Se una legge è incostituzionale, meandri e rimedi dell’ordinamento italiano (parte 2)

Corte e diritto penale “vivente” (Prof. Vittorio Manes) – Premessi i requisiti della questione di legittimità costituzionale, quando si ragiona di Corte costituzionale con riferimento all’ambito penale deve essere sottolineata, in primo luogo, la specificità della materia,  regolata da principi che rigorizzano le limitazioni di intervento della Corte.  Va poi messo in luce che la Corte ha contribuito enormemente alla attualizzazione del codice penale,  consentendo la coabitazione tra un codice “autoritario” e una Costituzione democratica.

Da sempre, infatti, l’interazione tra Corte costituzionale e giudici penali è molto consistente.  Basti pensare all’evoluzione concettuale del principio di offensività – elevato nelle pronunce costituzionali a “canone universale” del sistema penalistico, o a quella del principio di colpevolezza, definito come vincolo anche per il legislatore. Stesso discorso può essere fatto con riguardo alla “riconversione ermeneutica” operata dalla Corte rispetto a quelle situazioni penalistiche del tutto simili al versari in re illicita, come la preterintenzione ed il reato diverso da quello voluto.

E’ necessario fare attenzione sul fatto che l’interpretazione conforme deve rientrare  nei limiti sia della littera legis sia del diritto vivente. Si potrebbe dire che il momento dell’interpretazione conforme in seno alla pronuncia dei giudici costituzionali non può certo divenire un letto di Procuste, non essendo consentita la riducibilità ad un unico modello interpretativo, occorrendo piuttosto rispettare, come detto, tanto il tenore letterale della norma quanto l’appilcazione concreta ed il signifcato sociale assunto dalla stessa fattispecie.

Nell’idea di un contatto in fieri tra diritto vivente e Corte costituzionale, l’illustre Calamandrei definiva il giudice comune “colui che schiudeva l’accesso alla Corte”.

Una volta interpellata, la Corte ha nel tempo utilizzato alcuni canoni penalistici come veri e propri principi dimostrativi (ancora una volta si pensi al principio di colpevolezza), mantenendo, tuttavia, una sorta di “geometria variabile” nell’inquadramento dei principi stessi, a conferma della sensibilità dei giudici costituzionali rispetto ai fattori sociali.

Riprendendo il discorso della peculiarità del diritto penale quale materia da sottoporre al vaglio di costituzionalità, vale la pena evidenziare che, nel thema decidendum, un primo “ostacolo” alla proposizione della questione di legittimità è rappresentato dalla scelta del parametro di costituzionalità.

I. Un primo caso potrebbe essere rappresentato dal paradgima della ragionevolezza: al giudice spetta un compito molto delicato, viene data rilevanza al tertium comparationis, che diviene condizione necessaria per l’ammissibilità della questione da proporre, anche a fronte di una manifesta irragionevolezza della norma contestata! Si può portare come esempio la questione proposta sul reato di Sequestro di persona a scopo di estorsione (630 c.p.): la Corte pur condividendo la censura della irragionevolezza di pena, ha dichiarato l’inammissibilità della questione perché ha ritenuto non adeguato il tertium comparationis (e, dunque, la fattispecie presa a riferimento come dato esterno per contestare la legittimità della norma).

II. Una seconda ipotesi è rappresentata dall’art. 117 della Costituzione, ossia dal caso di contrasto tra norme interne e disposizioni sovranazionali. Già la Corte, con le sentenze n. 348 e n. 349 aveva affrontato il punto del ruolo da assegnare alla Convenzione CEDU (sull’interpretazione della quale è competente l’Alta Corte di Strasburgo) nella gerarchia delle fonti del diritto italiano: la Corte, ben conscia delle incertezze che sin dalle sue prime pronunce hanno caratterizzato l’individuazione del rango della Cedu, afferma che la Cedu è una norma di rango “sub-costituzionale”, di rango cioè subordinato alla Costituzione, ma sopraordinato alla legge. In sostanza, dice la Corte, la Cedu è una fonte interposta che rende concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, I comma, in armonia con ciò che prevedono le costituzioni di altri Paesi europei. Finalmente cioè la Corte riconosce alla Cedu un ancoraggio costituzionale, nel senso che l’eventuale incompatibilità tra norme interne e Cedu si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione del 117, I comma.

In casi simili, al momento di proporre la questione, il giudice dovrà considerare che qualora non vi sia un’analogia estremamente significativa tra caso concreto e caso già risolto a Strasburgo, egli non potrà lamentare il contrasto con le norme CEDU: un rigore di questo tipo è funzionale all’evitare pratiche non poco frequenti quali il c.d. cherry picking, ossia l’espungere da una decisione giurisdizionale quelle parti di argomentazione che risultano “assimilabili” e utili al proprio caso, senza che la fattispecie concreta possa essere paragonata a quella di cui si occupa il giudice rimettente.

Ciò è successo, ad esempio, laddove la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata lo scorso anno dal Tribunale di Torino con un’ordinanza avente ad oggetto la disciplina della revoca della sentenza di condanna di cui all’art. 673 c.p.p., in relazione ad una serie di parametri costituzionali tra cui – segnatamente – l’art. 117 co. 1 Cost. in riferimento all’art. 7 CEDU (annotazione alla pronuncia della Corte).

Proprio l’art. 117 Cost., peraltro, si evolve, nelle pronunce più recenti, nel senso di divenire un parametro “multitasking“, adatto non solo a svariati ambiti disciplinari (si veda la pronuncia n. 7/2013, qui il commento), ma anche con riguardo ad altre e diverse fonti sovranazionali (ad es. deliberazioni del Consiglio d’Europa).

Un ostacolo a parte è, infine, rappresentato, dalla c.d. creatività del petitum, vale a dire la non pedissequa aderenza a rime costituzionali obbligate di ciò che si intende proporre come questione: basti pensare ai rigetti delle questioni in materia di pene accessorie fisse in materia di bancarotta e di confisca di prevenzione.

Ultimo e centrale nodo per i “penalisti” è certamente quello delle questioni in malam partem (vale a dire quei casi nei quali l’accoglimento della questione da parte della Corte implicherebbe l’espansione delle conseguenze penali di una norma che disciplina un reato, con la conseguenza che si violerebbe la riserva di legge vigente in materia penale prevista all’art. 25 Cost.).

Nelle dette ipotesi, giustappunto la riserva di legge funge da contrafforte al limite discrezionale della Corte: in questo senso si ricorda il caso del ricorso in Cassazione proposto dalla Procura Generale di Genova contro il decreto del Gip che aveva archiviato la posizione dei rappresentanti delle forze dell’ordine per i fatti di lesioni gravi della caserma Diaz in occasione del G8 di Genova, per intervenuta prescrizione. Nella vicenda, la Procura aveva incidentalmente chiesto al Gip di proporre questione di legittimità per dichiarare incostituzionale la prescrizione dei reati di lesioni gravi laddove questi siano assimilabili alla tortura, sostenendo contrasto con l’art. 3 CEDU (così utilizzando, peraltro, il 117 Cost.). Nel caso in esame, il gip ha ritenuto infondata l’eccezione di incostituzionalità delle norme del codice penale, affermando che la prescrizione dei reati è materia di esclusiva competenza del legislatore (l’invio della questione alla Corte costituzionale avrebbe rappresentato, infatti, l’estensione del giudizio di legittimità proprio rispetto ad una norma che, se dichiarata illegittima, avrebbe prodotto l’immediato effetto di aggravamento delle conseguenze penali per i soggetti imputati, ossia una prescrizione del reato più lunga).

Tommaso Sabbatini

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