Il Manifesto della cura

Per Edizioni Alegre a Marzo è uscito Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza del The Care Collective con la splendida copertina firmata da Rita Petruccioli. La traduzione è stata curata da Marie Moïse e Gaia Benzi, ricercatrice e attivista italiana.

«Cosa vuol dire avere cura degli altri? E chi sono questi altri? Come fare in modo che prendersi cura degli altri non sia solo un’attitudine individuale, da filantropi, ma un imperativo etico e una responsabilità politica?» (1)

Parliamo di cura, da secoli affidata al legame materno nel focolare domestico della famiglia nucleare tradizionale o ad asili, scuole, case di cura e ospedali privati attraverso il processo di mercificazione e privatizzazione dei servizi di cura che stiamo vivendo anche in Italia – dove facciamo vanto del nostro sistema pubblico sanitario ma con cui abbiamo dovuto fare i conti per i suoi limiti. Da sempre parliamo di cura su preferenze individuali nella nostra dipendenza e interdipendenza dagli altri. Dietro queste ombre però c’è anche una luce: si moltiplicano iniziative di mutuo soccorso e reti di solidarietà che continuano a concepire il prendersi cura degli altri come un bene comune, un obbligo morale e un processo collettivo. Perché la cura è anche una capacità sociale, un’attività che alimenta tutto ciò che è necessario al benessere e al nutrimento della vita.

Il capitalismo neoliberista ci ha convinti che non siamo esseri sociali ma monadi indipendenti le une dalle altre. L’ideologia individualista ci ha portati a scegliere in un ventaglio di opzioni a pagamento secondo il principio “più paghi, più mi prendo cura di te“. Così la delegittimazione della cura e del lavoro di cura ha preso piede.

Poi è arrivato il 2020, con sé la pandemia da Covid‐19, la crisi economica e finanziaria, unite alla crisi ambientale, che ci ha costretto a guardare meglio le carte in tavola, prima fra tutte la depenalizzazione di alcuni individui della società:

«Abbiamo visto gli effetti devastanti dell’incuria neoliberista quando i medici che curavano i malati di Covid‐19 dovevano scegliere chi salvare perché decenni di tagli ai servizi sanitari avevano decimato posti letto e personale. E se è vero che il Coronavirus non discrimina tra ricchi e poveri, o tra persone bianche e non, le possibilità di cura discriminano eccome. Mentre Boris Johnson, Donald Trump e Silvio Berlusconi venivano curati per tempo nei migliori ospedali con terapie innovative e seguiti da equipe di medici di fama, i lavoratori precari o sottopagati e le persone non bianche morivano (e continuano a morire) come mosche» (2)

Questo Manifesto della cura vuole denunciare con chiarezza e durezza l’incuria neoliberista e capitalista, tracciandone non solo le conseguenze più devastanti ma anche proponendone di sperimentare forme di cura nuove e allargate. La cura può essere promiscua nel senso che può mettere in relazione indiscriminatamente persone non necessariamente vicine. Il filosofo Emmanuel Levinas sosteneva che nella misura in cui il sé si costituisce attraverso la relazione con l’altro, siamo eticamente obbligati a prendercene cura.

La cura promiscua può essere un’attitudine e una filosofia dello stare insieme, strutturandosi e organizzandosi in maniera collettiva all’interno di comunità di cura che ha quattro elementi fondamentali per essere tale: il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità. Così la cura è messa al centro di ogni aspetto della vita.

Solo uno stato di cura orienta il suo agire in base a bisogni collettivi, quindi si basa sulla cosmopolitismo della cura, includendo anche cura per l’ambiente. I limiti ambientali e la conservazione di un pianeta abitabile non sono di certo compatibili con la crescita economica perpetua.

Questo Manifesto è sicuramente femminista e si lega all’idea sbagliata di una predisposizione naturale femminile alla cura, di conseguenza alla  svalutazione storica della cura perché associata al “femminile” e al “prestare assistenza”, un lavoro da donne, legato alla sfera domestica e alla centralità delle donne nella riproduzione:

«Le donne finiscono per fare la maggior parte del lavoro (…). Perché le donne dovrebbero svolgere tutto questo lavoro di cura? E cosa succede se non hai una famiglia che ti sostiene, se la tua famiglia ti ha rifiutato o tu hai rifiutato loro? Cosa succede se non puoi permetterti di pagare l’assistenza privata? Le conseguenze di questo sistema hanno portato, nel migliore dei casi, all’abbandono e all’isolamento delle persone più bisognose, e nel peggiore a malattie e morti che potevano essere evitate» (3)

Questo Manifesto è quello che ci serve ora, è doveroso, duro con ognuno di noi tanto da spingerci alla riflessione per ogni nostro gesto. Ci porta a riflettere se non abbiamo fatto abbastanza o abbastanza bene nelle nostre pratiche di cura. «Occorre rompere il nesso negativo tra dipendenza e patologia e riconoscere che siamo tutti plasmati, anche se in modi diversi e disomogenei, dalle nostre interdipendenze. Così, per tornare a immaginare delle genuine politiche di cura, dobbiamo iniziare a riconoscere la miriade di forme che dappertutto legano la nostra prosperità e la nostra sopravvivenza alla relazione con gli altri» (4). Cura universale significa che siamo tutti responsabili, insieme, del lavoro di cura, del benessere altrui e del pianeta. La cura non è un bene: è una pratica, un valore fondamentale e un principio organizzativo.

The Care Collective

The Care Collective

Il collettivo è costituito da cinque studiosi e militanti. Le autrici e gli autori hanno in comune la residenza a Londra: Andreas Chatzidakis, Jamie Hakim, Jo Littler, Catherine Rottenberg e Lynne Segal.

Questo Manifesto ci porta a riscoprire il valore della solidarietà indiscriminata, l’egualitarismo sociale, le opportunità di vita e la salute pubblica. La proposta  è radicale e universale perché lo è anche la cura, che è e lo ribadiamo non‐mercificabile e solidale.

Note

(1) The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Edizioni Alegre, 2021, pag. 7

(2) Ivi, pagg. 8-9

(3) Ivi, pag. 31

(4) Ivi, pag. 42

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