Formula 1: pausa pasquale, ritorno trionfale (?)

Mentre sgranocchiamo la colomba rimasta, cerchiamo di dimenticare l’immagine di quell’alettone che (giustamente) ai 300 all’ora vola via come l’ape Maia. Dopodiché, passando all’uovo di cioccolata (che fluidifica) spingiamo lontano il ricordo del campionissimo del mondo che fa lo sgambetto al suo compagno di squadra: poveretto, cosa avrà fatto per meritarselo?

E pensare che due giorni dopo il giovane talento della scuderia più “bibitara” che c’è (come direbbe Leo Turrini) ha dovuto perfino fare pubblica ammenda visitando lo stabilimento di produzione della monoposto. Subito il dibattito del web si è infiammato con connessa apertura del cielo: “il ferrarista ha fatto bene a proseguire, era un rischio da prendere, questo fa di lui un vero campione!” “Anche il tedesco vincente ha fatto la cosa giusta, chi ha la stoffa del n.1 non si pone mai il problema di assecondare qualunque strategia di squadra!” E giù pareri più e meno autorevoli su tv, siti, carta stampata.

Una domanda, però, sorge spontanea.

Non è che, dopo i mesi scorsi, nei quali, con una campagna mediatica fenomenale nel nostro Paese per annunciare l’approdo della F1 sulla pay tv, si preannunciava chissà quale spettacolo, ci siamo ritrovati con l’ennesima stagione tiepidina dove più di ogni altra cosa continuano a prevalere gli incerti incertissimi imperscrutabili inafferrabili dati numerici degli ingegneri di pista? Per carità, direbbe qualcuno, come si può pensarlo a solo due gare dall’inizio del campionato?

Beh, la cosa curiosa è che in effetti sono gli stessi piloti a farlo trapelare sia dal loro comportamento in abitacolo sia fuori. Sì, perché in pista li vediamo sempre più nervosi, paradossalmente più “distratti” (l’esempio di Hamilton che replica Webber di due anni fa nello sbagliare box per il rifornimento ha un lato comico ma non meno eloquente), per poi scendere dalla macchina e cominciare a disquisire di due soste invece di tre, di gomme non adatte (sembra essere il nuovo mantra dei driver di F1), di “vettura che non scontenta e che può progredire ancora molto” e via dicendo.

Pare manchi, ancora, qualcuno che a fine gara dica semplicemente: “abbiamo vinto perché siamo qui per vincere” oppure “abbiamo perso perché gli altri sono più bravi di noi”. Provocazione, banale e poco sottile, certo, ma anche cruda nella sua semplicità: la sensazione è quella di piloti sempre più star (Michael Schumacher docet), che scesi dal podio o usciti dal paddock scappano nelle hospitality a cinque stelle degli hotel prima di ripartire, corrono via sui jet privati a rifugiarsi nel loro mondo, che non è quello dei tifosi che li seguono e li osannano, delle squadre che su di loro scommettono tutto: fatica, reputazione, lavoro, tempo, risorse.

f1_easterNessuno pretenderebbe, ovvio, un ritorno alle origini, dove il pilota passava coi meccanici più tempo che con sé stesso, perché la macchina andava “ragionata” insieme, tra chi la guida e chi la “cura”. Tuttavia oggi i top drivers ricordano più che altro i Transformers, stupendi e patinati nelle loro tute, belli e perfetti come degli ovetti di Pasqua, coccolati dagli sponsor, che sempre più milionari ed esigenti ne costruiscono immagine, profilo e fama.

Con dei però grandi come una casa. Ad esempio, la perdita del fattore umano, che a dispetto di quello che pensano i magnati come sir Bernie Ecclestone, è l’unico elemento in grado di fare la differenza in ogni sport, anche in quello più “meccanicizzato”. Provare simpatia o ammirazione per un pilota a volte vale molto di più di una classifica iridata. Peccato che però dietro i punti della classifica ci siano i dollari di chi si fa pubblicizzare nelle livree, nelle tute, nei caschi, nei guanti, sui cappellini, e sui muri. Allora purtroppo il cerchio si chiude e il ragionamento può fermarsi, perché se l’importante è che il circo esista, e non anche che gli animali siano belli da vedere, allora va bene così.

Bisognerebbe chiedersi fino a quanto può durare, anche se la risposta a questa domanda esiste già ed è nei milioni di dollari che si stanno spendendo nei posti più improbabili del mondo per costruire autodromi da F1 nei quali far approdare il baraccone in futuro.

Per il momento godiamoci la stagione, sperando che la pausa di riflessione verso il GP di Cina sia servita a qualcosa; rimaniamo consapevoli però che qualunque cosa vedremo “andrà bene così come è”, anche che il pilota della squadra più blasonata si comporti come un kartista esordiente senza nessuna lungimiranza mandando tutto in fumo per un capriccio di egocentrismo, o che il campione del mondo in carica distrugga ogni rapporto personale con squadra e compagno pur di salire dove nel podio si sta più rialzati degli altri.

A meno che non si faccia ricorso a quel tastino rosso sul telecomando, e chissà, magari poco distante da noi c’è una gara meno “mondiale” da vedere di persona, con gente in carne e ossa che si può avvicinare, fotografare, conoscere. E che magari corre davvero per passione.

nella foto: GP di Malesia, 24 Marzo 2013

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