Di padre in figlio. La parola papà di Cristiano Cavina

Non è la prima volta, su Tropismi, che parliamo del rapporto tra padri e figli. Un rapporto strano, quasi ad orologeria: si comincia con la complicità, i giochi, il tempo che si dilata fino ad avvicinarsi ad una parvenza di eternità, per poi arrivare ad i silenzi, la comunicazione impossibile, le incomprensioni come ostacolo insormontabile, e la fastidiosa idea che ci vorrebbe così poco, a risolvere.

“Non sono un po’ e un po’” gli confido. “Sono tutti inventati. Un pacchetto con fiocco interno a qualcosa che è tutto vero.”

Avrei dovuto dire: intorno a qualcosa che marcisce, ma mi fermo in tempo.

Cristiano Cavina è un giocoliere della parola. Prima di questo suo ultimo romanzo, La parola papà, edito da Bompiani, non avevo letto niente di suo, e lo dico come un rimpianto. Ma lo avevo ascoltato in tante occasioni, nel leggere i suoi brani e nel raccontare frammenti di vita che assomigliano a brandelli. Ne avevo ricavato un’idea di genuinità, di verità della parola che dà il senso a quello che l’autore intende per letteratura.

E’ sbagliata la domanda.

Non è “quanto c’è di vero nelle nostre storie, Boris?”

Ma “quanto c’è di vero nelle nostre vite?”

Le risposte possibili sono due; giuste entrambe.

Niente.

Tutto.

E la verità, il rapporto tra finzione letterarie e bugie dove nascondersi, è uno dei grandi temi di questo romanzo. Le parole diventano ricami e merletti per inventarsi una vita che non esiste, inserire ragioni fittizie per giustificare le proprie azioni, agli altri e soprattutto a se stesso, fino a vivere in un mondo di parole che sembra vero tanto quanto quello dei silenzi e della realtà dei fatti.

Il presente ricicla il passato. Traslochiamo chi eravamo. Lo reinventiamo, lo riadattiamo; gli compriamo le scarpe nuove se si fanno troppo strette così cammina dritto senza piegarci le dita dentro. Esisterà solo quello che crediamo di essere stati. E incessantemente diventiamo altri.

La parola papà

Il mondo narrativo di questo romanzo risulta da subito asimmetrico, sghembo: il protagonista nasce senza un padre. Vive la sua intera esistenza in un mondo matriarcale, e pur essendo un professionista della parola, quasi un prestigiatore, non riesce a comunicare davvero con le donne che scandiscono la sua vita: la madre, la nonna, le compagne di letto e di avventura, le madri dei propri tre figli. E il protagonista, come un navigatore satellitare impazzito, deve continuamente ricalibrare il percorso, cambiare l’itinerario, ridiscutere la destinazione. E i bambini come soste sicure e insieme rallentamenti, traffico dell’anima.

Cavina, lo abbiamo detto, sperimenta con le parole. Con quello che dice e, soprattutto, non dice. Frasi spezzate a metà, come se non ci fosse bisogno di ribadire un moto dell’anima.

Arrivaci da sola, potrei dire. Provo a metterlo nello sguardo, invece. Trascurabili gesti, zero parole. Così sarà come se io non .

O i tanti, evidenti non dico, non penso, come a separare definitivamente pensiero e azione, come se fosse questo il dovere e la condanna di un padre, o magari l’unico modo per dare e ricevere amore.

La parola papà è un libro che pone domande e lascia le risposte nei buchi, nelle interlinee di ognuno di noi. Fa bene e male al tempo stesso, potrebbe essere una cura dell’anima se non fosse lo stesso autore a invitarci a diffidare dei libri, ad amarli senza chiederne altro. Che poi, non assomiglia tanto all’essere padri o figli?

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