Inesorabile sfiorire

di Benedetta Iezzi

Joseph aprì gli occhi.
Il suo primo istinto fu cercare Catherine con lo sguardo. Lo sorprese il candore della stanza, quelle mura bianche terribilmente alte e quel soffitto bianco, costellato di piccoli bagliori. Chiuse gli occhi dolenti. Li aveva tenuti chiusi per settantaquattro anni.
In ospedale gli avevano spiegato che era il 1987. Molte cose erano cambiate. C’erano state molte guerre nel mondo ma nessuna in casa, c’era stata la crisi economica, nessuno leggeva più Walter Scott e le donne indossavano spesso i jeans al posto delle lunghe gonne a fiori. Joseph annuì. Gli parlarono di computer e dei telefoni ma Joseph quasi non ascoltò. Il suo sguardo era fisso fuori dalla finestra. Le nuvole erano uguali a quando aveva chiuso gli occhi, persino il cielo gli appariva lo stesso, e i tetti di mattoni delle case. Questo era ciò che contava.

Lo dimisero dalla clinica dopo pochi giorni. Joseph uscì dall’ospedale inosservato. A guardarlo in volto, nessuno avrebbe potuto indovinare che cosa avesse passato. Sette anni prima era stato risvegliato il primo cadavere ibernato, la televisione e i giornali ne avevano parlato per giorni. La donna tornata alla vita era stata seguita dai giornalisti, intervistata, fotografata. L’attenzione per il suo caso era stata tanta. Aveva scritto un libro di memorie ed era diventata un’ospite fissa in tv. Dopo di lei i cadaveri tornati in vita erano stati molti, quasi diecimila: l’interesse del pubblico si era lentamente affievolito. I non morti si mescolavano nelle città portandosi appresso il loro segreto. Molti di loro non avrebbero mai confessato di aver trascorso mezzo secolo in una capsula di ghiaccio. Provavano vergogna per la loro prima morte. Era un’esperienza che li rendeva diversi, misteriosi e che creava diffidenza nelle altre persone. Così sarebbe stato per lui.
Uscito dall’ospedale, Joseph tirò fuori dalla tasca il biglietto con l’indirizzo di Catherine. Gli avevano insegnato come prendere un autobus, dove comprare i biglietti e come scegliere le tratte. La città, gli avevano detto, è molto cambiata in questi anni. Ma Joseph voleva andare a piedi. Nel suo lungo sonno se l’era sempre immaginato così l’arrivo da Catherine: a piedi.
Quella parte di mondo in cui Catherine abitava era rimasta per lo più rurale. Joseph camminò tra l’erba, con le sue lunghe gambe da corridore, facendosi forza nonostante i dolori lancinanti alle articolazioni, come se qualche parte del suo corpo fosse ancora ghiacciata. Come un tempo, tra l’erba arruffata crescevano le margherite selvatiche. Joseph ne raccolse una. I petali bianchi gli ricordavano i lobi di Catherine, lobi piccoli da cui penzolavano orecchini di perle.

Un tempo in quella valle abitava anche lui. Quando aveva diciassette anni Catherine apparve tra l’erba, assieme alla sorella minore. Giocavano a nascondino tra le margherite. Catherine aveva lunghi capelli neri e una coroncina di fiori sul capo. L’aveva guardato con i suoi grandi occhi blu, poi con l’indice contro le labbra gli aveva fatto segno di stare in silenzio. Joseph, allora, si era accucciato anche lui tra l’erba, per nascondersi assieme a lei. Restarono lì, senza parlare, finché non scese la sera. La sorella di Catherine vagava nel campo e chiamava il nome della sorella.
– Dai, vieni, mi arrendo – le diceva – il gioco è finito. Ora ho paura.
Ma Catherine non si muoveva. Joseph, per pudore, non l’aveva più guardata in viso. Si era soffermato soltanto sulle dita delle sue mani, posate contro la terra, e la piccola fedina che aveva al dito. Joseph sussultò pensando che quella ragazza fosse già fidanzata e che lui avesse già perso. Il gioco finì quando nel cielo apparve la luna. La sorella di Catherine era tornata a casa da un pezzo, piangendo disperata. D’improvviso Catherine si alzò.
– Ho vinto io – rise sistemandosi la gonna bianca, ormai sporca di terra e di verde.
– Come ti chiami? – domandò. Aveva un accento gitano. Joseph capì di amarla. Sarebbe rimasto nascosto nell’erba per sempre, a guardare le sue piccole mani.
– Joseph. – rispose – E tu? – domandò in fretta, prima che la domanda gli sfuggisse. Aveva la sensazione che se non gliel’avesse chiesto la sua vita sarebbe stata rovinata per sempre.
– Catherine. – disse lei.
– Catherine. – ripeté lui. Catherine si guardò le dita:
– Era di mia madre… Sono orfana – doveva aver notato lo sguardo insistente di Joseph che si era arrampicato sulle sue dita. Da allora Joseph avrebbe scoperto che a Catherine non sfuggiva mai niente. La ragazza fuggì verso la sua casa, correndo nella notte come un raggio argenteo di luna.

La casetta in cui Catherine abitava spiccava sulla strada. Era isolata, arancione e minuta, con le mura un po’ scrostate dal tempo e i balconcini di legno consumati. In tutti quegli anni non era cambiato molto. Soltanto, non c’era più il vecchio cane legato all’ingresso, per vegliare sulle bambine, e l’abitazione tutta pareva un’arancia appassita. Joseph bussò alla porta. L’emozione di quel momento non era grande come avrebbe immaginato. Gli pareva di essersi svegliato da una notte troppo lunga ma di essere, in fondo, lo stesso di allora. Settantaquattro anni non avevano significato per lui che non li aveva vissuti.
La porta si aprì e Joseph scorse una ragazza con i capelli radi e sciolti, un viso da folletto, con la punta del naso arrossata seppure facesse caldo. Joseph la guardò in silenzio. Era il primo essere umano che incontrava sulla sua via senza guanti, senza camice e senza mascherina. Joseph ricordò, guardandola, che cosa significasse essere in vita.
– Sono Joseph. – disse, poiché gli parve la cosa più ovvia da dire.
La ragazza lo fissò. Doveva trovarlo uguale a certe fotografie sul comodino della zia.
– È arrivato… – pronunciò senza che le sue labbra si muovessero. Poi si voltò, come senza forze, e puntò lo sguardo verso il corridoio buio. La sorpresa rendeva i suoi movimenti meccanici. – La zia… È in camera sua.
– Catherine?
La giovane annuì, senza pronunciare più nulla. Si scostò, soltanto, per far entrare l’uomo in casa. Lui non aveva dubitato nemmeno per un momento che la sua Catherine fosse morta. Eppure, adesso, nell’avere la certezza di poterla incontrare, non riuscì a trattenere un sussulto.
Joseph avanzò piano, con i suoi grandi stivali ai piedi, guardando tutto ciò che lo circondava come se si trovasse in un sogno. Ricordava ogni stanza della vecchia casa. Certo, i mobili erano diversi e le pareti ripitturate, ma il cuore dell’abitazione era esattamente lo stesso. Lì nell’angolo c’era ancora la foto sbiadita di Catherine e sua sorella, con i nastrini tra i capelli. Nelle foto di quel periodo nessuno sorrideva mai. Catherine e Lily, invece, sorridevano con la bocca spalancata. Nel guardare la foto, Joseph pensò alla loro risata. Da quando non udiva qualcuno ridere?
Percorse il corridoio buio. La stanza di Catherine era quella di un tempo, quella in cui dormiva da ragazza, sul fondo della casa. Anche la porta era la stessa, pitturata di bianco e con un cuore all’uncinetto appeso alla maniglia.
Joseph bussò. Adesso le sue dita tremavano. L’emozione arrivò tutta assieme. Gli pareva di essere sospeso nel tempo, di vivere quel momento mescolati a mille altri, a tanti altri momenti in cui era entrato in quella stanza e aveva trovato Catherine che si cambiava i vestiti, pronta a uscire.
Si erano amati per tre anni, fino alla malattia di lui. Erano stati tre anni belli, dolci e amari insieme. Erano anni lontani per tutti tranne che per Joseph. Tranne per quella casupola dalle mura scrostate. Era rassicurante, per Joseph, che qualcuno continuasse a ricordare.
– Entra, Debby – pronunciò la voce dietro la porta.
Joseph entrò.
Su una sedia di vimini vicina alla finestra era seduta una figura piccola, come spiegazzata e appallottolata dal tempo, con i capelli nerissimi lasciati sciolti. Al contrario del corpo, i capelli parevano quelli di una ragazza. Scivolavano mossi lungo le spalle, luminosi e vivi come un tempo. Il volto sbiadito di Catherine si focalizzò sullo sconosciuto. I suoi occhi blu erano molto cambiati negli anni. L’intensità di un tempo era sbiadita e ora il loro colore appariva sfumato e tenue, simile alle tonalità di un acquerello. Joseph camminò piano, le si avvicinò con passi lenti che quasi non fecero rumore sul pavimento. Catherine, d’istinto, tirò la coperta che aveva sulle ginocchia, nel tentativo di coprirsi le gambe. Soltanto allora Joseph vide che dalla coperta spuntava un solo piede, nudo e bianco, con le unghie pitturate di smalto rosso.
Joseph le porse la margherita che aveva raccolto nel giardino. Catherine la prese tra le mani e la fissò.
– Credevo che non ti avrei rivisto mai più.
Joseph si sedette su una sedia di fronte a quella di Catherine. Lì tutti i pomeriggi si sedeva Debby per chiacchierare con lei, metterle lo smalto o pettinarle i capelli.
– Catherine…
Appena la donna udì il proprio nome pronunciato da quella voce, da quelle labbra, una lacrima le attraversò la guancia avvizzita. “Catherine…” aveva detto lui quando si erano presentati, appena emersi dal loro nascondiglio. “Catherine…” aveva ripetuto prima di baciarla di fronte alla scuola. “Catherine…” aveva sussurrato, togliendole di dosso la gonna a pieghe. “Catherine…” aveva pronunciato prima di morire.
Catherine aveva perso quella ragazza. Quella che con tanto ardore l’aveva amato. Ne era rimasta una scorza disastrata. Tuttavia, quel che era rimasto di Catherine, l’involucro della farfalla, era rimasto per aspettarlo. L’aveva atteso in quella casa gialla, con i suoi capelli lunghi e neri, con il cuore pieno d’una speranza disperata.
– Oh Joseph… non è cambiato nulla in te.
Catherine gli afferrò la mano. La margherita scivolò sulla coperta che le nascondeva la gamba. Aveva le mani calde, profumate di crema.
– Nulla – ribadì lui pieno di sgomento. Catherine aveva vissuto una vita intera senza di lui, aveva collezionato le sue memorie, i suoi segreti, le gioie e i dolori. E lui, lui senza di lei non era stato niente.
– Ho tanto da raccontarti – disse lei, leggendo i suoi occhi.
Puntò lo sguardo su quelle sue iridi che non erano più blu come gli abissi marini ma erano d’un azzurro sbiadito e stanco, lo stesso colore del cielo a primavera. Ogni volta che la guardava notava sfumature diverse, intense, fugaci. Era come se lei cambiasse continuamente. Osservò poi il suo volto. Nelle sue rughe erano impresse memorie, delusioni, speranze, risate, belle sere sotto il portico di casa, compleanni, matrimoni e funerali. Com’erano invidiabili per un uomo che aveva perso settantaquattro anni.
Joseph sentì di amare quella donna così come aveva amato Catherine. L’amava in un modo pungente e doloroso che gli lacerava il cuore. Amava il modo in cui socchiudeva le palpebre, a seguito di ogni parola, amava la sua stanchezza e il suo inesorabile sfiorire.
– Debby, tesoro… – chiamò Catherine – Porta del thè per Joseph.
Debby, dietro la porta, rispose che avrebbe portato anche dei biscotti. Al burro, precisò.
– Al burro vanno bene – rispose Joseph.

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