Perdersi in via Gemito

Scegliere il proprio libro preferito è un esercizio di meravigliosa indolenza, e spesso abbastanza inutile. Cambia con l’età, il vissuto, i sentimenti che uno prova. Via Gemito, il capolavoro con cui Domenico Starnone ha vinto Strega e Campiello nel 2001, non saprei classificarlo in un eventuale top 5 o top 50, se anche volessi. Al contrario di molti dei suoi attuali lettori, che stanno riscoprendo il romanzo di Starnone nella sua nuovissima edizione Einaudi, ho ritrovato in una biblioteca di quartiere la primissima Feltrinelli, ricca di frammenti di vita tra appunti, classifiche di ragazze e biglietti GTT. Un inizio promettente, che indirettamente mi faceva entrare in una dimensione di quotidianità, di adolescenza e ricordi lontani. Ecco, davvero non saprei inserirlo in una qualsiasi classifica, ma posso dire con certezza che Via Gemito è il libro che vorrei essere capace di scrivere, e forse non solo io.

La storia, all’apparenza, è quella di Federì, pittore ferroviere, e della sua famiglia, composta dalla moglie Rusiné, dal figlio Mimì che la racconta e tutti i figli, suocere, parenti che stanno da contorno. Ma a prendersi la ribalta, i ricordi, le pagine del libro è Federì, ingombrante e piacione, narciso e astioso, verace e pallista, che fa il bello e il cattivo tempo e occupa con la sua figura ingombrante la scena. Come se fosse inevitabile, giusto, persino necessario.

Federì è un personaggio da romanzo ottocentesco, enorme, ricco come i grandi personaggi di contraddizioni che si risolvono nella sua persona. Lo dimostrano l’incipit e la conclusione del libro, dove passa dalle botte date alla moglie Rusiné all’abbraccio giocoso fra i due che chiude il romanzo e all’apparenza li riconcilia. Ma Via Gemito non è un libro che segue una via cronologica, non è quello il modo giusto di raccontare una storia filtrata da un padre eccessivo e un figlio che insieme lo giustifica, lo odia, lo vorrebbe ammazzare e riabilitare ad ogni riga, ad ogni pensiero.

Federì è il grande pittore con un destino di successo già scritto, è il ferroviere scontento di dover faticare per poter mantenere la famiglia, è l’anima della festa quando si tratta di esaltare se stesso e catalizzare l’attenzione, è l’odio verso i parenti presunti approfittatori e verso i colleghi pittori, tutti raccomandati e inesorabilmente chiaviche. Un gigante meschino, intorno a cui orbitano le vicende del romanzo.

Mimì, la voce narrante, è il più grande critico di queste memorie, di queste parole che non riescono a tradurre su carta i sentimenti provati, non riescono a discernere la realtà dei fatti dalla menzogna del padre, e il più delle volte mettono in discussione quella realtà che non racconta niente, che suona più falsa, in chi l’ha vissuta, delle fantasie di Federì.

Ma dal titolo, Via Gemito, capiamo che non è soltanto questo, non può essere soltanto questo. È vero, il padre tenta di risucchiare la storia e le vicende di tutti. Ma il punto di equilibrio del romanzo è la casa di Via Gemito, dove Mimì è cresciuto ed è tornato da adulto per provare ad acciuffare frammenti di passato. L’architettura del romanzo rispecchia quella della casa, le stanze anguste e claustrofobiche come gabbie per un solo, vero leone, le opere del padre che accatastano i luoghi della famiglia, come il tavolo e i letti, addossati l’uno sull’altro. E tutto in una Napoli che attraversa il Novecento, nell’infamia e nella meraviglia che è solita regalare.

Sarebbe interessante capire quanto c’è di Starnone in Mimì, quante vicende derivano dalla sua autobiografia, dal suo mondo. Meglio rimanere incantati anche noi, ancora per un po’, nei sogni di un pittore, in quei mondi pittati che esistono solo nella fantasia di Federì, e che, pur non volendo, diventano parte anche della nostra.

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