Violenza contro le donne? In Italia non esiste più

Negli ultimi anni sono state uccise centinaia di donne in Italia, un dato che ha reso necessaria la riflessione intorno alla violenza contro le donne di cui oggi si celebra la giornata Mondiale. Tuttavia, quanto più si discute dell’allarmante diffusione della pratica del femminicidio, tanto più le considerazioni si riducono ai minimi termini. Come se potesse parlarsi di violenza solo in caso di omicidio; come se tutte le altre possibili – e minori nella portata – declinazioni della violenza contro le donne non fossero degne di nota e attenzione; come se, una volta giunti alla violenza estrema, la violenza quotidiana, tacita e invisibile, divenisse trascurabile.

Basterebbe sfogliare un comune dizionario di lingua italiana per comprendere che può definirsi violenza “ogni imposizione d’autorità contro la volontà del soggetto” e “ogni induzione all’assunzione di comportamenti che spontaneamente non si terrebbero”, ma sembra che nel Belpaese la violenza sia degna di essere definita tale solo se tangibile, solo se rintracciabile su cadaveri ed ecchimosi, su cicatrici e fratture, su ferite e diagnosi di violenze sessuali.

E allora è bene ricordare che c’è della violenza anche nella concessione di uno stipendio più basso alle donne solo perché donne, in una variabile che oscilla tra il 6 e il 38%. E’ bene specificare che c’è della violenza nella volgarità di regime che dilaga nelle piazze e per le strade, in quella violenza che non si traduce in gesti, ma che manifestandosi attraverso gratuiti commenti svilisce e offende oltre il 60% delle donne italiane d’età compresa tra i 14 e i 65 anni ogni giorno. E’ bene dire fino allo sfinimento che c’è della violenza nei ricatti e nelle molestie sessuali a cui i datori di lavoro e i colleghi sottopongono una donna su 3. E’ bene evidenziare che c’è della violenza nella percezione comune che la parità tra i sessi debba consistere nell’assimilazione e nell’emulazione dell’uomo da parte della donna, nonché nella pretesa sociale che una donna, per poter valere, debba avere “le palle”, attributi maschili che le sono estranei e il cui possesso sembra essere un marchio di qualità per la collettività tutta, in barba alle qualità e alle risorse femminili.  E’ bene sottolineare che c’è della violenza nella trascuratezza con cui gli organi istituiti per la pubblica sicurezza liquidano le denunce per stalking ad oggi presentate da una donna su 5, nell’ignavia con cui lasciano che la violenza si compia pur riconoscendo che la possibilità che si verifichi sia reale. E’ bene rendersi conto che c’è della violenza persino negli articoli dei giornali Nazionali, se chi li scrive propone l’abolizione del termine “femminicidio”, se si parla di uxoricidio piuttosto che di femminicidio per privare l’atto della sua componente discriminatoria, se a tutti i costi ci si ostina a voler fornire un profilo psicologico dell’assassino perché sia ritenuto folle, depresso o violento ma mai maschilista. E’ bene rammentare che non v’è violenza domestica solo nei casi in cui fidanzati, mariti o padri si avvalgano della propria autorità e della propria funzione per inibire, reprimere, limitare, forzare o mortificare la libertà e la volontà di una donna, ma che ve n’è anche nell’indisponibilità a svincolarla da un ruolo subalterno, ovvero da una posizione di ricattabilità, attraverso la proibizione ad accedere alla cultura, al mondo del lavoro, alla società, all’autonomia e all’indipendenza pragmatiche. E’ bene  dire forte e chiaro che c’è della violenza nella propaganda cristiano- cattolica che promuove come modello femminile quello di madre e moglie devota al maschio e dedita alla vita domestica, annichilendo la dimensione personale, professionale ed esistenziale della donna. E’ bene cogliere la violenza nell’uso mediatico del corpo e delle risorse intellettuali delle donne, che vengono denudate e zittite, ridotte ad articoli decorativi di studi televisivi e Barbie sorridenti, mortificate nella loro bellezza nel nome della bellezza più vuota e volgare e spesso contrapposte all’ideale di bravura e professionalità incarnata dalla figura maschile. E’ bene considerare violenza la nauseante e indefessa promozione di modelli fisici femminili sproporzionati e irreali che non si limitano a proporre e piuttosto impongono alla donna comune un confronto in cui è destinata a perdere, una tensione interiore volta al raggiungimento di quel modello, in una lotta estenuante contro la natura, contro i piaceri, contro l’accettazione di se stessa .  E’ bene infine affermare, con tanta più tenacia quanto più lo si nega, che c’è della violenza nell’approccio istituzionale degli organi di potere ai fenomeni di violenza contro le donne. La superficialità ostinata con cui i Governi rifiutano la necessità di leggi che garantiscano la parità e la necessità di campagne di sensibilizzazione che insegnino agli uomini i diritti delle donne e il dovere di rispettarli è violenza (ormai cronica, purtroppo);  la mancanza di proposte risolutive che strappino in modo efficace la tendenza in Italia a svilire la donna e ogni sua possibile funzione, è violenza; la deviante e perversa politica sedicente a favore delle donne operata nell’ultimo decennio, che si è dimostrata sterile nel migliore dei casi e controproducente per il sesso femminile in tutti gli altri, è violenza.

La violenza non è un atto, è un atteggiamento.

Non è solo lo schiaffo, lo scherno, la palpata, l’omicidio, il livido, la negazione, l’offesa, lo stupro, l’abbandono, la forzatura,  il plagio, la minaccia, la coartazione, la coercizione, l’inseguimento ossessivo o la restrizione.  La violenza è la cultura dell’arbitrio maschile a compierla; è la cultura del silenzio a compiacerla; è la cultura del diritto a ignorarla; è la cultura del dovere femminile a subirla. La violenza è la cultura che germoglia in assenza di cultura, e nel nostro paese è stata così lungamente coltivata da essersi infine radicata e sostituita alla cultura stessa.

E così alla violenza si aggiunge altra violenza, in un’addizione che – come i numeri – non ha fine. E così la violenza si fa inaudita dentro i nostri occhi miopi e le nostre sorde orecchie, sulle nostre bocche mute e sul dito non puntato. Stiamo diventando incapaci di individuare, identificare e riconoscere la violenza, se non è talmente esplicita da non poter essere sminuita o negata. L’abbiamo introiettata al punto che persino le donne la subiscono come una sorta di rito iniziatico inevitabile, come un destino, come un peccato originale o una condanna a cui nessuna di noi possa sottrarsi. Abbiamo lasciato che la frequenza con cui la violenza si compie normalizzasse e banalizzasse la grave anomalia che rappresenta, abbiamo lasciato che diventasse cosa di poco conto, cosa di cui parlare di tanto in tanto facendo spallucce o guardando altrove, per poi tornare a viverla come cosa di tutti i giorni e cosa imprescindibile dai giorni.

Abbiamo permesso che alle donne, tolto tutto ciò di cui la violenza può e sa privarle, venisse tolto il diritto di denunciare la violenza come degenerazione e patologia della società, poiché abbiamo imparato a liquidare ogni episodio di violenza con cinica e pigra arrendevolezza, distrattamente e talvolta persino vagamente annoiati.

Oggi, in Italia, non si celebra il rifiuto della violenza contro le donne, ma la morte della violenza contro le donne. Perché in fondo la violenza contro le donne non è quasi mai tale, per noi. Perché la violenza non è più altro da noi, ma è noi stessi.

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