Tributi alla terra

Clima, capitalismo verde e catastrofismo di Philippe Pelletier. Gli interessi della governance globale dell’ambiente

La letteratura ambientale attrae sempre più interesse da parte di giovanə e meno giovanə. Il desiderio di comprendere le contraddizioni del mondo in cui viviamo, infatti, passa anche dal narrarlo. Da qui nasce la rubrica Tributi alla terra, un nuovo spazio dedicato alla recensione di romanzi, saggi, fumetti (e molto altro) dove l’ambiente è protagonista in tutte le sue sfaccettature. Ogni mese, Tributi alla terra – titolo ispirato dall’omonimo graphic novel del fumettista Joe Sacco – vi terrà compagnia con nuove storie da leggere per (ri)conoscere le disfunzionalità del nostro tempo e provare a trasformarle prima di tutto con nuove parole e nuove immagini.

Il saggio del geografo francese Philippe Pelletier, Clima, capitalismo verde e catastrofismo (Elèuthera, 2021) è un duro attacco alla costruzione naturalizzante del riscaldamento globale da parte della governance globale dell’ambiente la quale, ça va sans dire, nasconde, nega e ignora le vere radici del problema e si ostina a gestirlo attraverso una strategia della paura, strumentale al perseguimento degli interessi delle élites capitalistiche. Una retorica che Pelletier contribuisce a smascherare rendendo esplicite le innumerevoli contraddizioni di un programma politico globale che punta a “salvare il clima” e che conferisce all’essere umano un enorme potere: “un potere che legittima tutti i progetti megalomani di geoingegneria” e che si colloca nella prospettiva di un capitalismo verde alimentato (in)consapevolmente dalla molteplicità di attori in gioco, i famosi esperti di cui l’autore mette in discussione l’esatta natura. Secondo Pelletier, la questione climatica è continuamente strumentalizzata da un’operazione ideologica, oltre che politica, che ricorre a falsi esperti provenienti dai background più diversi – e più discutibili – che utilizzano l’ambiente e il clima come “buoni mezzi per fare affari”. La verità scientifica è presentata come dogmatica nei più diversi contesti, da quelli negoziali a quelli mediatici passando dagli ambiti dell’ambientalismo più o meno istituzionalizzato a quelli dell’attivismo, senza essere accompagnata da sguardi critici che si basano su studi condotti senza cadere nell’errore di confondere causalità e correlazione tra due eventi. La logica determinista che si credeva estinta da tempo è, in realtà, dura a morire specialmente con l’istituzione della questione climatica come priorità dell’agenda politica globale. In un sistema complesso, tuttavia, occorre considerare l’immagine ampia, costituita da livelli spazio-temporali diversi, attori vari, invisibili infrastrutture del potere combinate a note strategie di mantenimento e rafforzamento di questo stesso potere.

Quanto alla struttura, il saggio di Pelletier si compone di quattro capitoli rispettivamente dedicati al concetto di clima, ai dati del cambiamento climatico, alla geopolitica del clima e, infine, al rapporto tra clima e metapolitica il cui mantra, quello della collassologia, è ampiamente dibattuto e questionato dall’autore. A partire dal primo capitolo, il geografo francese ripercorre le principali tappe che nel corso della storia hanno portato a distinguere la climatologia dalla meteorologia, sottolineando come il clima sia piuttosto un concetto se messo a confronto con il meteo di cui, invece, percepiamo la presenza fisica. Nella prima parte del libro, quello di Pelletier è un ragionamento che, al netto di opinioni personali spesso contestabili, punta a scardinare i concetti di riscaldamento globale e di clima irregolare, sottolineando come i termini “globale” e “irregolare” siano al centro di un ragionamento che erroneamente considera omogeneo il fenomeno dell’estremizzazione climatica, a sua volta identificata come crisi in ragione di una presunta normalità del sistema climatico. Tuttavia, come chi si occupa di clima ben sa, questo gode di una naturale variabilità che non è né omogenea né globale né tantomeno regolare. Misurare le variazioni climatiche non è cosa semplice e le modellizzazioni, sebbene sempre più precise e attendibili, non possono essere considerate alla stregua di una previsione inconfutabile. È altrettanto vero, poi, che la complessità del sistema climatico rende alquanto difficile la sfida di individuare le cause di uno squilibrio che va bene oltre la naturale irregolarità. Sicuramente ci sono altre “forzature” come le eruzioni vulcaniche ed è importante tenere a mente come il clima sia sempre mutato.  Al tempo stesso, però, è altrettanto importante non scadere in uno scetticismo poco costruttivo, sottostimando il peso dell’influenza antropica che, ed è qui la chiave di tutto, si esplica non solo attraverso l’emissione di CO2 ma anche attraverso una pianificazione territoriale carente (cementificazione, consumo di suolo, costruzioni errate in luoghi non consoni…) che concorre ad incrementare il rischio di disastri socio-ambientali. L’impressione è che, se mal interpretate, le argomentazioni di Pelletier potrebbero portare addirittura chi legge a superare la sottile linea rossa tra pensiero critico e negazionismo, arrivando a non credere che una questione climatica di fatto esista.

Più che la discussione sull’inconsistenza dell’espressione “riscaldamento globale”, pur meritevole di attenzione, ciò che rende interessante questo saggio è l’accento posto su tutto ciò che ruota intorno alla questione climatica, dalla sua gestione da parte di organismi internazionali di dubbia scientificità (ed eticità) alla sua narrazione spesso sensazionalistica e tendente al catastrofismo, ben distante dal dibattito in seno alla scienza climatologica. La genesi del Club di Roma, ad esempio, occupa una parte importante del testo e aiuta a fare chiarezza su chi compone questo gruppo “non occulto…ma discreto, sì”. Una sorta di collegio invisibile di tecnocrati che, tuttavia, a differenza di quanto pensava Harvey Simmons nel 1974, non agisce in maniera efficace nell’affrontare la questione ecologica, essendo finanziato da imprese potenti (Fiat, Volkswagen, Ford…) ed essendo composto da esponenti delle classi dirigenti che hanno tutta l’attenzione dei politici, oltre ad essere portatore di un’ideologia malthusiana che identifica le ragioni dei mali del mondo nell’aumento della popolazione mondiale e vede nello sviluppo dell’energia nucleare la chiave per rispondere agli shock petroliferi e all’esaurimento delle fonti fossili. I paragrafi dedicati all’IPCC– Intergovernative Panel on Climate Change, invece, mettono in evidenza come “il rigore scientifico non sia la virtù cardinale” di quello che di fatto è un organo politico tutt’altro che neutrale, dalle numerose implicazioni geopolitiche.

Come osserva l’autore, il capitalismo verde si nutre di strumenti come la carbon tax, una soluzione pensata per gestire il cambiamento climatico attraverso meccanismi di mercato e all’interno delle relative logiche che si basano sul principio del “chi inquina paga. Questo, tuttavia, non ha portato ai risultati sperati ma, al contrario, esonera le principali fonti di inquinamento – multinazionali del petrolio ecc… – colpevolizzando l’individuo e le sue “scelte di consumo, come se la gamma delle sue possibilità fosse infinita, semplice, e si basasse solo sul suo comportamento libero e responsabile di homo economicus secondo il credo della filosofia liberale”. Il capitalismo verde non solo non discute l’Imperial mode of living di cui parlano Ulrich Brand e Markus Wissen (Verso Books, 2021) ma, al contrario, si configura come ciò che alimenta, in un circolo più che vizioso, questo modo di vivere attraverso l’esternalizzazione invisibile e gerarchizzante delle relazioni socio-ecologiche basate su disuguaglianza, potere e dominio. Il capitalismo, sottolinea l’autore, ha un futuro brillante davanti a sé, capace com’è di trasformarsi e trasformare le crisi che ha generato in ulteriori opportunità di profitto (materie prime, energie rinnovabili, salti tecnologici…).

Il quadro che il geografo anarchico traccia nelle oltre duecento pagine del saggio è un chiaro rifiuto di qualsiasi spiegazione semplicistica che riduce la geografia e la geopolitica della questione climatica a una battaglia che vede contrapposti “multinazionali cattive a ecologisti buoni” e che spesso trascura sia il peso delle connessioni tra attori, discipline e interessi apparentemente lontani e contrapposti sia l’importanza di saper raccontare una questione complessa senza scadere in meccanismi narrativi approssimativi che, puntando sulla spettacolarizzazione e sull’iperbole climatica, risultano funzionali solo a generare panico, conseguente caos e inevitabile stallo nelle decisioni – politiche – da prendere e mettere in atto. Al posto di un catastrofismo sterile, ormai onnipresente (dalla politica, ai media, al mondo dell’attivismo), l’obiettivo di Pelletier è quello di riportare l’attenzione sulla necessità di “riappropriarsi di uno spazio, di un ambiente e quindi di un territorio da parte dei suoi consapevoli abitanti”, invitando a smettere di credere alle inconsistenti soluzioni calate dall’alto.

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