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La geografia di Franco Battiato

Franco Battiato è stato senza dubbio un artista geniale, un cantautore fuori dal comune che ha fatto sognare generazioni diverse con centinaia di canzoni romantiche, taglienti, impegnate. Con i suoi testi, Battiato ha mappato mondi diversi e ammaliato milioni di anime a lui affini.

Oltre che poeta, infatti, Battiato è stato anche un geografo delle emozioni, del sogno, di mondi più o meno vicini, più o meno immaginari. Dalle pianure del Tennesse ai cieli grigi e blu, dalle spiagge solitarie alle lontane terre australiane, Battiato ci ha portato a sorvolare anche Venezia e Istanbul, due città distanti dai tratti non troppo distinti, con i palazzi affacciati sul mare e gli stessi tramonti infuocati a illuminarle.

Beatrice Ruggieri

Venezia-Istanbul

Appartenente all’album Patriots del 1980, Venezia-Istanbul è un connubio di immagini e ricordi personali di chi sa dove ma anche una potente invettiva alle contraddizioni incarnate dalla Chiesa, responsabile di crimini atroci eppure così intrisa di perbenismo: «un tempo si uccidevano i cristiani e poi questi ultimi con la scusa delle streghe ammazzavano i pagani, Ave Maria». Dopo un breve attacco recitato, ritmi e melodie inconfondibili diventano la base per toccare tanti temi diversi, legati da un sottile filo rosso che, in modo mai banale, ci ricorda come i tempi cambino continuamente, a volte in modo impercettibile, altre fin troppo rapidamente. Il testo è anche, soprattutto, una presa di posizione politica. Le «vittime incoscienti della storia» diventano protagoniste di una narrazione che, in fin dei conti, non è altro che una critica all’ipocrisia che si cela dietro il volto umanitario dell’Occidente che non fa che nutrirsi guerre e di soprusi «affinché il sol dell’avvenire splenda ancora sulla terra».

Beatrice Ruggieri

Prospettiva Nevski

Un vento a trenta gradi sotto zero e già ci sembra di stare là, sulla Prospettiva Nevskij, la via più popolare di San Pietroburgo, a camminare lungo il fiume Neva, quello che dà il nome alla via, e passare dal palazzo d’inverno alla cattedrale. Ci aveva già accompagnato Gogol, in quei Racconti di San Pietroburgo dove spicca Il naso, celeberrimo. La Prospettiva Nevskij, nella prosa di Gogol, è insieme passerella e e sentiero dell’anima, piena di vita, di negozi, di storie che si incrociano per un momento o per sempre. Giochi di prospettive, come quelle anacronistiche di Battiato che rendono plausibile l’incontro impossibile con Igor Stravinsky o con la grazia innaturale del ballerino Vaclav Fomič Nijinsky, pensa te. E intorno, senza soluzione di continuità, un insieme di guardie rosse, vecchie coi rosari, e soprattutto di Maestri immortali, quelli che ti insegnano, lezione eterna, com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.

Adriano Pugno

I treni di Tozeur

Tozeur sorge sulle rive dello Chott el Jerid, in Tunisia, una delle prime oasi nel deserto dopo Douz, la “porta del Sahara”. È un suggestivo agglomerato di edifici in mattoni, ricoperti di polvere e alti non più di un piano o due, al centro di un palmeto che per secoli ha offerto riparo a carovane, truppe di passaggio e briganti. Per le strade del quartiere vecchio di Ouled El-Hadef, gli abitanti continuano a consumare bistecche di dromedario e tè speziato, ma appena fuori città si respira l’aria del confine, coi cartelli per la frontière algerienne, le macerie lasciate dallo Stato Islamico e, tra le dune, le aride location di Guerre Stellari. I treni, a Tozeur, fermano solo ogni tanto, sui due binari di una piccola stazione con portoni azzurri e finestre bifore; quelli che, lenti, fanno tornare «la voglia di vivere a un’altra velocità» sono l’ultimo inganno della Fata Morgana, un’illusione ottica diffusa in diversi luoghi del mondo che distorce l’orizzonte fino al punto di causare allucinazioni. Che senso ha un villaggio di frontiera senza viandanti in cerca di riparo? A che serve presidiare il confine senza qualcuno che lo attraversi? I santuari sono abbandonati, dalle miniere non si cavano che pietre, e una madre sull’uscio di casa vagheggia un tempo lontano, effimero come un incantesimo, ormai coperto dalla polvere.

Vittorio Polieri

Summer on a Solitary Beach

Dopo le devastazioni degli ecomostri, dopo che hanno smesso di strappare le sterpaglie e di pulire la sabbia dai legnetti marci, quello che rimane della Spiaggia Solitaria è soltanto un ricordo condiviso con i miei fratelli borghesi. Ricordi ancora i tuoi fratelli borghesi, no? E ricordi ancora la Spiaggia Solitaria: era pieno Novecento, il secolo finiva e poi non finiva più, la storia finiva e poi non finiva mai, e oltre le siepi la stradina bianca di qualcun altro portava al cancello di qualcun altro, al giardino di qualcun altro – quello in cui la mattina sul presto annaffiavi le piante di qualcun altro. Piantavamo l’ombrellone in un’aria d’acquario, era un’aria torbida e tropicale d’acquario. A volte le urla dei turisti tedeschi di qualche sponda più in là e i loro schizzi arrivavano fino a noi – la loro pelle battuta dal sole, il loro odore di creme abbronzanti, dei loro figli smaniosi. Ti mettevi sommerso nell’acqua, sospeso sull’acqua e sopra quei ciottoli verdi e d’avorio te ne stavi lì delle ore, fino alla fame, fino alla sete, finché il mare stesso non ti portava più in là, fin dove i ciottoli non brillano più e quella chiazza di mare diventava un mare più scuro e più blu, più verde o rossastro di quanto avessi mai visto. Pensavi: questo è il ricordo che ho sempre voluto, il ricordo della Spiaggia Solitaria che non avevo mai visto. Oltre il cancello di qualcun altro, dentro la casa di qualcun altro, accartocciati stavamo sulla Spiaggia Solitaria a guardare le ombre curvarsi fino alla spuma rossastra. Con la brezza ci arrivava a volte l’eco di un cinema all’aperto o il cigolio delle biciclette dei manovali che tornavano a casa. E ora ricordi il mare, quel mare che ti portava più in là, dove la chiazza di mare diventava un mare più scuro e più blu, più verde o rossastro di quanto avessi mai visto. E pensavi: tutto questo non potrà mai finire.

Giovanni Peparello

Alexander Platz

Cosa succedeva ad Alexanderplatz? C’era la neve, senza dubbio, e anche la DDR: questa piazza, ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, diventò per la Repubblica Democratica Tedesca il centro di un’opera di ricostruzione e revamp urbano.
Ma la vita che si vive qui cheta, ripetitiva, deve sapersi accontentarsi di poco: si trovano piccole gioie tanto in inverno quanto in primavera, ma devono convivere con il lavoro, con il rimanere alzati fino a tardi, con la stanchezza che si accumula pesante nelle borse sotto gli occhi.
Fare quattro passi fino alla frontiera è un gesto carico di contraddizione per chi vive a Berlino Est e sembra accontentarsi di spolverare e fare i letti, ma che non può impedirsi di guardare oltre, di immaginare cosa potrebbe esserci al di là. Un mondo proibito, pericoloso, per questo forse segretamente agognato. Una passeggiata che, in un attimo, può diventare da quotidiana a rivoluzionaria: è il 1989 quando Battiato canta in prima persona questo brano, finora riservato a Milva, ed è l’anno in cui il Muro crolla, ed è ad Alexanderplatz che le proteste si sono infiammate e la voce si può alzare.

A proposito di muri che cadono: il brano da cui nasce Alexander Platz è di Alfredo Cohen, che lo scrive con Battiato nel 1977 dedicandolo a Valerie Taccarelli, trans bolognese alla guida delle lotte del movimento di liberazione omosessuale italiano e tra lə attivistə di quello che sarebbe poi diventato il Cassero.

Francesca Corno

Caffè de la Paix

Il Café de la Paix sta all’angolo di Place de l’Opéra con Boulevard des Capucines, punto di intersezione nel reticolo ideale pianificato da Haussmann sotto il Secondo Impero. Fu inaugurato con grande sfarzo dall’imperatrice Eugenia de Montijo, l’ultima sovrana di Francia, che per l’occasione fu accolta da una piccola orchestra diretta da Jacques Offenbach, padre dell’operetta e autore del Galop infernal. Quale meraviglia, le salette stuccate. Quanti volti indistinguibili. Ed eterni. Émile Zola, certo, e Oscar Wilde, Ernest Hemingway, Gertrude Stein. Un prete di campagna, un mercenario o un padre di famiglia. Il Café de la Paix è abbagliante di luci, sembra di vedere Čajkovskij grattarsi la barba o Zelda Fitzgerald che stringe nelle mani un tovagliolo. Sull’uscio, Robert di Saint-Loup sta indossando il cappello. All’ombra del Grand Hotel, la finzione è un complemento della realtà: i sogni prendono forma, nell’aria c’è qualche cosa in più. Una volta, nel 1896, ci fu anche una proiezione cinematografica e le persone applaudirono. Il Café de la Paix è come un viaggio dentro il sonno, «ci si vede un po’ diversi» e tutto può accadere. Per questo bisogna fermarsi, prendere un tè e parlare a qualcuno di «epoche passate» e «cortili in primavera» da cui dissotterrare verità sepolte; e forse alla fine, fatalmente, trovarsi.

Vittorio Polieri

Mesopotamia

Niente curiosi caffè parigini, nessuna particolare prospettiva di San Pietroburgo. Il luogo al centro di questa canzone è un posto conosciuto, universalmente noto a partire dall’infanzia, quando a scuola ci spiegavano che quella macchia verde in mezzo al deserto percorsa da due vene azzurrine che vedevamo nelle immagini del libro di storia era la Mesopotamia, la mezzaluna fertile in cui fiorirono le civiltà degli Assiri e dei Babilonesi. Battiato ci porta nella culla della civiltà passando proprio attraverso l’infanzia: l’immagine della valle tra i due fiumi affiora infatti tra ricordi e impressioni di fanciullezza, rivelando così il doppio fondo di un’infanzia che è insieme personale e del mondo: «anch’io a guardarmi bene vivo da millenni, e vengo dritto dalla civiltà più alta dei Sumeri». La fertile valle mesopotamica ospitava una rigogliosa vegetazione e un clima favorevole alle coltivazioni e allo sviluppo di insediamenti. Sulla riva orientale del Tigri sorgeva la città di Ninive, antichissima capitale del regno degli Assiri. Qui nel VII secolo d.C. visse Isacco detto il Siro o, appunto, di Ninive, un celebre mistico che per qualche tempo fu vescovo della sua città ma che ben presto si ritirò a vita eremitica dedicandosi alla scrittura e all’ascetismo.
«Che cosa resterà di me, del transito terrestre?». Lungi dal trovare risposte, la meditazione intorno alla transitorietà umana si sposta piuttosto sull’immagine ancestrale della Mesopotamia, a significare che il transito terrestre è più sentito là dove sono i luoghi fondativi, personali e dunque della storia.

Alessandro Milone

Per seguire i viaggi del Maestro: ecco Mappiato, la mappa con tutti i luoghi citati nelle canzoni di Franco Battiato curata da Alessio Arnese (e scoperta grazie a Rivista Studio).

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