Sabbiosa Enrico Gabrielli Germogli

Sabbiosa

di Enrico Gabrielli

Lo zio era alle prese con una torta. L’adorava, per la sua consistenza spugnosa. Ma nella frenesia bestemmiava contro la confezione artigianale sigillata alla bell’e meglio da un’azienda locale.

— Perché le fanno così?

Con la punta di un coltello cercava di fare leva sullo sportellino di plastica, e poi a mano, unghie corte permettendo, provava a togliere le puntine di metallo che servivano da chiusura.

— Bastarde…—

Zio Olinto aveva una brutta stempiata e dei capelli lunghi bianchi che gli partivano ai lati, cioè una specie di ritratto dell’hippy pentito. Aveva fatto gli anni Settanta, gli anni Ottanta e gli anni Novanta procedendo attraverso un graduale trascolorare di impegno ideologico. Era partito dall’extraparlamentarismo casual fino a precipitare nell’ordalia del qualunquismo più totale.  Era un uomo dalla corporatura piena, mani grosse in contrasto con una testa piccola e poco proporzionata e nell’insieme dava l’idea di una persona truffaldina.

Il nome Olinto, ovviamente, non era merito suo ma venne fuori da un vezzo creativo della madre che si divertiva ad andare per cimiteri a cercare i nomi estinti della tradizione contadina lombarda.

La sorella era stata più fortunata: Elsa, e assieme formavano una strana coppia anagrafica.

Lui si era parcheggiato in casa di lei per via di un’ipoteca su una vecchia casa in periferia, a seguito del fallimento di un’azienda di derattizzazione aperta in proprio.

Olinto non aveva niente da fare se non starsene a casa di giorno e farsi i giri di notte tra locali, bevute e cocaina. Qualche volta tornava all’alba facendo un baccano del diavolo. Poi durante il giorno, negli sprazzi di buon umore, raccontava con particolari pruriginosi imprese sessuali approssimative e cazzate da bancone. Non dava alcun supporto alla vita domestica e arraffava i risparmi di casa nascosti nella bilancia della pastasciutta.

— O mi dai i soldi della casa del babbo o resto qui finché non schiatto, capito?

I litigi tra i due fratelli finivano sempre con una minaccia o con una recriminazione dove, tra le righe, c’era una mai risolta faccenda di figlio ‘preferito’. Olinto era stato tanto desiderato da suo padre, quanto poi, negli anni, disprezzato. Per colpa di chi? Mah, della vita sinusoidale, delle cattive conoscenze, delle scelte sempre simili a non-scelte. Troppo complicato era il chiarirsi su queste cose.

 

Anna, la figlia di Elsa e di un uomo che se ne era andato appena nata, odiava lo zio Olinto. ‘Lascialo perdere’, oppure ‘cerca di sopportare…è pur sempre tuo zio’, erano frasi ricorrenti.

Quando le urla tra Elsa e Olinto arrivavano alle stelle, per Anna studiare diventava impossibile. Spesso, dopo i feroci diverbi, lo zio si rifugiava vicino alla nipote in camera della madre, dove la ragazza si era trasferita con tutti i suoi libri: lui stava lì e la guardava in silenzio mentre studiava, in pigiama, occhiali e capelli raccolti.

A 22 anni frequentava la consunta facoltà di Medicina per tentare l’ardua strada da internista. Ma la claustrofobia domestica era uno scoglio più duro da superare della stessa fatica mnemonica.

 

— Ehi, Anna!

La ragazza si affacciò con riluttanza dalla stanza da letto.

— Che c’è Olinto?

Anna trovava naturale non dare ruoli familiari, così come lo zio era semplicemente ‘Olinto’, sua madre era solamente ‘Elsa’.

— Mi apri questa scatola di merda?

— Cosa vuoi?

La ragazza non aveva capito. Olinto urlò:

— Le puntine di questa confezione del cazzo…me le apri? Vieni qua, dai…—

Se Anna si fosse rifiutata sarebbe andato lui da lei seminando un campo sterminato di briciole sui libri. Tirò indietro la sedia, calzò le pantofole e si trascinò indolente in cucina. Olinto le passò la confezione.

— Ho le dita grosse, Porc……

Anna prese un paio di forbici dalla dispensa e provò, con la punta, a sbocconcellare il coperchio. Arcuava il gomito destro, nudo, da cui, sotto la larga t-shirt, lo zio sbirciava il reggiseno color panna. Con la punta di metallo Anna faceva leva su un punto debole della prima puntina che riuscì a piegare, poi a spezzare e ad estrarla per intero.

— Che brava ragazza… — disse lui, in tono lagnoso, come se la sconfitta contro la scatola fosse un’umiliazione. E poi ridacchiava, come per il piacere di una qualche strana premeditazione delittuosa.

Per togliersi da quella situazione strana, Anna affrontò sbrigativamente la seconda puntina, ripetendo, con le forbici, gli stessi gesti di prima. Un inavvertito inciampo sulla plastica e una puntina le si conficcò in profondità nell’indice.

— Cazzo…—

D’istinto la ragazza si mise il dito in bocca per succhiare il sangue. E Olinto le disse: — Metti il dito sotto l’acqua fredda.

La frase era giusta ma uscì male espressa, quasi in tono prepotente; Anna non eseguì l’ordine e continuò a succhiarsi la ferita, dando chiaramente a intendere il disinteresse per il consiglio dello zio.

Olinto ripeté: — Metti il dito sotto l’acqua fredda, — attese qualche secondo in più e aggiunse gravemente — Anna.

Lei non disse una parola e continuò a tenersi l’indice in bocca, guardando in basso verso il cestino della differenziata. Lo zio le afferrò il braccio e aprì il rubinetto dell’acqua, ma Anna reagì detonando la tensione accumulata da mesi di piccoli soprusi. E urlò.

L’urlo di una donna è un suono ancestrale che evoca l’orrore puro, che ricorda al maschio la sua impotenza nel rapporto con il dolore di un parto, del sangue durante il processo di estrazione di un neonato. L’uomo ha paura della Banshee e quando essa emerge, può portare a reazioni di fuga, di violenza o di spavento. Olinto optò senza

pensarci due volte per la violenza: con una mano tappò la bocca alla nipote e con il braccio libero le afferrò brutalmente la vita. Lei, insufflando aria dalle narici, continuò ad urlare sotto il tappo del palmo di lui, cercando di togliersi di dosso la morsa da maschio robusto e avvinazzato.

Olinto, affondando nella melma di quella degenerazione, l’aveva riconosciuta come l’interessante manifestazione di un desiderio reale. Anna, spaventata a morte, aveva preso a graffiare le mani e la faccia di quell’uomo, che in quel frangente non aveva nome, né tantomeno la dignità di un consanguineo: l’unico desiderio sarebbe stato affondargli un coltello nello stomaco o fracassargli il cranio con un martello.

Tutto questo finché non aprì la porta Elsa, e la contingenza risolse il problema senza la tragedia che ne sarebbe seguita. La sua reazione fu istintivamente quella di riempire di schiaffi a palmo aperto la testa del fratello. A quel mulinello di manate, Olinto lasciò la presa ed Anna, con gli occhi gonfi di lacrime, si unì alla madre in quella gragnola di colpi. Lo zio sotto doppio attacco cercò di coprirsi la testa con le mani, urlando:

— Basta!  

Ma le due donne urlavano più di lui, finché, sazie e con le mani paonazze, lo lasciarono lì ansimante tra il tinello e la cucina. Anna corse in camera in lacrime, lasciandosi dietro nel corridoio una delle due pantofole; la madre tentò di seguirla ma la figlia si chiuse dentro.

— Anna apri!   

Elsa girò la testa verso la cucina e tornò dal fratello, ancora intontito.

— Sei uno schifoso porco! Che cazzo stavi facendo?

L’unica reazione di Olinto fu prendere la giacca e uscire di casa mentre la sorella continuò a insultarlo dietro la schiena:

—Non farti più vedere brutto pezzo di merda! — e l’ultima frase che pronunziò, riverberatasi nell’androne delle scale, risuonò quasi biblica:

— Che tu sia maledetto!

 

La minaccia durò quel che durò.

Circa un mese e mezzo. Pian piano, vuoi per il tipico senso di colpa di una madre assente, vuoi per il tremendo ricatto sentimentale che scatta a volte tra certi tipi di fratelli, la ‘virtù’ originale, come direbbe forse Huxley, prevalse sul ‘peccato’ e Olinto tornò, pentito, contrito, ripulito, nettato. Anna era sempre sgarbata con la madre perché la considerava connivente. Ma quanto può una madre, piena lei stessa di ingarbugliati labirinti di irresolutezza, penetrare nel cuore di una figlia vissuta senza un padre, in una casa striminzita, dentro ad una stanza inadatta allo studio? E quando Olinto tornò, pentito, contrito, eccetera, eccetera, Anna in casa precipitò in un mutismo completo.

Un giorno lo zio disse di aver trovato un lavoretto giù al colorificio, dove i proprietari erano un gruppo di ragazzi alla mano che avevano messo in piedi un’attività specializzata in vendita di bombolette spray per writers. Gli dava una mano con i carichi e gli scarichi e con i turni di vendita serali. Un lavoro semplice e tranquillo, forse più adatto ad un ragazzo di vent’anni che a un uomo fatto e finito ma, per Elsa, anche solo l’idea che ci stesse provando era una conquista.

— È un uomo di merda, — diceva alla figlia muta — ma almeno non sgraffigna più i soldi dalla bilancia, dai…— con qualche battutina sciapita cercava maldestramente di provocare una qualche reazione. Inutilmente.

Anatomia 1, il primo di una serie di ‘Anatomia’, come quei film americani che con i sequel procedono con il riciclo dei personaggi della trama, era l’esame che Anna avrebbe avuto il giorno dopo. Il tipo di studio richiesto era talmente mnemonico, che per certi aspetti il suo mutismo era un magnifico esercizio di concentrazione. Da sola, sotto la lampada del tavolo, una semi penombra caravaggesca, pensava a tante cose, quante più cose il silenzio induce a pensare – ci si provi a stare in silenzio per un mese e poi si vedrà incrementare tutto un mondo di voci interiori – e si soffermava più volte sulle tavole del Netter. Anatomia sistematica: scorreva un dito producendo un fruscio delicato, scendeva verso il basso del disegno, sfiorava le linee di demarcazione attraverso una foresta di binomi, gastroesophageal reflux, peptic ulcer, duodenal obstruction, acute gastroenteritis

 

Anna, adoperò finalmente l’eloquio per fare un esame strepitoso. Poi tornò a casa, si tolse le scarpe, posò la borsa sul tavolo e si sdraiò sul letto, fissando il soffitto. La madre la raggiunse e si mise a sedere sul bordo; la figlia si girò dal lato opposto e chiuse gli occhi erigendo un muro impenetrabile di sonno simulato.

Elsa le avrebbe voluto dare un vestitino color pesca che le aveva comprato come regalo e chiederle dell’esame ma non sapeva da che parte cominciare. E quando non si sa da che parte cominciare, capita a volte che si parta male:

— Anna…— nel chiamare la figlia allungò una mano sulla gamba e provò a scuoterla — sei ancora arrabbiata?

Anna non si mosse.

— Non si può andare avanti così. Almeno dimmi com’è andato l’esame…—

La porta di casa si aprì ed entrò Olinto che chiamò la sorella a voce alta.

— Sorella! Oh, ci sei?

Elsa tolse la mano dalla gamba di Anna e trovò più ragionevole rispondere al fratello per evitare che entrasse in stanza da letto in quel momento di intimità.

—Arrivo — disse in direzione del corridoio. Poi sottovoce alla figlia: — Dopo mi racconti, d’accordo?

Anna, sdraiata e con la testa di lato, percepì ovattate parole come ‘soldi’, ‘casini’, ‘coglioni’. La voce della madre, meno grave e più tagliente, era un crescendo di epiteti, finché esplose in un diverbio lungo ed estenuante.

Anna, immobile, con la guancia schiacciata sul cuscino, spalancò gli occhi fissando un punto indefinito della parete.

Nei giorni che seguirono Elsa seppe che sua figlia aveva dato l’esame con esito splendido e che tra pochi giorni avrebbe dovuto dare Anatomia 2. A dirglielo fu proprio la stessa Anna che, di punto in bianco, si rimise a parlare.

— Grazie del vestito, è molto carino – fu l’esordio della figlia.

— Figurati. Sono contenta – disse Elsa, raggiante per aver recuperato il legame.

Olinto, tornò in casa con la faccia piena di lividi. Elsa lo tempestò di domande ma, nel rispondere, il fratello non riuscì a nascondere la paura per qualcosa di grosso che doveva essere successo.

— Ti sei messo nei casini?

— Lasciami stare, Elsa. È troppo complicato da spiegare.

— Anche se sei una testa di cazzo, Olinto, son pur sempre tua sorella. Perché non mi racconti per bene?

— Non c’è molto da dire. Ho pestato una grossissima merda…

Elsa, da persona semplice, non capiva certi discorsi allusivi e le ci volle un bel po’ prima di capire che Olinto doveva aveva combinato un pasticcio. Stupida o azzardata che fosse, la cosa pareva irrisolvibile, se non con ingenti quantità di denaro e finendo dentro ad una macchina di ricatti senza uscita.

— Passa qua la scatola della torta che lo zio è una frana.

Anna aveva fatto irruzione in tinello dove i due stavano parlando; indossava il vestitino che le aveva regalato la mamma ed era allegra, docile e servizievole.

— Che succede zio? Che hai fatto alla faccia?

Nel dire ‘zio’ calcò la voce: era la prima volta che lo chiamava così. Elsa andò a cercare dell’acqua ossigenata e del cotone nello sgabuzzino — Sdraiati Olinto, che ti medico.

Olinto si tolse la giacca e si sdraiò sul divano docile come un agnello e mentre la mamma sciabattò fino alla faccia del fratello con i medicamenti in mano, Anna in cucina preparò una fetta di torta sabbiosa.

— T’han ridotto male… — sbuffò Elsa, sfiorando gli zigomi di Olinto con il cotone.

Nell’aria si sparse un odore di disinfettante e l’uomo sbuffò, ceduto all’affetto e alle cure di una sorella, tutto sommato, niente male.

Lì accanto un piatto, una forchetta, un pezzo di torta e una nipote che guardava la scena con il sorriso candido di una bambina.

 

Anatomia 2 fu un altro magnifico trenta e lode sul libretto; la ragazza andava spedita, allegra e spensierata.

Tra gli uomini anche i semplici d’animo sanno che dimostrarsi spensierati ed esserlo veramente a volte non sono la stessa cosa. Ma questo non importava: tanto meno ad Olinto che, impaurito dalla vita e distrutto dai debiti, era pieno di brutti pensieri, per colpa dei quali non disturbava più gli studi della nipote.

Con il tacito patto per cui lei gli apriva le scatole della torta, lui, lo zio Olinto, non le rompeva più; le scatole.

 

Una sera di un venerdì piovoso, si ritrovarono in casa attorno ad una tavola apparecchiata: ‘come una famiglia normale’, pensò Elsa.

Anna, con i gomiti sul tavolo e un filo di trucco smaliziato, aveva una forchetta in mano pronta per addentare una patata lessa: di fronte a lei Olinto, sedeva composto ma con la faccia imbambolata e mille rughe sulla fronte imperlata di sudore.

— Non esci stasera?

— No — rispose a fil di voce lui.

— Figurati, — continuò Elsa — non volevo dire che mi dispiaccia, tutt’altro! Fa piacere se una volta tanto mangiamo tutti assieme.

— Sono d’accordo ‘mamma’, — e come fu per ‘zio’, Anna, caricò di suono la parola.

— Che ti succede? Non mi hai mai chiamato mamma. Cos’è, la sera delle sorprese?

— M’è venuto così — disse la ragazza allungando le mani per prendere il vassoio con i carciofi sottolio.

— Non mi sento bene… — Olinto era bianco in viso e si teneva una mano sulla pancia con lo sterno piegato in avanti.

— Che cos’hai? È un periodo che sei uno straccio. T’aiuto a sdraiarti…

Le due donne presero l’uomo da sotto le ascelle e lo sollevarono dalla sedia.

— Che hai zio?

— Che hai Olinto?

L’uomo rispose spazientito:

— Ma che cazzo ne so…

E subito dopo cominciò a digrignare i denti e a mugugnare. Provarono a sdraiarlo, ma lui volle restare seduto nel tentativo di massaggiarsi il basso ventre.

— Ti faccio qualcosa di caldo, — fece Anna, — e magari ti va anche la tua torta preferita… – disse tagliando una fetta di sabbiosa.

— Mangia Olinto, non hai toccato cibo — rincarò Elsa.

— Sì, mangia…— esclamò, sussiegosa, Anna.

Olinto tentò di alzarsi ma ricadde all’indietro in una posizione molle e scoordinata.

— Oddio, ma stai proprio male, chiamo l’ospedale?

L’uomo non rispose; guardò la nipote negli occhi e provò a dire qualcosa.

— Mi… —

— Non ti sforzare, zio. — Anna lo guardò allargando la bocca in un sorriso affettuoso.

E non appena Olinto rilasciò dallo stomaco, poi dalla pancia e infine dall’intestino una tremenda quantità di diarrea, lei mantenne la stessa espressione da serafino del Cinquecento.

— Oddio! —

Elsa corse al telefono per chiamare l’ambulanza mentre Anna smise di colpo di sorridere: restò a guardare lo zio agonizzare e poi, di lì a poco, morire.

L’ambulanza poco servì e il medico parlò di una infiammazione di tipo ulcerosa che unita alla vita sregolata dello zio era stata evidentemente fatale. Cercando di lenire la tremenda notizia del decesso, il medico si lanciò in un lungo discorso sulla retorica di un futuro prospero per le nuove generazioni di medici. E concluse: — ah l’Italia è un postaccio per la carriera da internista. Ma di sicuro sarai bravissima… no?

Anna però non aveva per nulla bisogno di essere consolata. Piuttosto era sua madre ad averne bisogno. Sì, certo, era da dieci giorni che il fratello stava male, ma chi avrebbe immaginato che ci avrebbe lasciato le penne?

Fuori dall’ospedale stava diluviando e le due donne aprirono gli ombrelli. La madre cercava lo sguardo della figlia, che però non ricambiava, e arrivarono a casa dove tutto era rimasto come l’avevano lasciato.

— Ci penso io a pulire, Elsa.  — disse Anna senza alcun colore nella voce.

La madre, seduta con un gomito sul tavolo dove ancora c’erano i piatti della cena, aveva una faccia sfibrata dalla stanchezza; poi chiamò una collega per dirle che al lavoro non sarebbe andata.

— Pronto Giovanna? Sì ciao. Scusa lo so che è tardi. Ma ti chiamo per chiedere un cambio del turno domani — dall’altra parte rispose la collega, mentre Anna aveva impilato scope e stracci per pulire il pavimento dalla merda dello zio — …è morto mio fratello.

Dall’altra parte del telefono la tempestarono di domande mentre Elsa allungò una forchetta verso l’angolo più lontano del tavolo. Anna stava spruzzando del deodorante e vide la madre affondare la forchetta nella torta rimasta lì per ore, sbocconcellata.

— No, Elsa, buttala via.

La madre, impegnata al telefono con la collega, si era messa a piangere e si lasciò togliere da sotto la forchetta la fetta di torta sabbiosa.

—…non capisco proprio. Ma che gli sarà successo? — Anna, raggiunta la pattumiera, guardò il cestello della plastica e le numerose scatole di torta vuote. Con la punta di un coltello affondò nella pasta frolla spugnosa della torta sottratta dal tavolo.  Meticolosamente, una ad una, tolse tutte le piccole puntine di ferro occultate in profondità. Quella speciale farcitura era diventata un rituale a cui si era affezionata: la chiamava torta sabbiosa-rabbiosa.

Gettò nell’organico l’avanzo e nel generico la manciata tintinnante di metallo.

Poi chiuse i sacchi e pensò al futuro.

 

Foto di copertina di Enrico Gabrielli.

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