Sanità e diritti fondamentali

La salute supera tutti gli altri beni esterni, a tal punto, che davvero un mendicante sano è più felice di un re ammalato (A. Schopenhauer)

È dalla visione del film Sicko di Michael Moore che abbiamo percezione più ampia di quanto il nostro servizio sanitario sia invidiato nel mondo, soprattutto perché la Sanità nazionale italiana si configura come un sistema in massima parte gratuito: i cittadini hanno diritto ad ottenere dallo Stato le prestazioni sanitarie, per lo meno quelle essenziali. Inoltre, ai cittadini è data la possibilità di scegliere liberamente il luogo di cura nell’ambito di strutture pubbliche o private.

L’art. 32 della Costituzione prevede infatti che: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Questa disposizione va letta in combinato disposto al novellato art. 117 (Titolo V come riformato nel 2001) che ripartisce le competenza in materia fra Stato e regioni. Si distinguono così una competenza esclusiva statale in merito alla fissazione dei livelli essenziali di assistenza proprio per assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute; e una competenza concorrente delle regioni che per quanto riguarda la specifica tutela dovranno garantire in concreto il raggiungimento degli obiettivi e la disciplina di dettaglio.

Autonomia regionale che incontra, però, oltre al limite dei principi fondamentali generali stabiliti dallo Stato, anche i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Confini demarcati prendendo nota della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee a partire dai leading cases Van Gend & Loos (C- 26/62) e Costa c. Enel (C- 6/64) in poi, ossia dalla costituzionalizzazione europea del divieto di discriminazione in base alla nazionalità da riferirsi a tutti i campi di applicazione del Trattato di Roma, quindi anche al diritto alle cure sanitarie.

È chiaro ormai che qualsiasi esame della situazione legislativa e giurisprudenziale interna manca di completezza se non è integrato da uno sguardo alle disposizioni ed alla giurisprudenza comunitarie. La tutela della salute, è da sempre un terreno che la Comunità Europea ha trattato con molta cautela. Il settore sanitario, infatti, rientra nella competenza esclusiva degli Stati, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione dello stesso. Il ruolo dell’Unione Europea, semmai, consiste nell’intraprendere azioni di integrazione del lavoro degli Stati membri per fronteggiare le minacce più importanti per la salute. Essa interviene inoltre, nelle questioni che hanno un impatto transfrontaliero o internazionale e in quelle legate alla libera circolazione dei beni, dei servizi e delle persone.
La base giuridica della politica dell’Unione in materia di tutela generalizzata della salute va ricercata nell’art. 152 TCe (introdotto a Maastricht come art. 129), che pone quale obiettivo generale per tutte le politiche comunitarie la garanzia di un elevato livello di protezione della salute umana.

L’azione comunitaria non può porre limiti alle competenze degli Stati membri per la gestione ed erogazione dei servizi sanitari e deve riguardare quei settori per i quali i singoli Stati non possono intervenire in modo efficace o questioni di rilievo transnazionale per il coordinamento delle politiche nazionali.”

Questi rapporti verticali tra ordinamenti e orizzontali tra pubblico e privato è l’anima propria del principio di sussidiarietà qualificabile come politica territoriale che consiste nel decentramento della gestione amministrativa degli interessi sociali e dei servizi affidati ad apparati pubblici o ad organismi privati che intervengono in sostituzione ed in aiuto allo Stato. Un’articolazione collaborativa complessa, che secondo alcuni è intrisa disolidarietà collettiva in una società plurale, un vero e proprio asso per una democrazia sostanziale ed una nuovalaicità.

Per i più scettici, invece, le trasformazioni sulla base di una progettualità e di una gestione anche differenziata in sede locale e l’ulteriore previsione del c.d. federalismo fiscale hanno comportato una crescente aziendalizzazione delle strutture sanitarie, con il rischio di una deriva mercantilistica del valore della persona. Per questo sono frequenti i dibattiti che ragionano sull’instaurazione di una concorrenza limitata o programmata; il riconoscimento di più ampi spazi di scelta dell’utente; e la previsione di forme di controllo sociale e di valutazione analoghe a quelle previste nel campo delle imprese da svolgere il sede locale, al fine di creare, partendo dal basso, “un sistema integrato e responsabile di prestazioni e servizi alla persona” (PASTORISussidiarietà e diritto alla salute, in Dir. pubbl., 2002).

Uno dei temi più dibattuti su molti fronti e in tutte le branche giuridiche riguarda la disciplina del consenso libero ed informato: fondamento della liceità dell’attività sanitaria, di qualsiasi trattamento sanitario, in assenza del quale l’attività medica costituisce reato. Il diritto al consenso informato, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti, a seguito di un intervento concordato e programmato e per il quale sia stato richiesto e sia stato ottenuto il consenso, che pongano in gravissimo pericolo la vita della persona, bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell’ordine giuridico e del vivere civile; o qualora si tratti di trattamento sanitario obbligatorio.
In proposito la Cassazione civile (sez. III, sentenza 28.07.2011 n° 16543) ha recentemente disposto che:

Tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza per escluderlo che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che a causa del totale deficit di informazione il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, per cui nei suoi confronti, comunque, si consuma una lesione di quella dignità che connota nei momenti cruciali – la sofferenza fisica e/o psichica – la sua esistenza

Il consenso libero e informato nasce da un’istanza umanitaria molto forte: la relazione dialogica tra medico e paziente. Le informazioni fornite dai sanitari ai pazienti prima di un qualsivoglia trattamento sanitario (che non sia obbligatorio) devono soddisfare pienamente i requisiti di una relazione viva e significativa: per giurisprudenza ormai consolidata, infatti, moduli generici prestampati non liberano i medici dall’onere del consenso informato, né dalle responsabilità – penale e civile – ad esso connesse. Ma per comprendere a fondo la portata innovativa dell’elaborazione occorre considerare il cambiamento di paradigma etico del rapporto medico-paziente delineatosi in Occidente a partire dalla Seconda Guerra Mondiale: il paziente e la sua malattia che fino a quel momento erano stati “oggetto” delle cure biomediche, divennero invece soggettività biografiche a cui garantire dignità e qualità della vita.

Così il Tribunale di Venezia (III sez. civ., 24 giugno 2004) seppe argomentare: “Il consenso deve essere il frutto di una relazione interpersonale tra i sanitari ed il paziente sviluppata sulla base di un’informativa coerente allo stato, anche emotivo, ed al livello di conoscenze di quest’ultimo. In altri termini, la conformità della condotta dei sanitari rispetto all’obbligo di fornire un adeguato bagaglio di informazioni deve essere valutata non tanto sul piano tecnico-operatorio, quanto sulla natura dell’intervento, sull’esistenza di alternative praticabili, anche di tipo non cruento, sui rischi correlati e sulle possibili complicazioni delle diverse tipologie di cura tali da compromettere il quadro complessivo del paziente, segnando il passaggio dalla fase dell’assenso a quella del consenso, ossia del convergere delle volontà verso un comune piano di intenti”.

L’articolo 3 della Carta di Nizza dedicata ai diritti fondamentali, oggi giuridicamente vincolante in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, lo ritiene più propriamente diritto all’integrità della persona che spetta ad ogni individuoAd oggi, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, va ricordato che le previsioni contenute nella Carta di Nizza e nella CEDU costituiscono la cornice di riferimento entro la quale l’interprete nazionale è chiamato ad applicare le regole e a dirimere le controversie del caso concreto.

Pertanto, le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono destinate ad assumere, nelle ipotesi in cui la normativa interna risulti difforme ovvero contraria a quella della CEDU, veste primaria. La portata più rivoluzionaria riguarderà, evidentemente, la cultura dei diritti bioetici, cosiddetti di quarta generazione. Del resto, non si può ignorare che lo sviluppo delle tecniche biomediche e le connesse applicazioni biotecnologiche stanno determinando sempre più il superamento del paradigma naturalistico nelle questioni di inizio e fine vita, ponendo in una luce del tutto nuova la relazione tra principi fondamentali quali dignità umana e autonomia, libertà e responsabilità, consenso informato e libertà terapeutica, parità di trattamento e divieto di discriminazione; imponendo alla politica di ripensare metodi di indagine, criteri ermeneutici utilizzati e categorie giuridiche di riferimento. (Questa questione è posta da una causa in corso, in materia di eutanasia passivaCorte CEDU, sez. V, dec. 31 maggio 2011, pres. Lorenzen, ric. n. 497/09, Koch c. Germania).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.