Tre concerti torinesi

Sono a Torino da pochi giorni e il sole pomeridiano filtra dalle finestre della cucina attraverso le tende impregnate dell’odore di ragù bruciato, colui che mi offre il suo divano per surfarci sopra si sta già legando i dreadlocks con un elastico mentre si infila le scarpe senza toccarle con le mani. Ho tre appuntamenti musicali per la giornata e attraverso essi spero di carpire qualcosa dell’anima di questa città. La mia guida mi porterà alla prima delle tappe, un concerto di musica indiana ospitato dalla Cavallerizza Reale, spazio un tempo del Teatro Stabile di Torino e adesso occupato da più di un anno per permettere possibilità artistiche. Fuori percorriamo portici dai soffitti a tappeto, camminando evitando tram silenziosi, costeggiando il museo egizio, passando sotto la Mole sembra impossibile immaginare che qui un tempo sorgesse Taurasia, il fumante e sparuto villaggio pieno di echi che si vuole saccheggiato da Annibale, la cui memoria si perde nell’impossibile e nelle griglie dei decumani romani che lo spazzarono via.

Arriviamo davanti al grande portone sbrecciato della Cavallerizza, una X di gialli mattoni sbriciolati segna la ghiaia, ci accoglie un ragazzo dal volto caprino che poi sale su un albero per prendere il sole ricordandoci che tutto qui – gli oscuri androni, il parco luminoso – è nostro. Ci accomodiamo su delle sedie in una stanza panneggiata di nero: da lontano provengono le tablas e il sitar che subito rendono l’atmosfera trasognante. Ne usciamo storditi, parlando con i suonatori sembra di avere a che fare con qualcuno avvinto da una droga ormai imprescindibile: l’aver trovato un mezzo per esprimersi che riesca ad oltrepassare i limiti della verbalità, e un luogo dove poterlo condividere con tutti. Che una città industriosa (o noiosa, come diceva Flaubert) abbia nel suo centro un tale luogo, dove la follia non si nasconde ma si fa baluardo, fa sorridere il cuore.

saluto il mio compare, mentre la luce del sole comincia a svaporare all’orizzonte prendo da solo il lungo Po e mi immergo nel parco del Valentino facendo crosciare foglie morte. A una fermata mi aspetta il 18 per portarmi alla seconda tappa in periferia, uno storico covo di jazzisti. Scendo in una strada silenziosa, qui una stretta lanterna rischiara di note il selciato: è il “Capolinea 8“, da quattro decadi in attività sonora. Quando entro l’atmosfera scoppietta grazie a una panciuta stufa a legna, sui tavoli incisi dai coltelli ammiccano pignatte piene di unti gomitoli di spaghetti. Sul palco gli strumenti attendono, il parlottio diffuso è quello di donne e uomini attempati, i musicisti mangiano e ridono assieme agli spettatori. Chi serve la birra lavora qui da quasi venti anni, e non andrebbe da nessun altra parte, dice di preferire che la sua città sia quel quartiere, e il suo mondo quel rifugio musicale. Il concerto inizia, come ogni improvvisazione jazz è fatta di ampi giri di giostra ritmici al cui interno i musicisti spaziano, quando se ne sente arrivare la fine che chiama l’inizio il tessuto tecnico si infittisce e si libera un applauso. Nel riarrangiare i classici ciò che era lineare si fa frammentato, ciò che era dolce aggressivo. Alla fine sembra di essere stati in un’allegra cena di famiglia che gli zii si sono preoccupati di animare.

Esco fuori ed è ormai la notte fredda, l’ultima tappa è il Teatro della Concordia nella zona industriale. Passa a prelevarmi un amico accompagnato da un pittore torinese che costruisce strumenti musicali andando per mollifici, costeggiando l’astronave atterrata del nuovo stadio sembra di essere arrivati in u n altro tempo. Parcheggiamo e ci inoltriamo tra una folla il cui colore prevalente è il nero e la risata nervosa, sigarette si arrotolano e si bruciano finchè tutti non confluiscono nel salone. Il concerto inizia in un assordante rumore bianco da cui scaturiscono archi, chitarre elettriche e percussioni; dietro agli artisti un immenso schermo sgronda sulla folla immagini in bianco e nero di realtà postindustriali: arti meccanici che gettano rifiuti metallici su piramidi di auto, sagom di cervi terrorizzati da luci artificiali, palazzi svuotati e senza fine. Molti osservano tutto questo attraverso lo schermo del loro cellulare. Il concerto è un crescendo, e in questo crescendo tutto dentro di sé si innalza: non fai più parte di te, ma vaghi dentro al concetto che la musica ti sta suscitando e ti estranei, guidi e ti fai trasportare.

In questa grande città non si realizza la separazione distopica della “Metropolis” di Harbou, né quella futura di estatici Eloi e operosi Morlocks; diverse realtà provano ad unirsi e a volte a compenetrarsi grazie agli ampi spazi a disposizione, una sorta di misurata intelaiatura al cui interno coesistono vitalità immisurabili. Quando il concerto termina torniamo al gelo esaltati, poi tra tutti rimbalza una notizia di attentati avvenuti lontano, in un teatro simile a quello dietro alle nostre spalle. Ci guardiamo in faccia come derubati e vagamente offesi, straniati al pensiero che non c’è vera immersione nella musica che non sia nella realtà, e che la realtà è sempre meno vera della musica.

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