Se una legge è incostituzionale, meandri e rimedi dell’ordinamento italiano (parte 1)

 Appunti a margine del seminario “La proposizione della questione di legittimità costituzionale in materia penale e le sue insidie: profili sostanziali e processuali” tenutosi il 25 gennaio 2013 presso il Tribunale di Bologna, relatori Vittorio Manes (Professore Associato di Diritto Penale nell’Università di Lecce, Ufficio studi Corte Costituzionale) e Piero Gaeta (Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, direttore Ufficio studi Corte Costituzionale)

Premessa: La questione di legittimità costituzionale

In Italia l’ordinamento giuridico è strutturato in base ad un sistema cosiddetto a costituzione rigida, il che significa, molto sinteticamente, che alla carta costituzionale è assegnato, nella gerarchia delle fonti del diritto, un rango superiore a quello della legge ordinaria, con la conseguenza che qualora una legge emanata dal parlamento risulti in qualche modo contrastante con uno dei valori contemplati nella Costituzione, quella stessa legge risulterà affetta da una forma di invalidità particolare alla quale viene dato il nome di incostituzionalità.

Partendo da questo primo punto, cerchiamo di fissare, allora, come può avvenire il “controllo” sulla “regolarità” o meno della legge ordinaria rispetto al testo costituzionale. Tralasciando il fatto che nei diversi ordinamenti dei vari Paesi il controllo di legittimità costituzionale può essere diffuso o accentrato, a seconda che esso possa essere attivato da tutti i giudici o da un solo organo specificamente deputato, ci basti sapere che in Italia l’unico soggetto abilitato ad effettuare questo genere di verifica è la Corte Costituzionale: da ciò discende che il nostro è un sistema a controllo accentrato. Più specificamente, il controllo accentrato che avviene nel nostro ordinamento è, salvo isolate eccezioni, di tipo “successivo”, vale a dire un controllo svolto dopo l’entrata in vigore del testo di legge.

L’art. 134 della nostra Costituzione dispone che la Corte Costituzionale (o Consulta) è investita del compito di giudicare “sulle controversi relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni: specifichiamo, infine, brevemente, che l’accesso alla procedura di controllo può avvenire in modo diretto (ad esempio una Regione ricorre alla Corte Costituzionale per contestare la legittimità di una legge statale) oppure (ed è di questo che parleremo qui) in modo incidentale. Si ha controllo incidentale quando, nella pendenza di un processo davanti a un giudice, quest’ultimo (chiamato anche giudice a quo – cioè il giudice dal quale promana la segnalazione della questione alla Corte), per risolvere il caso concreto si trovi a dover applicare una legge che egli ritiene incostituzionale. Così, d’ufficio o su richiesta delle parti, egli solleva la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale, alla quale trasmette la fattispecie concreta sottoponendo il quesito sulla conformità della norma al testo della Costituzione.

Come funziona (Dott. Piero Gaeta) 

Secondo le statistiche, le questioni di legittimità costituzionale ricoprono più del 60% delle richieste sollevate dinanzi alla Corte (nelle sue attribuzioni rientrano altri specifici compiti, quali, ad esempio, le pronunce sui conflitti di attribuzione tra organi dello Stato o tra Stato e Regioni): di questi, oltre la metà è oggetto di pronuncia di inammissibilità. Questo non significa, però, come potrebbe sembrare, che i giudici ordinari siano “pigri” o “sciatti” nella prospettazione del dubbio di costituzionalità, ed infatti non è così.

Il dato si spiega, in primo luogo, per le ragioni storico-sociali che spesso fanno parte del quadro culturale nel quale la Corte emette un certo tipo di decisioni: in questo senso, ad esempio, non può non essere sottolineata l’importanza che rivestono, in termini di influenza sulle linee seguite dai giudici costituzionali, le riforme legislative.

Sul versante dei giudici comuni, essi hanno cominciato a lavorare con maggiore precisione sull’interpretazione delle norme in senso conforme al parametro costituzionale. Ciò significa che se il giudice convoglia la norma nel flusso della interpretazione conforme egli non ha la necessità, poi, di ricorrere al dubbio di costituzionalità.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di interpretazione conforme? La risposta più efficace è stata fornita, nel corso degli anni, dalla stessa Corte Costituzionale, che nella pronuncia n. 356/1996, relatore Zagrebelsky, definisce incostituzionale quella legge alla quale è impossibile dare una interpretazione costituzionale. Dalla definizione ricaviamo che il nucleo dell’interpretazione conforme sta nell’adottare uno sguardo che sia congiunto tra norma comune e parametro costituzionale. Va detto subito, infatti, che qualora non vi sia interpretazione conforme a monte dell’approccio del giudice a quo, la Corte adotta la “sanzione” della inammissibilità della questione.

Il palazzo della Consulta a Roma in una stampa di fine Settecento

Il palazzo della Consulta a Roma in una stampa di fine Settecento

Ed invero, nella prassi, il dialogo tra magistratura ordinaria e Corte rappresenta un cammino complesso: i giudici costituzionali, infatti, spesso hanno mostrato, nelle proprie sentenze, un approccio concettuale del tutto multiforme rispetto alla medesima questione di diritto o allo stesso concetto. In questo modo, l’interlocuzione non viene facilitata e capita che i giudici comuni si trovino, per così dire, disorientati sia rispetto all’atteggiamento della Corte, sia rispetto alla effettiva rilevanza della questione da sottoporre, sia, infine, rispetto all’opportunità stessa di effettuare il rinvio della questione dinanzi alla Corte. E’ pur vero, certo, che la Consulta è connotata inevitabilmente da un certo grado di fluidità interpretativa, nel senso che essa risulta essere vincolata per metà al giudice a quo, mentre per l’altra metà deve considerare il quadro sistematico complessivo nel quale la norma si muove.

Considerazioni di questo tipo sono utili per “vigilare” su quelle che possono essere le “insidie” nascoste dietro la proposizione della questione di legittimità costituzionale.

Cercando di toccare gli aspetti salienti del problema, si può stilare un sintetico “catalogo”  dei doveri che il giudice a quo ha, nel momento in cui si trova a voler ricorrere al vaglio della Corte:

1. verifica dei poteri – Il giudice a quo deve procedere innanzitutto a verificare che gli sia costituzionalmente riconosciuto il potere di attivarsi;una volta effettuato il riscontro, dovrà procedere ad applicare hic et nunc la norma indiziata di incostituzionalità, e dopo questo secondo passaggio avrà l’ulteriore dovere di appurare che l’applicazione di quella norma è necessaria per la prosecuzione del giudizio. La verifica dei poteri ha importanti risvolti pratici in termini di fattibilità del rinvio alla Corte, ad esempio qualora il giudice dell’esecuzione (l’organo che sovraintende al controllo nella fase della pena a seguito di condanna) intenda sottoporre a questione di legittimità costituzionale le norme processuali che hanno portato a quel giudicato non ha il potere giurisdizionale per effettuare il rinvio (egli potrà semmai rivolgersi alla Corte relativamente ad una delle disposizioni che riguardano la pena già comminata). Un altro caso di carenza dei poteri è quello del pubblico ministero: la giurisprudenza costante afferma che per avere il potere di rinvio alla Corte è necessario “l’esercizio di funzioni giudicanti” per una applicazione obiettiva delle norme (il magistrato giudicante ha il ruolo di soggetto terzo imparziale, diversamente dal magistrato requirente quale è la figura del pubblico ministero): il PM potrà, semmai, prospettare al giudicante la rilevanza della questione di costituzionalità che egli ritiene si ponga riguardo ad una specifica norma.

Una volta verificati i poteri il giudice può inviare la questione, ma mentre si attende la pronuncia della Corte, cosa devono o possono fare gli altri giudici che si trovano a dover applicare la stessa norma sottoposta a vaglio costituzionale in casi analoghi? Per rispondere bisogna tenere presente che ogni giudizio di incostituzionalità è diverso (ed unico), dal momento che oggetto del giudizio è la norma vivente applicata alla fattispecie. Dunque, non c’è una “pregiudizialità costituzionale”: un rinvio “di fatto” non è ammissibile, poiché o ricorrono i presupposti per proporre la questione nel singolo caso concreto (ed allora ogni giudice ha il dovere di proporla), oppure si ricadrà nell’inammissibilità.

2. i requisiti della “domanda” alla Corte – Il mezzo che il giudice ha per sottoporre il proprio quesito alla Consulta è quello dell’ordinanza di rimessione, che per essere “accettata”, dovrà risultare, prima di tutto, chiaracompiutarisoluta precisa. Sulla chiarezza, la Corte ha rigettato numerose istanze creando la categoria della “inammissibilità per oscurità del quesito”. Allo stesso modo, varie ordinanze vengono dichiarate inammissibili per perplessità (il remittente non chiarisce quale ipotesi interpretativa intende fare propria per individuare il contrasto col dettato costituzionale, necessaria la risolutezza). In altri casi, la Corte rigetta le ordinanze per “alternatività delle questioni” (manca la precisione, il giudice a quo espone più dubbi su più questioni invece di concentrarsi sulla formulazione di un quesito preciso).

L'aula di udienza della Consulta

L’aula di udienza della Consulta

Prima ancora di porsi il problema relativo al fatto che la questione che propone sia fondata, il giudice deve valutare e approfondire la rilevanza della stessa. Il sistema italiano è basato sulla incidentalità, nel senso che il giudizio della Corte deve incidere sul singolo processo (quindi sul caso concreto proposto di volta in volta). Ciò vuol dire che per sottoporre alla Corte la questione di legittimità la norma che si intende segnalare deve essere pregiudiziale alla prosecuzione del processo che si sta svolgendo. Questo principio è chiamato autosufficienza dell’ordinanza: se non si delinea la fattispecie in maniera completa la Corte non può comprendere la rilevanza. Un passaggio fondamentale che il giudice deve compiere in questo senso è quello di riportare al fatto specifico la norma che ritiene incostituzionale, pena il rigetto per mancata o insufficiente descrizione della fattispecie. Per evitare, tuttavia, sovrapposizioni di piani che devono rimanere separati, il giudice deve avere ben presente che riportare la norma al caso concreto non significa che ciò che si chiede alla Corte coincide con quello che è l’oggetto del processo.

3. Competenza e giurisdizione – Può accadere, poi, che il giudice proponente, dedicando attenzione alla questione di legittimità, ometta di verificare la propria competenza e la propria giurisdizione rispetto al caso, è dunque sempre opportuno e necessario che nell’ordinanza venga enunciata la sussistenza sia dell’una che dell’altra prerogativa (c.d. carattere residuale dell’ordinanza di rimessione).

4. Il vaglio sul diritto vivente – Per far sì che la prospettazione alla Corte risulti quanto più completa e puntuale, è bene ricercare se sulla questione oggetto di legittimità costituzionale esiste un “diritto vivente” che può fungere da parametro (vale a dire un orientamento giurisprudenziale o dottrinale consolidato che attribuisce un determinato significato alla fattispecie nella sua applicazione pratica). Nella stessa prospettiva, poi, è necessario fare attenzione al cosiddetto tertium comparationis, ossia una questione del tutto simile a quella specifica che sia stata già affrontata. Bisogna prestare cautela in quanto potrebbe rivelarsi non corretta, dal momento che la pertinenza tra i due casi deve essere, a raffronto, assoluta (recentemente la Corte ha considerato non accostabili, in riferimento ad un medesimo caso concreto, le definizioni legislative di interessi ambientali e di interessi urbanistici).

5. Il corretto approccio – La Corte costituzionale concentra il proprio pronunciamento, abbiamo visto, esclusivamente sulla conformità della singola norma (da applicarsi al caso concreto) rispetto alla lettera della Carta costituzionale, a prescindere dai profili del merito. Dunque, il giudice a quo non deve mai rivolgersi alla Corte per ottenere un avallo interpretativo (non può utilizzarla, in altre parole, come un giudice che rispetto al caso specifico “anticipa” con un proprio parere la futura sentenza).

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