso il mondo straordinario e il punto di morte nel rendersi conto che, una volta consegnato il pezzo, il rapporto con il caso Varani non può esaurirsi così; l’avvicinamento alla caverna più recondita dentro sé stesso e il ritorno con un elisir amaro, che nel libro esplode a sorpresa in una confessione che è a sua volta motore di tutto il viaggio.

Nicola Lagioia (da Corriere di Torino)

Dentro La città dei vivi, anche quando il tono si fa riflessivo, è costantemente palpabile una certa irrequietezza, quella che nelle sale d’attesa ti fa muovere a disagio sulla sedia, resa benissimo dal fatto che i ragionamenti di Lagioia avvengono in costante movimento, mentre cammina instancabile attraverso Roma. E allora il libro è anche una guida turistica non autorizzata della Capitale, metropoli infinita marcia di topi, immondizia e corruzione, dove i gabbiani ti puntano minacciosi e le biciclette vengono lanciate dai ponti. Non solo arena ma protagonista tematica della storia, come in ogni noir che si rispetti. Una città eterna nelle sue contraddizioni, immobile come il governo che la rappresenta ma sempre in fermento. Morta, come le rovine che la ornano, ma brulicante di vita nelle notti che la animano. In uno storico equilibrio precario tra trascendenza e immanenza amplificato, all’epoca dei fatti, dalla presenza di due papi e dall’assenza di un sindaco. Una città decadente e irridente come i suoi abitanti, spietati nei rapporti sociali e cinicamente consapevoli della caducità delle cose; vivi che devono venire a patti con l’eredità scomoda lasciata dai morti.

Lagioia frulla tutto questo in una lingua piana distante anni luce dagli arzigogoli de La ferocia, in una scrittura spesso debitrice della laurea in Giurisprudenza del suo autore, e proprio nelle contraddizioni cerca un appiglio per comprendere, per disegnare il ritratto di due assassini inconsapevoli, ragazzi incompleti come tanti altri che li frequentano, imprigionati tra ciò che sono, ciò che vorrebbero essere e i ruoli che la società vuole che interpretino. E qui La città dei vivi, senza giudicare né tantomeno assolvere, diventa saggio: cerca un movente là dove il movente sembra non esserci, indaga sui concetti di colpa e di responsabilità, analizza i comportamenti di famiglia e società in costante oscillazione tra città e periferia, costringe il lettore a guardare dentro di sé per riflettere su quanto sia labile il confine tra essere vittime e diventare carnefici. Tutto questo lasciando la vittima sullo sfondo, perché ciò che si sa di lui è vago e frammentario. Ma non c’è pagina in cui la figura di Luca Varani non urli tutta la sua ingombrante presenza.

La città dei vivi forse non è un libro bello secondo i canoni estetici consueti, ma è un libro necessario. Perché è un’istantanea del Paese, è lo sforzo gigantesco di capire la storia mentre la racconta, è un libro sporco che sporca il lettore, che lo porta a fare i conti col suo voyeurismo quando, leggendo, inevitabilmente cerca in rete le facce dei protagonisti e le loro tracce social, per vedere come se la passano oggi. È un libro simile alla città che racconta, quella che, dopo 60 anni, ancora ci attira, prorompente e voluttuosa, con un “Marcello come here”. E poi non ci lascia scappare, ci mastica e ci risputa sulla spiaggia, lasciandoci con gli occhi vuoti di un mostro marino.

Davide Cerreja Fus

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.