Bianca Giacalone Sirene Germogli

La sirena delle lavatrici

di Bianca Giacalone

La prima volta lo sentì come una cosa distante e non ci fece caso. Passava le notti da solo nel suo appartamento con le finestre spalancate perché la casa aveva i muri caldi da inizio giugno. Dormiva sempre col pigiama, anche se la mattina le lenzuola erano umide e morbide e odoravano del suo sudore notturno. Ogni giorno faceva un giro di lavatrice e tutto tornava asciutto e rigido, al profumo di lavanda, quello che secondo lui l’avrebbe fatto dormire, ma erano mesi che soffriva d’insonnia. Il suo appartamento dava sulla strada e la notte sentiva rumori di ogni tipo: grida e gatti in calore, ambulanze, schiocchi di baci, il vento che ogni tanto si insinuava per le strade e faceva il suono dei fantasmi. Per questo la prima volta che lo sentì non ci fece caso. Ma di notte in notte si fece più forte e lui capì che doveva cercarlo dentro l’appartamento e non fuori. Era sempre lo stesso. Sembrava che un uccellino fosse rimasto intrappolato in un angolo della casa e stesse sbattendo furiosamente le ali per volare via. Cercò.

Mentre camminava verso il bagno, ecco che si fece più forte. Sembrava venire da dietro la lavatrice. L’elettrodomestico era piccolo, l’aveva trovato già nella casa quando l’aveva affittata. Ci era affezionato e aveva con lei un rapporto placido e sincero: lei gli lavava i panni e lui ogni tanto le si sedeva accanto e le raccontava le sue giornate.

Quindi si affacciò dietro la lavatrice, ma vide solo un groviglio di cavi. Allora provò a spostarla, ma sembrava che avesse messo le fondamenta sotto al pavimento blu. Così pensò che magari, dopo tutte quelle chiacchere e lavaggi a cinquanta gradi, la sua lavatrice si fosse messa anche lei a parlare. Ma cambiò idea presto. La lavatrice era immobile e sentiva qualcosa di vivo che si dimenava piano.

Fuori aveva iniziato a piovere e gli sembrava che la cosa viva fosse triste: conosceva il rumore opaco della malinconia.

Era una tristezza dolce come il profumo dell’ammorbidente, un tubo che cola, una goccia ogni mezzo minuto. Non c’erano luci accese in casa, le finestre spalancate nel corridoio facevano entrare la pioggia estiva e illuminavano l’appartamento di grigio. Lui era seduto sul pavimento a piedi nudi col pigiama color carta da zucchero. Chi sei, aveva chiesto. Ma, a parte qualche muoversi di tubi, non aveva avuto risposta.

Le notti erano queste e ogni tanto pioveva leggero e la casa si rinfrescava e lui e la creatura erano malinconici. Non poteva pensare che ci fosse qualcosa dietro la lavatrice che facesse rumore e che non avesse un corpo, perché un corpo lo hanno tutti, anche i fantasmi.

Allora prese il suo blocco da disegno e la matita e iniziò a dare una forma alla sua creatura.

Era una sirena grande quanto un indice, la sirena delle lavatrici, che nuotava attraverso tubi e condotti di elettrodomestico in elettrodomestico e ogni tanto restava a riposarsi in quelli che riteneva più comodi: questa volta era toccato alla sua. Se la immaginava tutta blu, con capelli fatti di piccoli tubi di gomma tagliati e arricciati, una coda decorata con squame di lenzuola e un petto nudo e minuscolo come quello di un feto. Profumava di ammorbidente e detersivo per capi delicati.

Quando sentiva i rumori se l’immaginava lì, che si muoveva su e giù tra liane di tubi. Forse lo spiava coi suoi occhi minuscoli e neri e chissà a cosa pensava.

Aveva smesso presto di fare le lavatrici tutte le settimane, si era detto che forse lavare le cose a mano avrebbe fatto sprecare meno corrente, meno bollette da pagare. Ma lavare a mano richiedeva tempo e fatica e i panni si accumulavano. Aveva paura che facendo troppo lavatrici avrebbe scacciato la sirena, che sarebbe andata a finire magari dal vicino di casa o nella lavanderia dietro l’angolo. La notte parlava con lei, non a parole, ma con un agglomerato di suoni e di rumori. Più che altro le parlava di lei, di come s’immaginava la sua vita, e mai di se stesso: non c’era molto da dire in fondo. Pensava che lei vivesse in mari azzurri lenzuolo e che si bagnasse nell’acqua candeggiata con residui di cotone che si attaccavano ai suoi capelli e sembravano fiori marini.

Una notte, al posto dei soliti rumori, aveva sentito come un canto che proveniva dall’oblò e, mettendoci la testa dentro, aveva iniziato a cantare anche lui. Sembravano i versi delle balene, così dolci e grandi che riverberavano tra le pareti tonde e argentate. Quella notte riuscì a dormire per un’ora intera.

Intanto i panni si accumulavano e lui aveva iniziato a comprare delle cose nuove che smetteva subito dopo perché si sporcavano. Solo le lenzuola rimanevano intatte: non andava più a letto.

Pensava che avrebbe voluto essere anche lui una creatura delle lavatrici: la vita nel suo mondo l’aveva annoiato. Faceva il professore, ma solo sostituzioni e la sua ultima ragazza se n’era andata a studiare in Canada un giorno di dicembre senza dire tante parole. Lui era rimasto in quella casa, troppo grande, troppo cara e non se n’era saputo andare.

Voleva una vita piccola, in balìa di acque chimiche e profumi candeggiati, avanti e indietro per i tubi, voleva fare discorsi senza parole e conoscere le lavatrici delle persone. Lavare i panni è una cosa molto intima, aveva detto alla sirena. Tu hai visto i miei panni, io non ho mai visto te. E la sirena rispondeva con rumori carichi di mestizia. Si era convinto che lei stesse provando a trasformarlo, che lo volesse portare nei marosi morbidi dove abitava. E aveva preso a stare lì senza alzarsi più, su cuscini di felpe e mutande sporche. Il senso era tutto in quei rumori ovattati e mesti, il resto del mondo non aveva più un senso vero e profondo. Desiderava un sentiero buio di acqua e suoni e una mano che lo guidasse. Voleva addormentarsi a galla sul petto della sirena, Tlipsì l’aveva chiamata, come la protagonista di un’antica fiaba, e lasciarsi trascinare nei vortici di panni in ammollo. Le avrebbe regalato una tiara fatta coi bottoni del suo pigiama e lei in cambio gli avrebbe dato una cosa che nessun’altro poteva dargli: l’oblio.

Nell’appartamento il telefono squillava, il campanello suonava, le lettere non venivano aperte e ogni cosa non era al suo posto. E poi ci fu un canto più forte che proveniva dall’oblò. Ci siamo, pensò, Eccomi Tlipsì! Chiuse gli occhi e mise la testa dentro le pareti tonde e metalliche, ma non successe niente. Continuava a sentire una voce, una melodia e a un certo punto la sua mano toccò i tasti per azionare la lavatrice. Fu una tempesta d’acqua, uno spettacolo meraviglioso. Si lasciò accarezzare dalle onde dell’oblò che girava da una parte e poi dall’altra, come dentro a un mare in tempesta. Più forte, diceva, e azionò la centrifuga. L’acqua si riversava copiosa sul pavimento e andò a finire sui tubi e sulle prese e ci furono scintille e lampi e la voce cantava sempre più forte e la centrifuga girava sempre più veloce. Lui cercava di entrare tutto quanto dentro l’oblò perché sentiva che era arrivato il momento. E i ricordi passavano a ogni giro, come se ora potesse lavarli e tenerli puliti nella sua mente. Ci fu un’esplosione di acqua e luce. Tutto diventò buio.

Nei giorni seguenti qualcuno che si era preoccupato per le chiamate senza risposta, per le lettere rispedite al mittente e per il campanello che suonava senza che nessuno accorresse al citofono, aprì l’appartamento e lo trovò vuoto.

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