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Pop Corno: Le bonheur di Agnes Varda


Il 28 dicembre 2020 il cinema ha compiuto 125 anni: in quello stesso giorno del 1895, infatti, venivano proiettati pubblicamente i 46 secondi di quello che è considerato il primo film della storia, creato dai fratelli Lumiére. Io invece, di anni ne sto per compiere trenta e ho visto pochissimi film: Pop Corno è il mio pubblico tentativo di fare ammenda.


È il 1965, quando esce Le bonheur: le grandi lotte non sono ancora iniziate, ma si preparano e accumulano all’orizzonte; il boom economico abbraccia tanto la Francia quanto l’Italia, stravolgendole; de Gaulle e Mitterrand si stanno contendendo la presidenza. In questo quadro Agnès Varda entra leggera e sicura: ha già due film e due documentari alle spalle e, lo stesso anno, ne uscirà anche un altro, Elsa la Rose.

Madre e madrina nonché unica donna della Nouvelle Vague, con Le bonheur Varda ci prende per mano e ci porta in piena periferia parigina con un tocco abile: i colori pastellati, gli alberi fitti e le erbacce alte fin sopra la testa dei bambini illudono tanto noi quanto i protagonisti di essere in un idilliaco paesino della campagna francese, di poter vivere una vita spensierata, in comunione con la natura. Ma i casermoni incombono, i bisogni della società e dell’industria richiamano i protagonisti all’ordine, alla ripetizione.

Agnès Varda con la sua installazione artistica “La serre du bonheur”, 2019 | photo by GUILLAUME SOUVANT/AFP/Getty Images

A fare da contraltare, il passare delle stagioni: primavera, il pieno dell’estate e l’autunno scivolano uno dopo l’altro, con la vegetazione ogni volta trionfante, con le sfumature diverse ma costanti, con la prevedibilità che ci rassicura e ogni volta sorprende. Più vicino all’obbiettivo della camera, ci sono invece Thérèse e François, che al contrario della natura procedono in linea dritta, anche se a loro può non sembrare: perché la quotidianità, la reiterazione dei doveri e dei piccoli rituali che mantengono una coppia, una famiglia e un gruppo sociale vivi e performanti, il lavoro stesso impongono una circolarità che sa di ingabbiamento.

Almeno a François: non ci spieghiamo perché, altrimenti, questo giovane falegname e padre di famiglia — con Thérèse, che ha il suo piccolo studio di sarta in casa, ha infatti due bambini: Gisou e Pierrot — decida un giorno di iniziare una relazione extraconiugale con Émile, impiegata delle poste in un paesino in cui François si trova a lavorare in quel momento. A convincerlo, però, è anche il fatto che a breve Émile si trasferirà nel suo stesso paese: non lo vede come un problema o un ostacolo, ma anzi una facilitazione allo svolgimento di questo amore.

Qual è il motivo per compromettere tanto il proprio nucleo familiare quanto il proprio sistema di supporto composto dal fratello e la di lui famiglia e dai colleghi di lavoro? François lo dichiara più e più volte: è proprio l’amore. Si professa innamorato di Émile continuamente, sia a lei che infine anche a Thérèse. È così pulito, François, mentre gioca sporco: non rinuncia alla sicurezza della vita coniugale con Thérèse e della propria vita di gruppo, e non vuole sicuramente rinunciare alla bellezza del fare l’amore con Émile, che lo fa così bene. E nel giocare sporco si assicura di non sbagliare, di comportarsi sempre bene, di duplicarsi e sdoppiarsi senza togliere nulla a nessuno — soprattutto a se stesso.

Agnès Varda chiede però, ai suoi attori, nessuna esaltazione romantica, nessun dramma, nessuno scatto brusco: né nel momento più doloroso né in quello più erotico abbiamo reazioni teatrali o soluzioni catartiche. La tranquillità dei personaggi, il cui fine ultimo è le bonheur, ci indigna, ci altera, ci stringe lo stomaco: noi notiamo il passare delle stagioni, il disfarsi delle cose, l’accelerarsi del punto di rottura, mentre loro procedono convinti di avere il destino nelle proprie mani.

Nel momento stesso in cui François decide di rivelare a Thérèse che ormai da tempo ha una relazione parallela con Émile, la pellicola si apre in due: sembriamo avere preso una strada mentre i due sposi fanno l’amore all’aperto come facevano una volta, una strada che porterà al proseguimento pacifico di queste due relazioni, ma abbiamo in realtà imboccato l’altra con decisione. Una strada che porterà Thérèse ad allontanarsi dalla piccola radura in cui riposano il marito e i figli in cerca di fiori e annegare — per errore o per volontà?

E allora vediamo compiersi sotto i nostri occhi la sovrapposizione che già si anticipava nelle somiglianze fenotipiche di Thérèse e Émile: dopo il funerale, François inizia a frequentare apertamente Émile, la inserisce nel suo gruppo di amici, di familiari, in casa propria, nel proprio letto e nella propria famiglia. Ed Émile accetta ed esegue ben volentieri, nel nuovo ruolo che ha ereditato — cosicché, in fondo, la bolla di François rimanga intatta, e possa continuare a sentirsi felice.

Penso si capisca che io non stia per nulla dalla parte di François: sarebbe stato lo stesso se al suo posto ci fosse stata una donna, ovviamente. Ma, altrettanto ovviamente, non sarebbe mai potuto succedere: perché quello che ci mostra Le bonheur è che questo tipo di benessere incurante e di gioia leggera appartiene solo agli uomini. François è egoista e opportunista: quando si confronta con entrambe le donne la sua replica standard è «Ma a te io tolgo qualcosa se amo anche un’altra?». Vuole avere la coscienza a posto, vuole andare a letto ogni sera con i conti in pari, vuole avere l’autorizzazione a perpetuare quell’anche puntando il dito contro l’altra donna: la convince che è giusto così, che è normale così, che questo è il suo interesse, mettendola in difetto con una strana logica che risponde ai suoi soli interessi. L’intento di Agnès Varda non è certo esprimersi a favore del matrimonio o della relazione monogama: ma dimostrare che questo non è amore, ma manipolazione continua in funzione dell’idillio di uno solo. Maschio.

“Le bonheur” parla di alberi: voglio dire, parla anche di altre cose, parla di fare sesso e di picnic. Ma parla anche di alberi.

Agnès Varda per Films & Filming (1970)

Perché siamo tutti sostituibili: se in una foresta un albero cade, gli altri continuano a vivere e continuano a essere foresta. La vita prosegue. Ed è esattamente questo che ci mostra impietosamente Agnès Varda, con le sue inquadrature ravvicinate, le messe a fuoco sorprendenti e le simmetrie: è Thérèse a dover sparire dalla scena perché è la più debole, perché non è più funzionale, perché non sarebbe in grado di continuare questa vita di facciata, questa impersonazione, questa s-naturazione di se stessa. E questa che ci viene raccontata e che si trova a vivere è una storia di potere, di prove di forza, di sottomissione.

Non è solo una relazione extraconiugale: è l’inizio di una nuova era che si insidia sbattendo le ciglia, è un lavoro da cartellino che si sostituisce all’artigianato, è il grande condominio bianco e l’appartamento in affitto che schiacciano l’ecosistema della piccola casina con giardino. Non è amore: è bonheur, cioè delizioso piacere.

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