I vostri figli disoccupati: lettera per genitori borghesi

Ieri era Natale e tra qualche giorno saremo nel 2016, a inaugurare l’ottavo anno di crisi economica. Parlo di noi, dei venticinquenni laureati, sottopagati, con la crisi sotto pelle e il telefono sempre acceso per la speranza di essere richiamati da quell’azienda a cui abbiamo inviato il curriculum tre mesi fa.

Noi saremo da qualche parte, nel 2016. Nelle statistiche, nei trafiletti dei giornali, nei programmi politici per le elezioni, nelle case da condividere con quattro estranei per risparmiare, nei locali gestiti da semianalfabeti a pensare con rancore, mentre serviamo un tavolo dopo l’altro, a Dostoievskij e al potere che appartiene solo a chi si abbassa a prenderlo.lavoro2

Mancheremo solo nei vostri pensieri.

Mancheremo solo in voi che liquidate il nostro dramma con una scrollata di spalle, con una frase fatta o un sospiro scenico. Tanto, che ne sapete voi di quello che ci passa nei cuori e per la testa, quando accettiamo un lavoro da 300 euro al mese per 40 ore a settimana pur di non dover subire l’umiliazione di chiedere ancora soldi a mamma e papà.

Che ne sapete voi  di come vibriamo per la rabbia, davanti ai dirigenti che ci dicono di non avere abbastanza budget per pagarci mentre giocano
con le chiavi del loro suv supersportivo. Che ne sapete che viviamo sospesi come apprendisti funamboli tra Milano e Gioia Tauro, tra la fidanzata e il lavoro, tra un lavoro e l’altro, tra tre lavori e nessuno, tra una singola e una doppia, tra il jobs act e nessun contratto.

Che ne sapete voi delle ansie che ci tengono svegli, mentre intuiamo che questa crisi deresponsabilizzerà i
fautori di questa crisi e ci renderà ricattabili – questo sì – a tempo indeterminato. Lo sappiamo che il nostro tempo e il nostro lavoro stanno perdendo valore economico, che lavoreremo il doppio di voi per avere la metà dei diritti e del compenso, che la globalizzazione ci ha fottuto e abbiamo barattato i nostri diritti migliori con la libertà di  comprare prodotti giapponesi o messicani nel supermercato di fronte ch’è di una multinazionale francese. Che ne sapete voi, di tutto questo?

stagistaNiente. Tanto, che ve ne frega, voi avete il culo saldo alla sedia: nessun ricatto a cui cedere, nessun compromesso a cui scendere, nessun camion di rospi da ingoiare. Potete parlarne con leggerezza, quasi fosse un temporale, una cosa da niente. Ma – direbbe De Filippo – a furia di dire ch’è una cosa da niente, pure noi diventiamo cose da niente, di nessuna importanza.

È questo che non riusciamo ad accettare, a combinare, a legare in un sistema coerente: l’educazione individualista e liberale che ci avete impartito con la negazione del diritto all’autodeterminazione e all’autosufficienza che avete assecondato. Il desiderio di essere qualcuno con la coscienza di essere una cosa da niente.

Fossimo venuti prima di voi non avremmo vissuto con tanta disperazione questa condanna alla sproporzione, all’ingiustizia per incomprensione culturale:  non avremmo saputo dell’esistenza delle alternative e dell’homo faber fortunae suae, non saremmo nemmeno usciti dalla caverna per andarcene a Londra a studiare e acquisire strumenti cognitivi, capacità analitiche e critiche. E invece siamo bovaristi post-litteram, borghesi reazionari che vivono da proletari sognando la Rivoluzione.

In tanti provano a farla, anch’io ci provo. È quella che chiamo “Rivoluzione fiammifero” perché fatta di fosforo (l’elemento chimico dell’intelligenza) e fuoco ma incredibilmente breve. Un post di facebook, un articolo come questo, un’incazzatura urlata al telefono, due ore di film indipendente, tre minuti di canzone cantautorale, 180 pagine sul diritto al lavoro scritte da uno che prima di diventare amministratore delegato faceva il sindacalista, 4 minuti su youtube di un brillante giovane che scriveva di Marx prima di firmare articoli cattofanatici per rimanere in un prestigioso istituto religioso, una raccolta firme su Change.org che il parlamento non è obbligato a valutare.

Dura tanto, la nostra Rivoluzione. Lo stesso tempo che voi impiegate a scadere nell’indifferenza, a camuffare la smorfia di biasimo con cui guardate alle nostre vite in cui tutto sembra aperto e sgualcito, a scorrere la home di Facebook.

Non riesce a trovare luogo, la nostra esasperazione. Non riesce a spaccare la tv, a oscurare i cellulari, a distruggere le certezze che avete acquisito insieme alle case dei vostri padri, a imporvi una riflessione seria sul contributo che avete reso a questo processo di ricettazione sociale, sulle conseguenze della disoccupazione per noi e per i figli che non avremo il coraggio di fare.

Persino quando manifestiamo la Rivoluzione è solo un pallido simularla, ché le piazze hanno smesso di essere un luogo e sembra che a manifestare siano sempre i cattivi, i vandali, gli incivili. Come se la civiltà fosse solo di chi subisce in silenzio o reagisce con la preghiera, di chi pensa sempre che le cose cambieranno (da sole) o di chi sa di poter sopravvivere persino a una trasformazione epocale. Di chi non passa in tv, insomma: le brave persone.

Non riusciamo a trasporre nmanifestazioni-lavoro_h_partbella realtà, in modo concreto e funzionale, la coscienza di dover agire, di dover fare qualcosa per ristabilire il principio intoccabile del di
ritto al lavoro. Toglierci il lavoro, farci ricattabili, costringerci a giocare al ribasso con noi stessi, subordinare il valore delle nostre vite a quello economico che ci viene offerto per lavorare a condizioni indegne: è questo che ci stanno facendo. Ed è questo che fa la differenza tra un uomo sfruttato e un uomo libero, tra una condizione dignitosa e una che non lo è affatto.

Perciò ecco, mentre ripensate ai regali che avete comprato con la tredicesima che a voi viene riconosciuta, ringraziate mentalmente il ragazzo pagato in voucher che ve li ha incartati ed era lì da otto ore anche se era la Vigilia di Natale. E poi fermatevi un momento a riflettere su quello che siamo diventati, su cosa facciamo per evitarlo, su come siamo piccoli davanti al dolore degli altri.

Il lavoro non è solo lavoro, non è solo un mezzo di sussistenza. E poiché meglio di me hanno saputo dirlo in tanti, mi affido alle parole vere e forti che sono state pronunciate da istituzioni e personaggi pubblici sul lavoro, con la speranza che riusciremo a trovare la strada  a partire da qui.

Articolo 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. […] Articolo 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

[Assemblea Costituente, Costituzione della Repubblica Italiana, 1947]

Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità -, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, «diventa più uomo». […] Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno «diventa uomo», fra l’altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo. Evidentemente qui entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che consente la vita ed il mantenimento della famiglia, e quello mediante il quale si realizzano gli scopi della famiglia stessa, soprattutto l’educazione. […] Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo. […] Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità.

[Giovanni Paolo IILabor Excersens, 14 settembre 1981]

Nel XX secolo il lavoro si configurava come un sistema di distribuzione del reddito, di partecipazione remunerata alla produzione di beni e servizi, di sicurezza sociale e di diritti. Attualmente è difficile trovare una definizione adeguata, il lavoro è sottoposto a profonde trasformazioni a causa del progresso tecnologico, del cambiamento del sistema produttivo e delle politiche adottate. Si comincia a parlare di lavori, le forme di lavoro si moltiplicano per contrattualità, per orari e per luoghi. […] Il contesto socioeconomico europeo, come quello nazionale, è caratterizzato da una parte dal miglioramento della qualità nel lavoro, grazie all’evoluzione del lavoro da materiale a mentale e al progresso tecnologico ed organizzativo che consente di lavorare di meno e di produrre di più, ma anche da un peggioramento della sicurezza nel lavoro, in seguito all’aumento dell’utilizzo delle forme di lavoro temporaneo. La diffusione di tali forme di lavoro viene giustificata dai paesi europei con due motivazioni: per ridurre la disoccupazione e per ridurre la spesa per le politiche lavorative di tipo passivo, principalmente rappresentata dai sussidi alla disoccupazione. […] In tale contesto occorre considerare la nascita di una nuova classe sociale, quella dei cosiddetti working poors, cioè un gruppo di persone che riesce a sopravvivere solo intrattenendo più rapporti di lavoro contemporaneamente, lavori poco qualificati, mal retribuiti e facilmente sostituibili attraverso l’automazione o attraverso la forza lavoro proveniente da altri Paesi dell’est europeo, del continente asiatico e di quello africano.

[Federico Zia, Il lavoro e il mutamento del contesto socioeconomico, UNI Service, 2008]

Il fatto di considerare il lavoro un valore è una conquista assolutamente recente. Provando a ripercorrere la concezione del lavoro nella cultura occidentale occorre dire che tre sono le componenti remote su cui si fonda la concezione della società oggi dominante: la greco-romana classica, l’ebraica antico-testamentaria e quella cristiana. Nel mondo greco vigeva il disprezzo per il lavoro perché sottoposto alla necessità ed imposto dai bisogni […]. Nella Bibbia, sin dalle prime pagine relative alla creazione, il lavoro ha un duplice aspetto: da un lato il lavoro dell’uomo fa parte della sua dignità specifica, rende la terra abitabile, casa dell’essere umano e ambiente adatto anche per gli animali, dall’altro, almeno dopo la caduta di Adamo, è visto piuttosto come castigo che come dono […]. Questa visione, sostenuta anche dalla dura realtà quotidiana, valeva anche per altre culture, basti pensare alla concezione romana nella quale la parte maggiormente significativa della vita era l’otium, mentre il lavoro, anche direttivo e autonomo era definito al negativo, appunto il nec-otium, da cui negozio, affari. Era quasi un residuo, un male necessario, tempo sottratto a ciò che contava veramente. […] Sarà il cristianesimo, e soprattutto la Riforma benedettina (VI secolo), a rivalutare il lavoro come mezzo di santificazione, ma successivamente il mondo protestante saprà meglio di quello cattolico interpretarne i cambiamenti dandogli orizzonti di valore e di significato mai immaginati prima, in termini di benedizione divina e di predestinazione.

[Paola Lazzarini, Cattolici al lavoro, FrancoAngeli, 2011]

 

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