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Françoise Vergès e il femminismo decoloniale

Per vivere più femministə: libri, podcast, arte, musica, newsletter e fonti per allargare gli orizzonti e aprire le menti. Oggi scopriamo perché un femminismo decoloniale non è solo possibile ma necessario, grazie a Françoise Vergès.

Nella sua forma di saggio, la riflessione della Vergès, attivista e politologa francese, prende avvio da un evento d’attualità: la vittoria di un gruppo di lavoratrici contro il proprio datore, la società di pulizie Onet, all’inizio del 2018, dopo più di quarantacinque giorni di sciopero. Si tratta di un caso che ha messo nero su bianco – quello della carta stampata, sia editoriale che legale – e dato voce – quella dei notiziari – alla situazione delle donne, soprattutto extraeuropee, che trovano nel settore delle pulizie un’occupazione sfiancante, senza sicurezze né tutele, ma facilmente accessibile in quanto non richiede formazione, preparazione né, spesso, la lingua in comune. Un lavoro invisibile, che si svolge nelle prime ore del mattino o della tarda sera, oppure quando nessuno è presente, e che rende, per proprietà transitiva, anche le donne che lo esercitano invisibili: tanto agli occhi della legge quanto a quelli della società che contribuiscono a mantenere funzionale e funzionante, organizzata e pulita.

Prendono così corpo (almeno) due riflessioni importanti: la prima, quella sul lavoro femminile, fortemente razzizzato e sfruttato; la seconda, quella sul femminismo occidentale civilizzatore, dall’anima colonialista e razzista. Sono sistemi codipendenti, che si alimentano a vicenda, e che Françoise Vergès si propone di criticare grazie a Un femminismo decoloniale (Ombre Corte, 2020).

I femminismi di politica decoloniale non hanno lo scopo di migliorare il sistema esistente, ma di combattere tutte le forme di oppressione.

FV, p. 35
Françoise Vergès

Il lavoro nascosto delle donne

Ogni giorno, instancabilmente, miliardi di donne puliscono il mondo.

FV, p. 8

La società patriarcale si basa su un presupposto: che la donna stia in casa. Tra le mura domestiche, la donna cucina, pulisce ed è a disposizione dell’uomo (padre, marito, fratello). In una società capitalista, in cui tutti devono lavorare ma alcuni lavori sono più importanti degli altri (semicit.), le donne sono costrette a portare nel mondo una serie di funzioni che tale società patriarcale ha cucito loro addosso: la cura dei bambini, la cura degli spazi, la cura delle stoffe. E poco altro. Sono considerati accettabili perché rispecchiano quasi fedelmente nel mondo le mansioni della casa.

Il lavoro secolare delle donne – il lavoro di pulizia – è indispensabile alla perpetuazione della società patriarcale e capitalista.

FV, p. 113

Sono anche i lavori che la società capitalista affida alle donne straniere – cioè: non bianche caucasiche – perché considerati elementari ed essenziali al tempo stesso e, soprattutto, umilianti – in quanto, nel frattempo, la donna bianca ha potuto studiare ed emanciparsi. E poiché le donne vivono e svolgono le loro mansioni all’ombra da sempre, anche questi lavori possono rimanere sotto la superficie, sotto il radar: la mancanza di contratto significa nessun diritto, nessuna tutela in caso di malattia e infortunio, nessuna sicurezza sul compenso, né nella quantità né nella puntualità. Spesso sono i parenti a trovare questi lavori alle donne, specialmente quando non sono in grado di parlare la lingua ufficiale del Paese in cui si trovano, rendendo loro ancora più difficile l’autonomia nella scelta del contrarre o sciogliere un rapporto di lavoro.

Il capitalismo è un’economia di rifiuti e questi rifiuti devono scomparire dalla vista di coloro che hanno il diritto di godere di una buona vita.

FV, p. 107

Tanto in Francia quanto in Italia, il lavoro razzizzato, specie in ambito domestico, è il presupposto per l’agio della donna bianca. Ne parla anche Nadeesha Uyangoda nel suo L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd, 2021): la possibilità delle donne di partecipare alle riunioni femministe, sottolinea Marie durante una di queste assemblee mettendone le partecipanti in difficoltà, è dovuta unicamente al fatto che c’è un’altra donna, probabilmente straniera, sicuramente sottopagata, quasi certamente in nero, «che guarda i bambini e pulisce la casa. […] [Se] tu puoi organizzarti con le tue compagne su come liberarti perché a casa c’è un’altra donna che ti permette di farlo» (Uyandoga, p. 153).

La vita confortevole delle donne borghesi in tutto il mondo è possibile perché milioni di donne razzizzate e sfruttate garantiscono questo conforto cucendo i loro vestiti, pulendo le loro case e gli uffici dove lavorano, occupandosi dei loro figli, prendendosi cura dei bisogni sessuali dei loro mariti, fratelli, compagni. Hanno quindi tutto il tempo di discutere della legittimità o meno di essere “importunate” in metropolitana o di aspirare a diventare dirigenti di una grande azienda.

FV, p. 71

Femminismo e razzismo

Quando fa riferimento all’importanza dell’elemento decoloniale nel femminismo contemporaneo, Françoise Vergès parla con cognizione. Nata a Parigi ma cresciuta nell’isola La Reunion, prima colonia e ora dipartimento francese, e in Algeria, quella della Vergès è una famiglia di femministe comuniste che con l’esperienza coloniale hanno avuto a che fare di prima mano.

Allo stesso modo, la Vergès ha potuto sperimentare il femminismo francese: quello delle donne borghesi che hanno potuto studiare, che sono abbastanza confortevoli da potersi riunire e discutere, fermando le proprie attività – principalmente perché qualcunə altrə se ne fa carico –, che più che mettere in discussione il patriarcato (vedi Catherine Deneuve contro il #metoo) si accontentano del riconoscimento sociale del loro status di donne emancipate. E, soprattutto, odiano il burqa: il femminismo francese è fortemente islamofobo.

Le donne razzizzate sono accolte tra le fila delle femministe civilizzazionali a condizione che aderiscano all’interpretazione occidentale dei diritti delle donne.

FV, p. 71

Per arrivare al femminismo decoloniale, bisogna mettere in discussione il femminismo bianco: quello europeo e occidentale che del proprio agio borghese deve ringraziare il colonialismo, il patriarcato, il capitalismo. Che tramite questi si mantiene, istituzionalizzando e abbracciando lo sfruttamento di donne e persone non bianche, verso lə qualə assume un ruolo paternalista e superiore: civilizzatore, appunto. Un compito da liberatore, molto simile a quello che gli Europei assunsero nei confronti dei nativi americani, degli indios, dei popoli africani.

Quindi, da un lato, le femministe francesi vogliono insegnare (leggi: imporre) alle altre donne il loro concetto di liberazione, che non ammette burqa, abiti non occidentali, gioielli e tutto ciò che non rientri nello standard europeo della normalità (o della massificazione); dall’altro, hanno bisogno che queste donne non si liberino poi troppo, perché devono continuare a poterle sfruttare in modo capillare, per condurre una vita agiata nel privato e nel pubblico.

A loro si contrappongono le femministe decoloniali, che vogliono andare al nocciolo della questione studiando e decostruendo il rapporto «razzismo–sessismo–etnicismo [che] permea tutte le relazioni di dominio» (p. 25). Si inseriscono così nel progetto del femminismo intersezionale, termine proposto nel 1989 dall’attivista e giurista Kimberle Crenshaw: il femminismo deve andare «ben oltre l’uguaglianza di genere e [deve] oltrepassa[re] largamente la questione di genere» (Uyandoga, p. 151), deve necessariamente comprendere come razza, classe e genere si intersechino tra loro per creare un individuo sociale, assieme a età, disabilità, orientamento sessuale e altri fattori o caratteristiche. Ognuno di questi è passibile di odio e discriminazione e può coesistere con gli altri, definendo l’individuo e allo stesso tempo mettendolo profondamente a rischio in una società che si racconta come bianca, binaria, eteronormativa, capitalista, patriarcale.

Le femministe decoloniali non nascono oggi: sono le eredi di tutte quelle lotte iniziate secoli or sono dalle donne subalterne, dagli schiavi, dagli indigeni, dalle persone LGBQTIA+, affinché la loro esistenza venga riconosciuta in quanto tale. Contro la politica dello sfruttamento e della punizione, tipiche del sistema patriarcale e capitalista, quella femminista decoloniale è una politica di protezione, che connette invece di dividere, che accomuna invece di nascondere, che porta in superficie invece di dimenticare.

L’idea che le donne non hanno un passato, non hanno una storia, significa ovviamente che ne avevano una ma che era sepolta, nascosta, mascherata, e che il lavoro delle femministe è di trovarla e farla conoscere.

FV, p. 114

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