Quando qui sarà tornato il mare. Le storie dal clima che ci attende raccontate dal collettivo Moira Dal Sito

La letteratura ambientale attrae sempre più interesse da parte di giovanə e meno giovanə. Il desiderio di comprendere le contraddizioni del mondo in cui viviamo, infatti, passa anche dal narrarlo. Da qui nasce la rubrica Tributi alla terra, un nuovo spazio dedicato alla recensione di romanzi, saggi, fumetti (e molto altro) dove l’ambiente è protagonista in tutte le sue sfaccettature. Ogni due mesi, Tributi alla terra – titolo ispirato dall’omonimo graphic novel del fumettista Joe Sacco – vi terrà compagnia con nuove storie da leggere per (ri)conoscere le disfunzionalità del nostro tempo e provare a trasformarle prima di tutto con nuove parole e nuove immagini.

Negli ultimi vent’anni il collettivo Wu Ming ci ha regalato delle autentiche perle narrative. Q, 54, Manituana e Altai sono solo alcuni esempi di romanzi storici che hanno arricchito il panorama letterario nazionale. Da quanto si apprende sul sito della WuMing Foundation (un collettivo di collettivi), tuttavia, dal romanzo storico si è «passati oltre per usare la storia in altri modi». Ed è proprio in altri modi che la storia viene raccontata in Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende (Edizioni Alegre, 2020), «un romanzo di racconti» che prende forma da un esperimento di scrittura collettiva condotto da Wu Ming 1 nel basso ferrarese, metonimia di «un pianeta in bilico tra acqua e terra e sull’orlo della catastrofe». Quando qui sarà tornato il mare è un libro da non perdere per interfacciarsi con la rappresentazione di realtà immaginarie che tuttavia appaiono ben più vicine, concrete e inquietanti di quanto si potrebbe pensare.   

«“Dal sito” significa “dal posto”, “dal luogo”. Moira Dal Sito suona dunque come fiducioso auspicio: che venga dal basso, dai territori, dalle loro singolarità, la forza che fermerà l’ecocidio e il disastro climatico» (p.40)

Nella lunga e accurata introduzione al testo, Wu Ming 1 presenta ai lettori e alle lettrici quello che sarà il nodo centrale del romanzo, ossia la riconfigurazione territoriale delle aree comprese tra Ferrara e il delta del Po ad opera dell’innalzamento del livello dei mari. L’obiettivo è quello di raccontare queste «terre nuove» prima che arrivi il mare e sommergere ogni cosa, una possibilità neanche troppo remota stando alle recenti proiezioni climatiche. Più del 40% del territorio ferrarese è sotto il livello del mare, in alcuni punti scende fino a quattro metri e mezzo e il suolo continua ad abbassarsi causa subsidenza (una tra le tante cause è costituita dalle trivellazioni in Adriatico). Le aree dei polesini rodigini e ferraresi si apprestano a diventare un vero e proprio Catino, come sono chiamate tali terre da geologici e tecnici di bonifica: «il mare si alza, le terre si abbassano…L’acqua entrerà come in una vasca» mettendo a rischio la vita di migliaia di persone, di suoli agricoli, di biodiversità, di acqua potabile. Eppure, malgrado la gravità della situazione – l’area nord-adriatica è la più a rischio in Europa – «al momento non ne parla nessuno, né a Ferrara e dintorni né altrove», né informalmente né a livello politico («la politica politicata se ne fotte, a livello locale e nazionale»).

Tutto accadrà in ottant’anni ma nessuno affronta seriamente la questione delle questioni, trattandola come somma di episodi distinti ed eccezionali e non come una bomba a orologeria pronta a scoppiare da un momento all’altro. L’Adriatico reclama i fiumi, la terra e persino l’aria ma continuiamo a non scriverne e a non discuterne, costruendo inutili muri e barriere e trattando gli eventi come fossero slegati, sconnessi tra loro, emergenziali. A parlarne, finalmente, è il collettivo Moira Dal Sito (anagramma dello scrittore Mario Soldati), nato da un laboratorio su cambiamento climatico e scrittura collettiva guidato da Wu Ming 1 nell’ambito del suo progetto Blues per le terre nuove. Un esperimento che, sulla scia de La grande cecità di Amitav Gosh e di Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia, si è posto il fine ultimo di raccontare «il disastro climatico a lungo rimasto fuori dalla gabbia del plausibile che il romanzo moderno ha costruito», mettendo insieme passato, presente e futuro, umano e non-umano come ne Il sussurro del mondo di Richard Powers.

L’architettura del libro è costruita come fosse uno spettacolo teatrale, suddivisa in atti che mettono in scena storie slegate solo a una lettura poco attenta. C’è il primo, ad esempio, che mette insieme la storia di un ex-docente di liceo alle prese con la morte e il ricordo dei tempi andati, quando ancora il basso ferrarese era un’enorme distesa d’acqua argentea e non un mare di terre bonificate, non un paesaggio desolante, privo di tesori nascosti, di alberi, di persone. Sullo sfondo la terra che brucia, colma di tonnellate di rifiuti tossici gestiti da una rete mafiosa transnazionale che da anni avvelena quei luoghi inariditi da una mano invisibile e criminale che si scontra con l’Acqua che reclama e la Terra che rivendica, a formare un paesaggio di nuove isole cosparse di palafitte popolate dagli emarginati:

«I loro bambini impareranno prima a nuotare che a camminare e si tufferanno per fare i loro bisogni, per lavarsi e per giocare» (p.62)

Passando al secondo atto, i protagonisti cambiano e lasciano spazio a mareggiate, anguille e allevamenti intensivi, dighe e città ormai sommerse, speculazioni, accompagnati da un latente desiderio di evasione, di distruzione e di ricongiungimento tra mare e terra. In questo racconto che sa di quell’eco-terrorismo presentato da La donna elettrica di Benedikt Erlingsson emerge tutta la potenza del mondo non-umano, per troppo tempo sottomesso e imprigionato e finalmente protagonista di una ritrovata libertà:

«Le anguille, a migliaia, si intrecciavano, premevano, si aggredivano a morsi pur di trovare un varco, un passaggio verso il mare. La terra vibrava sempre più. […] La forza animale sotto i suoi piedi si era risvegliata e si stava aprendo la via del mare» (p.88)

Agricoltura verticale, migrazioni e rapporti di forza uomo-natura sono invece al centro del terzo atto. Qui, attraverso la storia di Lorenzo Costa, costretto ad abbandonare le terre di una vita, perché divorate dal mare o capitalizzate da attori esterni alle Valli, prendiamo coscienza di come la mobilità umana diventerà sempre più una forma di adattamento necessaria, preziosa, inevitabile ma comunque non di facile accesso. Accanto a muri e fortificazioni, a episodi di violenza e di tentativi di riorganizzazione collettiva, lo spostamento e il reinsediamento di comunità e la creazione di nuovi modelli sociali nelle aree montane contraddistinguono un racconto che mette insieme nostalgia di ciò che è andato e speranza per ciò che sarà, testimoniato da esperienze di nuove mescolanze e nuovi rapporti di cura proprio al tempo di quando sarà tornato il mare:

«Lorenzo Costa è nato contadino. Tutti nella sua famiglia, tranne il padre carabiniere, hanno coltivato la terra fin dai tempi delle prime bonifiche, quando sembrava che l’acqua avrebbe perso per sempre l’antica lotta per dominare il territorio. Tempi di gloria per l’essere umano, convinto di poter sottomettere la natura in ogni sua forma» (p.107).

Man mano che ci avviamo verso l’epilogo, il delta del Po è sempre più irriconoscibile. Laddove un tempo c’erano terre strappate al mare con la tecnica è tornata l’acqua a sommergere ogni cosa e anche la vita di tutti i giorni è profondamente mutata. Poche sono le zone rimaste emerse tanto che tutto sembra irreale:

«questo è lo scenario che ho di fronte, che mi godo da quassù. Sembra che quel che sta succedendo a noi tutti non sia reale. Da quando l’acqua è tornata da padrona e il mare si è ripreso tutto ciò che l’uomo gli aveva sottratto nel passato, questi luoghi che abitarono i miei avi sono distese di pene e fango» (p.141).

In un mondo di acqua e di lande abbandonate, dove l’ospedale più vicino dista ore di viaggio, le donne partoriscono nuovamente in casa accudite da ostetriche come Chloe, trasferitasi dove nessuno vuole più stare, dove in pochi possono restare. Eroine che sfidano le avversità del momento che resistono aiutando nuove vite a venire al mondo. Ma anche costruendo nuove strutture di autogoverno, ricostruendo i villaggi devastati dall’acqua e riappropriandosi di un pezzo di mondo lavorando insieme:

«Quando l’acqua si è portata via le terre, anche la proprietà privata legata a quelle terre si è inabissata. Con queste parole si aprì la possibilità di una nuova vita collettiva» (p.165)

E soprattutto tornando, come fa Miriam nell’ultimo atto, fuggendo dalle montagne divenute rifugio della sua famiglia proprio verso quelle terre da cui la nonna era scappata per scampare alla furia del mare e ormai radicalmente trasformate da temperature tropicali e cumuli di macerie, triste testimonianza di ciò che c’era e che non ci sarebbe più stato:

«mi trovo in questo luogo incredibile, nel quale qualcuno ha voluto che prendessi su di me un difficile compito: capire come salvare la nostra terra sofferente. […] Ma non credevo di trovare una desolazione così grande: angoscia e dolore, più che paura e preoccupazione, sono state le emozioni che mi hanno ferita. Eppure vedo una piccola luce farsi avanti. Vedo comunità resistere, lottare, tentare di rialzarsi. Ma è troppo poco, bisogna fare di più, far diventare più robuste e numerose queste esperienze» (p.264).  

Nel mondo di isole che il mare creerà, nuove forme di socialità prenderanno forma. Così come nuovi modi nasceranno per raccontare un territorio com’era, com’è e come sta per diventare, senza catastrofismi ma dando comunque spazio ai fantasmi di mondi sommersi protagonisti di nuove geografie letterarie. Quando qui sarà tornato il mare è il primo esempio su scala nazionale che riesce brillantemente nell’impresa, auspicabilmente spianando la strada a nuove, necessarie sperimentazioni.

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