Racconti dal Grand Tour | Perché viaggiare?

Con la fine della Guerra dei sette anni, scontro durato dal 1756 al 1763, che vide fronteggiarsi Inghilterra, Prussia, Francia, Austria e Impero russo nelle conquiste territoriali per ottenere l’egemonia europea, anche le donne iniziarono a viaggiare verso il Continente. L’Europa d’oltre Manica rappresentava un modello di cambiamento e libertà soprattutto per le donne in effetti, decisamente più oppresse fino a quel momento dall’orgoglio maschile e dalle convenzioni sociali. Per questi motivi, intrapredere un viaggio significava per le donne dell’epoca affermare anche una nuova postura personale all’interno della coscienza storica, pubblica e culturale. Per le donne della middle-class l’esperienza del Grand Tour era dunque stimolante e liberatoria e rappresentava la possibilità di una crescita intellettuale e psicologica impareggiabile e internazionale.

È interessante fare osservare le diverse visioni sullo scopo del ‘viaggio’: mentre i gentiluomini desideravano collezionare arte e paragonare la società estera con la propria società inglese conversando con altri uomini continentali, le gentildonne andavano innanzitutto alla ricerca di un riscatto e di un rifugio rispetto alle stringenti costrizioni sociali e verso una libertà d’apprentissage, ossia esperienze e conoscenze per ampliare le proprie competenze e i propri interessi. Inoltre, le donne inglesi consideravano le donne europee veri e propri modelli da seguire, almeno idealmente o come suggestione letteraria.

L’inizio dei viaggi femminili pose inoltre una nuova questione sul tavolo sociale: l’educazione delle donne. All’epoca si cercò di esercitare un forte controllo sul profilo educativo femminile che doveva essere mantenuto rigido e impostato per evitare la maturazione decisionale che avrebbe tolto il monopolio affermativo maschile e simultaneamente permetteva un più facile addomesticamento visto come virtù delle doti domestiche e del mantenimento della ‘femminilità’ estremizzata in codici prestabiliti. La reazione femminile fu di grande consistenza: nonostante questa pratica sociale, infatti, molte donne inglesi, prendendo ad esempio le consorelle d’Oltre Manica, già impegnate in ambito scientifico ed universitario, iniziarono da sole a impartirsi un’educazione di alto livello combattendo lo stereotipo secondo il quale ‘una donna eccessivamente acculturata fosse destinata all’indecenza sociale’. Si costituì poi, piano piano, una rete di donne che ampliò le chances di accesso ai mezzi necessari per elevarsi: donne della stampa permisero un maggiore accesso alla circolazione di volumi e informazioni, e donne politicamente impegnate, intellettualmente o semplicemente attraverso le proprie decisioni personali, donne che hanno aperto la strada e ispirato. Una di queste grandi personalità fu Mary Wollstonecraft (1759-1797), madre della nostra adorata Mary Shelley. Personaggio importantissimo per il movimento femminile, donna dalla mentalità rivoluzionaria: nella sua visione della società, donne e uomini erano pari e ogni donna doveva essere in grado di sviluppare le proprie facoltà di discernimento e ragionamento oltre le emozioni così da poter vivere pienamente e evolversi secondo la propria storia. Desiderava talmente questo cambiamento: permettere alle donne di sottrarsi all’identificazione con il ‘corpo storico ed individuale’ della sofferenza che decise di partire da sé stessa.

Nel 1792 eccola trasferirsi da sola a Parigi, atto decisamente coraggioso e temerario per una donna dell’epoca, con lo scopo di osservare da vicino i moti rivoluzionari francesi. L’esperienza sul campo condusse alla stesura di View of the French Revolution (1793) opera in cui fornì un racconto razionale e dettagliato sui fatti, sui personaggi e sulle condizioni di quel momento storico di rapida trasformazione mondiale.

Ma non fu l’unica ad affrontare una svolta personale destinata ad incidere più profondamente nel destino di molte altre, spicca infatti l’intraprendenza di Elizabeth Montagu (1720-1800) che circa alla metà del secolo decise di ospitare nella sua casa di Portman Square a Londra un salotto dalle caratteristiche parigine, un luogo di conversazione culturale aperto a donne e uomini dell’alta società: il Bluestocking Circle. Gli incontri si svilupparono sino ad ottenere ben presto un secondo luogo di incontro, il salotto di Mrs Vasey e la sua Bas Bleu Society. Una delle ospiti più importanti di queste occasioni di discussione e scambio fu Elizabeth Carter (1717-1806), donna di grande cultura anche per la sua precisa conoscenza di lingue classiche e moderne, tanto che attraverso la sua traduzione del testo del filosofo italiano Francesco Algarotti, Il Newtonismo per le dame (1739), si fece portavoce delle idee di riforma circa la formazione femminile. Questa opera di traduzione, adattata propriamente per le donne dalla Carter, fece diventare la traduttrice un modello ideale da seguire per intraprendere un percorso di crescita morale e intellettuale, non solo, divenne un punto di riferimento per la nuova generazione di scrittrici, creando una nuova tradizione: scritti di viaggio.

La figura della scrittrice professionista si afferma nel XVIII secolo, anche se l’opinione pubblica riteneva le autrici adatte solo al genere del romanzo. L’entrata delle donne in letteratura fu resa possibile grazie alla nuova nozione di soggettività che suggeriva di definire se stessi attraverso le proprie qualità mentali smettendo di dare importanza allo status sociale o altri pretesti. Questo concetto moderne fu alla base di una nuova identità nazionale e di genere. La donna divenne la protagonista in ogni senso. Furono messe al centro delle attenzioni reazionarie che aumentarono volumi dedicati a regole di condotte, a manuali per mantenere l’immagine sociale integra e guide enfatiche sulla castità femminile. Ci fu poi il gruppo delle scrittrici dell’Age of Sensibility considerate delle autorità in campo sentimentale. Ma queste contraddizioni non furono meno utili, perché permisero l’accesso delle donne ad altri generi letterari inimmaginabili e che silenziosamente trasformarono il panorama letterario.

Stiamo parlando del romanzo gotico e delle autobiografie di viaggio, campi fino ad allora esclusivamente maschili. Parliamo di due tipi di composizione che hanno grande affinità con il lavoro traduttivo poiché entrambi i generi prevedono un complesso processo di metamorfosi e trasposizione rispetto al soggetto-oggetto narrativo, lo ‘straniero’, sia un popolo, un testo, una immagine paesaggistica o sociale, nello slittamento cognitivo tra culture diverse. L’autore/traduttore crea, dunque, nuove identità per i suoi connazionali, nello sforzo di renderli partecipi di qualcosa che è loro estraneo. Allora possiamo sostenere che lo scritto di viaggio non è altro che una traduzione per chi è rimasto in patria di ciò che sta fuori dai confini nazionali: la topografia viene tradotta in linguaggio in modo da rendere il Continente più familiare e più possibile comprensibile e ‘immaginabile’. Nel corso degli anni questo genere conobbe una mutazione considerevole: inizialmenente potevano contarsi tre categorie annoverabili come letteratura fantastica o fattuale, i resoconti di viaggio e le esperienze di viaggio assunte a materiale artistico. Distinti stili che sono stati successivamente definiti come le tre tappe di svolgimento e di cronologico sviluppo della cosiddetta Travel Literature.

Il contributo inglese nella Letteratura di viaggio risale al 1500 quando Francis Bacon pubblicò un saggio nel quale riassumeva scopi, mete e dimensioni del viaggiare e dando di tal sorta una predisposizione virtuale al futuro Grand Tour. Fu, però, a partire dal 1700 che la composizione doveva espressamente appagare l’interesse del lettore attraverso il racconto delle esperienze vissute, e più o meno romanzate, dal protagonista stesso di quelle riflessioni. Paradigmaticamente potremmo citare Remarks on several parts of Italy (1705) di Joseph Addison in cui egli forniva una precisa documentazione accompagnata da costanti riferimenti al grandioso destino dell’Inghilterra quale vero ultimo erede dell’Impero Romano. In seguito, gli autori di questo genere si concentrarono piuttosto sulle descrizioni realiste e antropologiche degli stili di vita fino alla presentazione pittoresca di paesaggi e luoghi per permettere l’immedisimazione figurale del lettore e per far fede al principio di novità capace di attrarre l’interesse del pubblico.

Le donne, arrivarono sulla scena dello spostamento, nella seconda metà del XVIII secolo dunque, è infatti attorno a questo periodo che vennero pubblicati i primi racconti di viaggio firmati da donne condotte dal desiderio di trovare il proprio spazio nel mercato editoriale rivolto a giovani e ad altre donne eminentemente. Lady Mary Wortely Montgau (1689-1762) e Lady Mary Coke (1726-1811) furono due esponenti della prima tradizione di scrittrici-viaggiatrici, donne che avevano scelto di mantenere relativamente private le loro visioni circa le società straniere. Le prime testimonianze del Grand Tour femminile provengono dagli scambi epistolari intrattenuti con i familiari e gli amici rimasti in Inghilterra, fino alla creazione di veri e propri resoconti, a differenza degli autori maschili che filosofavano a partire da dettagli, le scrittrici-viaggiatrici accordavano maggiore attenzione agli aspetti concreti della vita quotidiana, della moda, della popolazione che le circondava fino a commentare la gestione delle amministrazioni locali e i principi che reggevano le consuetudini delle comunità.

La pratica di viaggio divenne un vero e proprio fenomeno storico e il Grand Tour divenne lo spostamento di numerosi letterati e letterate verso il Continente, in particolare alla volta del territorio italiano, da cui presero forma diaries e journals. La studiosa Clare Horsby, approfondendo la questione ha formulato un nodo interpretivo di grande rilievo:

«Why travel? Perhaps at the time of the Grand Tour, as now, travel consisted in going, hoping to find one’s preconceived opinions about a place, a people or a culture challenged, and instead finding them confirmed and being pleased about it»

Insomma, da scrittrici-viaggiatrici alla nuova tradizioni di viaggiatrici-scrittrici. Allora è arrivato il momento di concentrarci sulle avventure di Hester Piozzi.

Per l’esattezza Hester Lynch Piozzi fu una delle prime scrittrici di viaggio, nacque nel 1741 in Galles da una famiglia di proprietari terrieri con difficoltà economiche. Figlia unica, fu cresciuta come una bambina prodigio, le vennero insegnate le lingue classiche e straniere e le relative letterature. Nel 1763 fu data in moglie a Henry Thrale, matrimonio combinato per questioni finanziarie, al fine di imparentarsi con una famiglia di ricchi commercianti. Mr Thrale aveva frequentato le migliori scuole senza però portarle a termine, così decise di riscattarsi tentando di entrare in politica riuscendo a procurarsi una poltrona nel parlamento inglese. La coppia di giovani sposi si trasferì ben presto a Streatham Park, località vicino a Londra, dove Hester fece valere la propria posizione sociale di rilievo: come moglie di un parlamentare istituì un salotto culturale a cui presero parte figure di spicco come Edmund Burke e Samuel Johnson con cui si instaura da subita una grande amicizia che si rivelò stabile e duratura. Se il suo impegno era ottimo non poteva dirsi altrettando per la sua situazione familiare: mise al mondo dodici figli, ma sopravvissero solo quattro figlie con cui non ebbe mani un buon rapporto, così come non ebbe mai una buona intesa matrimoniale con il compagno scelto per lei dai genitori. Nel 1781 Mr Thrale morì improvvisamente e Hester si avvicinò al maestro di musica delle figlie, l’italiano Gabriel Piozzi (1740-1809), di famiglia bresciana benestante. I due renderanno pubblici i propri reciproci sentimenti l’anno successivo alla morte del primo marito, cosa che portò alla rottura con le figlie e gli amici, in generale allo scandalo suscitato dall’unione di una inglese protestante con un italiano cattolico. I continui rumors spinsero la coppia a sposarsi il prima possibile e ad abbandonare l’Inghilterra alla volta dell’Italia che raggiunsero nell’ottobre del 1784 restando per circa due anni e mezzo. È nel corso di questo viaggio che Hester Piozzi collezionò molti appunti raccolti in due volumi, Italian Journey (1784 a cui fa seguito il German Journey del 1786) che saranno in seguito rivisti, aggiornati per confluire nell’opera completa ultimata nell’estate del 1788, anno del suo ritorno in Inghilterra. L’anno successivo, l’editore Cadell decise di pubblicare il volume che prese il titolo di Observations and Reflections made in the Course of a Journey through France, Italy and Germany. Questo testo fece di lei una delle poche viaggiatrici del 1700 (se ne contano cinque in tutto) e la sua è il primo resoconto di viaggio firmato da una donna, ma dal punto di vista letterario non fu meno pioneristica apportando novità stilistiche rimarcabili. Il diario, infatti, fu scritto in tono leggero e colloquiale ricorrendo spesso a ironia e umorismo per evidenziare episodi e differenze culturali,caratteristiche che furono apprezzate dalla critica.

Affinché il suo libro fosse accettato, Hester Piozzi, negoziò il più possibile con l’ideologia femminile dell’epoca sempre attraverso espedienti poetici: creò per sé una identità narrativa che giustificasse la sua invasione nel territorio maschile degli scritti di viaggi, grazie al travestimento narrativo, ovverosia trasformava all’occorrenza la voce narrante da maschile a femminile e viceversa. Se aveva bisogno di nascondere certe debolezze utilizzava modi prettamente maschili, mentre se la narrazione richiedeva un certo grado di sensibilità manteneva i ‘panni di donna’. Questo dimostra il suo stato d’animo, scisso tra necessità realistica, costrizioni pratiche, volontà di mantenere una prospettiva femminile propria (non femminilizzata secondo lo sguardo maschile) e il desiderio di controllare uno stile narrativo fino a quel momento mai gestito da una donna. L’obiettivo che si era prefissata era di raggiungere i canoni letterati dell’opera di Addison per smentirlo soprattutto relativamente alla definizione dell’Italia. La rappresentazione di Hester Piozzi era nettamente più realistica e meno severa per l’attenzione che garantiva agli aspetti attuali della Penisola: la guardava in sé stessa e non come ombra della Roma Antica. Mentre Addison ricorreva al paragone di contrasto con la grandiosità del passato italiano per screditarne il presente contemporaneo e far risaltare la gloria inglese, Piozzi ricordava anche i riti barbarici dei Romani per colonizzare e civilizzare i territori e ottenere la loro tanto acclamata grandezza.

Hester Piozzi accorda priorità alla metafora dell’impresa commerciale, piuttosto che l’azione brutale dell’Impero Romano, per designare l’Inghilterra come luogo dove si sarebbe potuta creare una società modello in cui le persone avrebbero avuto modo di essere giudicate secondo le proprie qualità umane e di pensiero e nient’altro. L’umano torna come pivot di senso, e impressioni e descrizioni delle persone soppiantano qualsiasi velleità di guida turistica. Il rispetto per il secondo marito la indusse sicuramente a uno sguardo ulteriore: l’aggettivo che più utilizzò per illustrare gli Italiani fu ‘sinceri’. La loro presunta inciviltà sottolineata da molti altri cronisti di viaggio, viene reinterpretata dall’autrice come una troppa vicinanza, in termini di maggior contatto, allo stato di natura, confermando la natura italica più passionale, diretta e meno composta negli atteggiamenti rispetto al comportamento inglese. È in questo modo, cercando di dare un’immagine globale dell’Italia, che Hester Piozzi cercò di restituire una immagine dell’Italia in cui fosse possibile collegare le figure del paesaggio con la scelta dell’organizzazione sociale. Rimane, sin dalle righe della prefazione al diario, quanto l’autrice stimasse il popolo italiano al quale dedicò un caloroso ringraziamento:

(…) Trasmettere la mia gratitudine a quelle genti straniere che riuscirono ad addolcire la nostalgia della lontanaza con la loro gentilezza adoperandosi con mille, poco meritate, attenzioni a colmare la mancanza della compagnia di coloro che la natura e l’abitudine mi avevano posto accanto.

Il racconto è diviso in tappe, ogni tappa è rappresentata da una città italiana visitata insieme al marito. Il viaggio inizia da Calais, come nella migliore tradizione del Grand Tour, a questo luogo si dedica poco spazio se non per evidenziarne aspetti legati alla quotidianità e ad i suoi particolari colori:

Siamo in procinto di lasciare Calais, dove le donne vestono lunghi abiti bianchi di camuccà, i soldati portano i baffi e le ragazze che servono alla locanda indossano sottane corte (…)

Parallelamente, la vita quotidiana italiana, soprattutto delle donne, occuperà lo spazio principale di tutta l’opera, per soddisfare, per prima cosa, l’interesse delle sue lettrici, e fornire a queste ultime finanche modelli da seguire dal punto di vista dei comportamenti sociali, dalla moda (abiti, acconciature, accessori) alle idee mondane, come i Cicisbei identificati come coloro che si occupavano di accompagnare le donne sposate agli eventi mondani, ricoprendo tali donne di attenzioni senza suscitare in loro alcun interessa. Queste informazioni Hester le ottenne a Milano, da una giovane spose che ammise di servirsene a dispetto del suo gusto solo per non infrangere i codici della moda della buona società. È a Milano che Piozzi si rese conto di come il ceto sociale condizionasse la mentalità di una parte degli italiani proprio come nella sua Inghilterra:

Mai in tutta la mia vita ho udito tanto parlare di stirpe e casato come da quando sono arrivata in questa città, dove il sangue dà diritto a mille privilegi (…)

In altri punti Inghilterra e Italia vennero messe a confronto, ad un certo punto anche per nostalgia della patria: l’ombra dei viali alberati sulla strada per Torino le ricordava il sentiero delle voliere di St. James Park, le strade di Firenze così pulite e curate la fecero sentire come a passeggio lungo i viali londinesi. Ricordò le cerimonie del Queen’s College di Oxford alla tavola del Principe Corsini; ritrovò riuniti nella città di Lucca i pregi di Salisbury e Nottingham e trovò che a Livorno ci si potesse perfino fingere sulle coste del Devonshire se non fosse stato per la differenza di abbigliamento degli abitanti.

La sua intelligenza e acutezza le permisero associazioni artistiche. A Bologna, per esempio, ammirando le opere dei grandi pittori della scuola bolognese si accorse che alcuni potevano esser paragonati a poeti inglese in quanto era impossibile rimanere insensibili alle loro realizzazioni. A Firenze invece Piozzi venne a conoscenza del solido potere di cui disponeva il Granduca Leopoldo I, il quale esercitava una grande autorità sui suoi sudditi, pari a quella paterna del capofamiglia inglese.

Prima della Toscana ci fu la visione della spettacolare Venezia che suscitò in lei l’idea dell’appariscenza: le città inglesi, forse non erano meno belle, solo che rimanevano meno impresse, meno palese e improvviso lo stupore per il loro valore estetico, godeva però di un margine di moderatezza e pacatezza che acquisiva forza e luce nel tempo, mantenendo più smalto.

The more I see of other Nations the more I respect my own.

Raggiunse poi Roma, città che George Eliot definì «of visible history, where the past of a whole hemisphere seems moving in funeral procession with a strange ancestral images and trophies gathered from afar».

Per quanto Hester Piozzi abbia amato i siti archeologici e le ricchezze del patrimonio romano, per lo spirito di contraddizione rispetto alle memorie esaltate del passato ribadito dagli uomini del tempo a fondazione di ogni considerazione o commento, decise di concepire una parabola simbolica per dimostrare il paradosso: se il piccolo Stato di San Marino fu fondato da un religioso che vi istituì un convento diventando all’epoca dell’autrice un rifugio di banditi e delinquenti, Roma aveva subito il processo il inverso, da terra di barbari e assassini divenne la casa ecclesiastica per eccellenza.

Piozzi ricordava su cosa si fonda la cultura, sì su un’idea di grandezza che ha ancora qualcosa a monte come a valle, una grande lealtà e reputazione, mal celate, vis-à-vis della violenza. In qualche modo dunque se le fondazioni vanno rifondate nella civiltà, e per questo ci vuole una nuova ‘mappa’.

Ecco che l’Italia è ancora una volta la meta preferita per i forestieri, come cartolina modello per cronisti, ognuno la descrisse attraverso le lenti dei propri stati d’animo e delle proprie credenze, talvolta splendente, altre misera, ma una cosa è certa, rimase un’aspirazione per viandanti romantici, per tutti i viaggiatori e le viaggiatrici che non smettono di rendervisi per i propri pellegrinaggi: la terra della scrittura.

Why travel? Per scrivere o è la scrittura che vuole viaggiare?

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