“I divoratori” di Stefano Sgambati

I divoratori di Stefano Sgambati, pubblicato da Mondadori a luglio del 2020, è stato candidato al Premio Strega quest’anno da Daria Bignardi che lo ha definito “un romanzo molto coraggioso. Tanto disturbante quanto necessario”. Purtroppo non è finito nella rosa dei finalisti annunciata poco tempo fa per questa edizione, in cui si dimostra ancora una volta quanto l’editoria italiana sia viva.

Stefano Sgambati

Ne è una dimostrazione proprio il libro I divoratori secondo me. Sgambati ci ha messo otto anni a scrivere questo romanzo. La scena si svolge tutta nell’arco di una serata nello spazio di Palazzo Senso, ristorante gourmet dell’Hotel Principe di Savoia di Milano. Si apre il sipario e vediamo uno spettacolo denso di dettagli, di sguardi, di zoom. Sgambati riesce a mettere in gioco l’intera gamma di miserie umane di una società votata all’apparire, impegnata a divorare se stessa senza pietà.

La coppia centrale, Daniel King, un divo di Hollywood, l’uomo più bello che si fosse mai visto, e l’altrettanto divina moglie, sono celebri, sono avvenenti, hanno tutto. Sono come Brad Pitt e Angelina Jolie. Per forza dovevano essere felici.

«Non esisteva niente di spontaneo nella loro vita, non più. Nemmeno loro stessi, il loro esistere. Solo ordini. Ordini dall’alto. Il pensiero di lasciarla così ancora per un po’, da sola, non lo sfiorò, perché non godeva di nessun piacere preciso nell’architettare piccoli dispetti coniugali ai danni della partner. Loro due non erano niente. Erano rami d’azienda. Erano una holding. Due nomi separati da una “e” commerciale» (1)

Poi ci sono Elena e Saverio, Giordano e Frida e un gruppo oscenamente rumoroso, seduto più in fondo, in disparte – la grottesca famiglia del maître Carlo. È difficile affezionarsi ai personaggi di questa storia, perché i pensieri di questi personaggi provocano parecchio fastidio. Avanzando nella lettura del romanzo ci accorgiamo di come questi siano appena accennati, ma di quanto siamo in grado di capirli al volo come se li vivessimo in prima persona. Sono loro che un pezzo alla volta divorano tutto, persone, cose fino a svuotare l’intera stanza. Loro però almeno sono veri nella propria meschinità e le due celebrità presenti in sala sono ciò che nessuno di loro sarà mai.

«Sally Parson, celebrità e monumento, idolo assoluto delle madri emancipate, totem del turbofemminismo, immobile, freddissima, bella come una montagna che frana su un villaggio, la schiena ritta, trasparente, incorporea, spostò appena gli occhi, lentissima, prima sulla coppia di anonimi che attraversavano la sala stentorei, poi su Carlo stesso, che provò un brivido. Era una belva umana, un concentrato di bellezza artificiale: dava l’impressione di avere a cuore solo il disagio altrui. Un’evidente passione per il disastro» (2)

I personaggi di sfondo non perdono il suono di una risata dell’attrice o l’acustica di un colpo di tosse dell’attore. Divorano con ferocia il voler sapere, il voler essere a tutti i costi sotto i riflettori, l’essere per forza protagonisti di qualcosa, il raggiungimento della perfezione, il vedere e l’essere visti.

I personaggi delle due celebrità sono incredibili, creati in modo magistrale da Sgambati che non fa proprio nessuno sconto. Recitano un ruolo: la loro presenza risucchia ogni attenzione, come se tutta la luce che emanano, per quanto artificiale, sia in grado di abbagliare e stordire. Solo loro però conoscono la verità, l’enorme piramide di bugie e apparenza che li custodiscono e preservano come il cadavere di un faraone.

«Che altro potrei fare? Sopportare tutto? Io sono quello triste, quello più malinconico e ombroso che ogni tanto si intravede, lì dietro, in penombra, se solo l’altro è distratto. Forse contribuisco al suo fascino, magari è proprio grazie a me che nonostante tutto lui riesce a mantenere un clamoroso “basso profilo”. Vengo fuori di notte, come i ladri, o al risveglio, o nel cuore di una conferenza stampa inutile e costosissima, e gli do quel taglio misterioso e complesso che fa schierare gli obiettivi delle macchine fotografiche. Sì, anche io ho il mio ruolo, anche io faccio parte dell’ecosistema. Ci sono stati tempi in cui coincidevamo, lui e io, quando ci emozionavamo per le stesse cose e ci battevamo per le stesse cose e i sogni perfino erano gli stessi, quando in effetti “non mi conosceva quasi nessuno” e si poteva camminare per strada, passeggiare mano nella mano o parlare di marche in un supermercato» (3)

Questi personaggi divoratori siamo anche noi che presi da un moto autofago divoriamo noi stessi. Giudichiamo e siamo giudicati. Il tutto rimane in superficie, dentro c’è una tempesta di pensieri ed errori commessi. Ipotizziamo su tutto, crediamo di conoscere tutto e tutti, siamo sensibili alla critica tanto da modificare noi stessi, tanto da perderci totalmente. Così come Daniel King che una volta arrivato dove aspirava, sentendosi alla fine raggiunto, non si è più trovato. Al suo posto c’è già un altro a cui voleva fargliela pagare perché disgustato verso se stesso e la vita che è costretto a condurre.

Il romanzo parla anche di noi, delle commedie che siamo costretti a recitare, che ci siamo costruiti intorno per non deludere le aspettative o i giudizi degli altri. Divoriamo la nostra vera essenza oppure cambiamo machera o commedia. O forse a volte confondiamo semplicemente chi siamo con cosa vogliamo e cosa siamo disposti a perdere. Perché è difficile cercare di fare la cosa giusta o migliorarsi, per arrivare a fine giornata come unico giudice della nostra esistenza.

Note

(1) Stefano Sgambati, I divoratori, Mondadori, 2020, pag. 30

(2) pag. 34

(3) pag. 59

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