ecocidio

Non chiamateli disastri, questo è un Ecocidio

Dal 1972, il 5 giugno di ogni anno si festeggia la giornata mondiale dell’ambiente, una giornata istituita dalle Nazioni Unite per promuovere attività di sensibilizzazione verso la tutela ambientale. Ieri, invece, si è celebrata la giornata mondiale degli oceani, per sottolinearne la fragilità e al tempo stesso l’essenzialità per la vita sulla Terra. Quest’anno, tuttavia, la prima decade di giugno sarà ricordata per quello che è stato definito come uno dei peggiori disastri ambientali degli ultimi decenni. Ai più attenti, infatti, non saranno sfuggite le informazioni provenienti dallo stato insulare dello Sri Lanka nell’Oceano Indiano. Di fronte alle coste del paese, infatti la gigantesca nave cargo Mv X-Press Pearl, battente bandiera singaporiana, è affondata dopo un naufragio e in seguito a un incendio che l’ha lentamente divorata per circa dieci, infiniti giorni. Le proporzioni del danno sono enormi: all’interno degli oltre mille container la nave trasportava infatti materiale chimico (tra questi: acido nitrico, utilizzato per la produzione di concimi e fertilizzanti; idrossido di sodio, impiegato ad esempio nell’industria elettronica e alimentare) che si è riversato in acqua insieme a tonnellate di greggio e materiale plastico. Le autorità srilankesi hanno vietato la pesca in un’area di circa 50 chilometri e chiesto supporto ai paesi limitrofi per arginare le conseguenze di quello che, nella sua spaventosa brutalità, appare come qualcosa di già visto, ossia l’ennesimo deliberato atto criminale di un sistema di profitto all’interno del quale i disastri non sono eccezioni bensì regole. Venuta meno l’eccezionalità dell’evento, anche l’utilizzo del termine disastro perde di senso.

Perché, dunque, non chiamare le cose col loro nome? Le parole sono importanti ci ricorda Marco Balzano nell’omonimo saggio del 2019. E se l’etimologia è importante, perché non considerare gli “incidenti” come quello della Press Pearl (la lista sarebbe molto lunga…) come parte di un lento e progressivo Ecocidio?

Per ecocidio, infatti, si intende «il danno diffuso, la distruzione o la perdita di ecosistemi di uno specifico territorio, sia per causa umana o per altra causa, per un’estensione tale che il pacifico godimento da parte degli abitanti di tale territorio sia stato, o sarà, compromesso». L’ecocidio, oggi, diventa reato solo in tempi di guerra (non a caso è un concetto emerso durante gli anni della guerra del Vietnam per sottolineare la pericolosità dei danni ecosistemici dell’agente arancio, i cui effetti sono “diffusi, durevoli, o gravi”) ma diversi sono gli appelli affinché venga considerato come quinto crimine internazionale dopo quello di genocidio, di crimini di guerra e contro l’umanità, del reato di aggressione, tutti regolati dallo Statuto di Roma. Il riconoscimento del reato di ecocidio come crimine internazionale segnerebbe una svolta importante nel rapporto tra società e natura, eliminando anche giuridicamente quella distinzione culturale tra ambiente e esseri umani fondamentale per la modernità occidentale fin dall’Illuminismo.

Se natura e società sono un tutt’uno, allora un crimine contro la Terra è anche un crimine contro l’umanità. L’ecocidio, infatti, si riferisce alla decimazione della vita in generale e può avere effetti diretti e indiretti. Prendiamo l’incendio della X-Press Pearl a largo delle coste srilankesi. L’impatto diretto riguarda la fuoriuscita di materiale chimico-plastico in mare, l’inquinamento delle coste e delle spiagge, quello dell’aria dovuto alla combustione di petrolio. Gli impatti indiretti, tuttavia, sono ancora di più e ancora più gravi. Pensiamo alla contaminazione delle acque con sostanze nocive che avranno conseguenze sulla salute della laguna vicina, della biodiversità locale e di quelle comunità che abitano quelle coste. Il blocco della pesca in seguito all’incidente, inoltre, impedirà ai pescatori locali di guadagnare e di sfamare le proprie famiglie sul breve-medio termine. I danni di un ecocidio colpiscono su più livelli da quello ambientale a quello economico, da quello culturale a uno più psicologico ed emotivo.

In Italia, la campagna per il riconoscimento dell’ecocidio come crimine internazionale è portata avanti dal movimento Stop Ecocidio, a sua volta nato dalla campagna internazionale Stop Ecocide fondata dall’avvocatessa britannica Polly Higgins e dall’attivista ambientale Jojo Mehta. L’associazione, riconosciuta come associazione di beneficienza, si è fatta portavoce di una campagna ormai diventata globale a cui collaborano avvocati, ricercatori e piccoli stati come l’arcipelago di Vanuatu e delle Maldive. Finora, sono dieci i paesi che hanno riconosciuto il crimine di ecocidio a livello legislativo, primo fra tutti il Vietnam già a partire dal 1990. In Europa, c’è ancora molta strada da fare. Finora, infatti, il Parlamento ha riconosciuto unicamente il concetto di ecocidio, esortando gli stati membri a riconoscere il crimine di ecocidio come crimine internazionale ai sensi dello Statuto di Roma.

Come scrive Ilaria Cagnacci su Frontiere News, «l’inclusione dell’ecocidio nella legislazione europea è senz’altro un passo fondamentale per il superamento dell’approccio “chi inquina paga” che non fa altro che legalizzare il danno ambientale regolamentando la quantità di inquinamento o di distruzione della natura nei limiti delle norme vigenti. Non si tratterebbe più di multare i distruttori dell’ambiente ma rendere penalmente responsabile non solo chi intenzionalmente distrugge l’ecosistema, ma anche chi, ben consapevole dei rischi delle sue azioni e delle conseguenze delle stesse, prosegue con la sua condotta criminale».

Riconoscere e condannare i crimini di ecocidio, inoltre, significherebbe anche condannare tutti quegli atti che hanno portato all’emergere della crisi climatica globale, i cui effetti peggiori avranno conseguenze dirette innanzitutto su paesi e comunità che meno vi hanno contribuito. Proprio come le comunità costiere dello Sri Lanka che, in seguito all’inabissarsi della nave cargo, simbolo di un’economia lineare basata sullo sfruttamento delle fonti fossili, dovranno fare i conti con l’inquinamento delle acque, del suolo e dell’aria per gli anni a venire. Un evento che ricorda non troppo vagamente l’incidente a largo delle coste delle Mauritius nell’agosto 2020. Qui, una nave da carico contenente qualche migliaio di tonnellate di greggio si è spezzata in due, impattando in modo disastroso sulla meravigliosa barriera corallina e, quindi, sull’intero ecosistema insulare.

Ciò che il crimine di ecocidio sottende è il trattamento della natura come soggetto di diritto e pertanto degno di protezione fine a sé stessa. Il raggiungimento del riconoscimento di questo crimine come crimine contro la pace per la Corte Penale Internazionale, significherebbe anche una svolta nel pensiero moderno antropocentrico, facendo sì che natura e società tornino (inizino?) ad armonizzarsi. Lo scoppio della pandemia lo ha reso ben chiaro: è impensabile continuare a vivere come fossimo gli unici, indiscussi padroni della festa. Questo falso mito, in nome del quale continuano a essere perpetrati i crimini più efferati, richiede necessariamente un cambio di paradigma nell’idea di progresso a tutti costi, continuamente esternalizzati sull’ambiente e sulle comunità più marginali, sulle generazioni che verranno. Saranno proprio queste, infatti, a doversi confrontare con gli strascichi di un sistema che avvelena, che rende tossico tutto ciò che è bios.

Se, come dicevamo, le parole sono importanti, gli eventi come quello dell’affondamento della X-Press Pearl non pensiamoli più come accidentali, non chiamiamoli più disastri perché non si tratta di sciagure, bensì allarmanti esplicitazioni di un quotidiano ecocidio universale.  

Phcredit: IlPost.it, Newsradio.Ik, FB Page Stop Ecocide International, Twitter Page Stop Ecocide International.

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