Pavese e la Scoperta dell'america

Pensosa e barbarica. La scoperta dell’America di Cesare Pavese

La scoperta dell’America, una raccolta di articoli di Cesare Pavese tra gli anni ’30 e 40 recentemente ripubblicata da Nutrimenti, testimonia il forte interesse che Pavese nutre per la cultura americana, di cui è stato un precursore. Pavese, infatti, è tra quelli che prediligono gli scrittori americani e uno dei suoi maggior pregi è anche quello di aver mitizzato il nuovo Continente, trasferendo in Italia, da un punto di vista narrativo, il sogno americano.

Si inizia a parlare di mito americano nel 1930, quando Pavese pubblica il saggio su Sinclair Lewis. Siamo in pieno periodo fascista e la conoscenza degli scrittori americani è considerata un fatto elitario poiché la censura fascista colpisce soprattutto le traduzioni.

Nella preziosa prefazione di Ernesto Ferrero si ripercorrono i momenti salienti della biografia umana e intellettuale di Pavese. L’interesse di Pavese per la letteratura americana risale al 1926. Nel corso del periodo universitario, lo scrittore approfondisce la letteratura inglese fino a giungere alla tanto dibattuta tesi riguardo l’analisi della poesia di W. Whitman. La passione per le traduzioni determina la sua crescita in ambito letterario, contribuendo a tracciare un interesse per gli autori d’oltreoceano nella narrativa italiana. Come scrive in modo dettagliato Ferrero nella Prefazione, nel 1947 Pavese «sarà in grado di descrivere lucidamente la propria esperienza, parlando di un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo e insieme giovane e innocente».

Il periodo seguente vede Pavese alle prese con una rilettura del poema whitmaniano e, in seguito, impegnato in alcune proposte di traduzioni: da Sherwood, ad Anderson fino a Melville per la rivista La Cultura. Questo periodo fecondo lo porterà alla stesura della sua prima prova poetica riuscita, ossia I mari del Sud. Nell’arco del periodo intercorso tra il 1930 e il 1936, anni tra i più prolifici nella vita dello scrittore, Pavese si dedica alle traduzioni costruendo gradualmente un proprio linguaggio identificativo: dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, al Moby Dick di Herman Melville, al Riso nero di Sherwood Anderson, al Dedalus di James Joyce, a Il 42 parallelo o Un mucchio di quattrini diJohn Dos Passos, solo per citare alcune opere.

La curatela di Dario Pontuale entra nelle fibre di uno scrittore dal carattere ombroso, introverso, «somigliante a d un testimone di un film noir torchiato sulla sedia e con la lampada puntata in faccia», uno scrittore fuori dal comune, dall’anima inquieta; Pavese è perfettamente consapevole di proporre una narrativa di forte impatto sulla società intellettuale del tempo perché ne tratteggia a tinte forti i quadri contadini e rurali, ove abbonda ogni tipo di violenza psicologica, fisica e familiare. E sarà questa particolare scrittura narrativa a imporsi sulla critica nel secondo dopoguerra.

Il suo mestiere di vivere, come ben sottolinea Pontuale, «è l’urlo soffocato di una vittima dall’intelligenza sensibile e nella quale Fortini ritrova una voglia di durezza, realismo, disprezzo e chiaroveggenza che talvolta dà nella recitazione».

Il volume raccoglie quindici contributi di Pavese, a cui si riconosce il merito di aver dato un contributo decisivo alla scoperta della narrativa americana in Italia, saggi indispensabili per l’arricchimento della nostra prosa moderna. Undici di questi contributi riguardano scrittori scoperti da Einaudi; i restanti invece valorizzano autori quali Stevenson, Defoe, Conrad e Dickens.

Pavese non si limita a d una lettura e ad un’analisi oggettivamente critica sul romanzo, oggetto del suo interesse, ma entra nelle fibre dei personaggi, cerca di intuire le condotte e le sfaccettature dei protagonisti incontrati; come un lettore e narratore esterno, non si permette di insinuare se i personaggi di Lewis «passino il tempo in bagordi», ma indaga il motivo per cui gli stessi siano melanconici e ribelli allo stesso tempo, o perché tentino di sfuggire all’avvilente grigiore quotidiano.

Pavese legge avidamente tutta la produzione narrativa degli autori considerati, rintracciando nei romanzi caratteristiche strutturali e di trama consolidate (a lieto fine o meno), o quali siano, ad esempio, quelli investiti da una certa retorica o polemica sociale.

Lo scrittore è uno dei primi autori a comprendere come sia difficile portare alla conoscenza autori che appartengono ad una storia differente dalla nostra perché differenti sono i bisogni storico-sociali; è azzardato rintracciare paralleli che riportino alle nostre azioni di vita e questo spiega la difficile accettazione degli stessi in un Paese che non è il loro.

Se Sherwood Anderson pone la difficile questione della rinascita nazionale riguardo la fusione degli anglosassoni coi latini e l’America è attraversata da un ciclone industriale, nel nostro Paese si respira un’aria diversa dov’è ancora forte la censura, e dove le novità letterarie d’oltreoceano sono ancora poco tollerate. E sta proprio qui, come afferma orgogliosamente Pavese, l’importanza di un’opera come Riso nero perché in America esistono passioni, ideologie, istinti e nuove linfe che sgorgano da ogni parte e che devono trovare una realizzazione concreta.

Le polemiche portate avanti da Pavese coincidono con la diffidenza dimostrata per determinate opere rappresentative, romanzi in cui campeggiano «certe folle ingabbiate e livellate dal puritanesimo e dalla nuova civiltà degli Stati».  Uno scrittore come Lee Masters fatica ad emergere perché, afferma Pavese, le sue denunce sono forti e si basano sulle «descrizioni realistiche, spietate della cittadina di provincia, del villaggio e dei puritani».

Uno scrittore non offre risposte definitive, non dà soluzioni certe per la vita perché, ci suggerisce ancora Pavese, ci sarà sempre qualcuno che rimarrà fuori, come, ad esempio, alcuni dei personaggi di «Spoon River che sembrano prolungare in forma sepolcrale tutti i malcoltenti e le loro passioni esistenziali». Notevole il saggio su Hermann Melville. Pavese intravede già le potenzialità di un autore di cui la critica riconosce il maggior successo editoriale in Moby Dick. Melville ha vissuto«prima le avventure reali, (il primitivo), è stato barbaro prima, nel mondo del pensiero e della cultura è entrato in seguito portandovi la sanità e l’equilibrio acquistati nella vita vissuta».

Non abbiamo necessità di ancorarci a Rimbaud, o a Gauguin perché l’eroe nostro, afferma Pavese, è «il rottame umano». Melville, come tanti altri scrittori americani ha molto da insegnarci. Questi uomini dall’abile penna narrativa hanno saputo rinnovarsi vivendo appieno la cultura del tempo attraverso un’esperienza primitiva e reale, non rinnegando il nuovo, ma bensì attraversando la propria vita «arricchendo, temprando e potenziando la letteratura».

I motivi per leggere questo volume risiedono quindi nella riscoperta di un Pavese autenticamente convinto che la nostra letteratura dovesse nutrirsi di una narrativa d’oltreoceano nuova e vera: da Melville a Dos Passos, da Whitman a Faulkner, da Stein a Stevenson, l’autore si dedica agli scrittori più amati, non risparmiando critiche ed elogi.

Cesare Pavese si è trovato a vivere un’esistenza di disagio intellettuale in un ambiente culturale letterario troppo insabbiato in certe dinamiche.

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.

E noi siamo e saremo qui a ricordarti.

Mariangela Lando

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