Gesti di rinascita. Intervista a Laura Pugno su “La metà di bosco”

C’è una frase attribuita ad Oscar Wilde, citata da Stephen King e ricordata nel film “Il corvo”, che recita così: “Attento a ciò che desideri, perché potrebbe avverarsi”. È una frase, questa, che viene riportata soprattutto per desideri materiali, tangibili, dal posto di lavoro sempre agognato ad un amore incompiuto. La scommessa di Laura Pugno, nel suo ultimo romanzo “La metà di bosco” (edizioni Marsilio), è di declinare questo assunto a ciò che è impossibile per antonomasia: la resurrezione. Per secoli religione e scienza si sono interrogate sulla possibilità di tornare in vita, senza preoccuparsi delle conseguenze, di quello che comporta il passaggio dal mondo dei morti a quello dei vivi. La metà di bosco è il racconto di queste conseguenze, l’anatomia di persone che si trovano di fronte all’impossibile, Ne abbiamo parlato con l’autrice, che ringraziamo per questa intervista.

La metà di bosco vede un’intera isola, quella di Halki, consapevole di un fatto sovrannaturale che è noto a tutti al di fuori, ovviamente, del protagonista: la resurrezione dei morti. Un avvenimento vissuto con piena e serena accettazione, senza nessuna voglia di domandarsi le motivazioni e le conseguenze. Halki è un’isola greca come geografia e come temi: hai trovato ispirazione in certi miti, in certe tragedie classiche?
La decisione di ambientare il mio ultimo romanzo in Grecia, sulla quasi immaginaria isola di Halki con l’isolotto di Krev, è stata un punto di arrivo e ha avuto le caratteristiche di un insight, di un momento epifanico del processo creativo che chiarisce più in profondità la natura del percorso su cui ci si è avviati e della forma del romanzo che, si spera, ne sarà, e in effetti ne è stato il compimento.
Come primissima idea, infatti, “La metà di bosco” non doveva essere situato in Grecia ma in Spagna, Paese dove vivo e lavoro da molti anni, e più precisamente alle isole Canarie, La Gomera o el Hierro. Si tratta di un arcipelago vulcanico, e quando ho iniziato a pensare al progetto, nel 2011, un’eruzione sottomarina al largo proprio del Hierro lasciava presagire imminente la nascita di una nuova isola. Un mondo nuovo, un mondo alle origini quindi. Però non riuscivo a dare forma alla storia, a sciogliere i nodi. Probabilmente in futuro riprenderò quelle suggestioni da qualche altra parte…..
La Grecia, per noi italiani, è un Paese allo stesso tempo familiare ed estraneo, unheimlich, perturbante nel senso freudiano: un luogo che ci riporta all’antichità classica, ai miti e alle leggende su cui si sono formate e ancora si formano generazioni di studenti, e allo stesso tempo un Paese della cui storia e lingua recente sappiamo veramente poco o nulla. E se il perturbante è ciò che ci lascia spaesati, quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare, quale luogo più adatto? Di lì il romanzo ha preso quella via meno battuta che conduce all’isola dei morti.
I conti letterari con la Spagna, tuttavia, ho già iniziato a farli. Il mio primo saggio, “In territorio selvaggio. Corpo, romanzo, comunità”, di prossima uscita, quest’autunno, per la casa editrice Nottetempo, termina simbolicamente ancora nell’arcipelago delle Canarie e in particolare sull’isola vulcanica di Lanzarote, una sorta di Islanda senza ghiacci al largo della costa d’Africa, del Sahara occidentale.

Laura Pugno

Laura Pugno

Avevi affrontato il grande tema della morte anche in Antartide. Se in Antartide ti fermavi al momento prima, alla decisione di ricorrere all’eutanasia, La metà di bosco è quasi un teorema per assurdo, l’atteggiamento dei viventi davanti a una persona che torna in vita. Se Antartide si pone un quesito etico, La metà di bosco fa scaturire tante domande di ordine antropologico. In questi sette anni è cambiato il tuo modo di porti rispetto a questo tema? O le due opere sono in un certo senso complementari fra loro?
Sicuramente quello della morte, e in senso più ampio, della scomparsa, è un filo rosso che attraversa tutte le mie opere da “Antartide”, che per me è il romanzo della linea d’ombra, in poi.
Paradossalmente, “La metà di bosco”, che tratteggia una sopravvivenza oltre la morte che si fa impossibile, perché i rapporti tra i vivi e i morti si corrompono fino alla brutalità, è un romanzo che porta con sé una grande quiete – spero anche in chi lo leggerà – un senso di accettazione e di pace.


In questo romanzo è forte il senso di nostos, di quella voglia di ritorno a una dimensione pre-civilizzata, di ritorno dal mondo dei morti, magari di ritorno alle nostre origini come individui e come uomini. Per una volta, però, questo viaggio è possibile, con conseguenze che non possiamo aspettarci. La nostalgia è un sentimento che si sente forte in tutti i tuoi romanzi, ma è sempre rivolta verso qualcosa di primordiale, quasi di innominabile. Cos’è, per te, la nostalgia?
Il sentimento del tempo, il dolore del ritorno…. tutte definizioni perfette, che dobbiamo ai poeti di ieri e di oggi. Però se dovessi dire che cos’è per me personalmente la nostalgia, aggiungerei che è qualcosa che, appunto, si aggiunge al tuo sguardo. Guardare una strada, una piazza, una foresta o una spiaggia, una persona, e vederla non com’è oggi, ma com’era anni fa, percepire quello strato, quella pellicola invisibile che è il passato sotteso ai luoghi, alle cose, ai viventi che hanno fatto parte della nostra vita. Una sorta di pulviscolo dolce o doloroso, di polvere nera o dorata, che aleggia intorno a cose che intanto sono, e sono diventate, come sono, e che in realtà è solo nei miei occhi, in the eye of the beholder, nell’occhio di chi guarda e ricorda perché ha conosciuto e ha amato.
Devo aggiungere anche che anch’io provo nostalgia, come tutti, perché il passato è unheimlich, appunto, tanto irraggiungibile quanto familiare. Però, la nostalgia, è per me un sentimento dominante, non è un tratto fondativo del mio carattere.
Qualche anno fa, in un’epoca della mia vita in cui, per via della lontananza fisica, provavo una forte nostalgia delle persone che più amo, ho iniziato a scrivere la raccolta di poesia che esce a metà settembre per Lietocolle/Pordenonelegge, nella collana Gialla Oro, “I legni”: ciò che resiste, si conserva, e in qualche misura continua a vivere, dopo la morte dell’albero. La continuità della vita naturale, vegetale, materica, che è l’unica forma di continuità in cui credo, è nel tempo ma è anche nello spazio, e in qualche modo ci lega tutti gli uni agli altri.

La metà di boscoNon si dovrebbe mai giudicare un libro dalla copertina, ma quella di La metà di bosco è veramente suggestiva. Potresti raccontarci come l’hai scelta?
Domanda affascinante, perché la copertina – anche ora che si legge molto a schermo, e vale anche per me che sono una appassionata lettrice non solo su carta ma anche in ebook – conta molto sia per lo scrittore che naturalmente per il lettore. Tanto che alla questione, come altri scrittori italiani, ho dedicato un articolo, Storia della mia copertina, per La letteratura e noi, che si può trovare qui.
In sintesi, posso dire che per raccontare la storia della copertina de “La metà di bosco”, bisogna risalire indietro nel tempo, almeno fino ai due romanzi precedenti con lo stesso editore, tutti editi in un breve arco di anni: “La ragazza selvaggia” (2016) e la ristampa di “Sirene” (2017), il mio romanzo d’esordio, pubblicato per la prima volta nel 2007 nella collana Arcipelago di Einaudi e diventato nel frattempo introvabile. Le tre copertine, infatti, risuonano di eco le une con le altre.
Per Marsilio, a cominciare da “La ragazza selvaggia”, il dialogo iconografico è stato tra me e il direttore editoriale Jacopo de Michelis, con l’aiuto di Giulio Mozzi. Sin dal giugno del 2015, un anno prima dell’uscita della “Ragazza”, avevamo così cominciato, con Jacopo e Giulio, a scriverci e a inviarci foto, perché di foto, tenuto conto dello stile della collana, doveva trattarsi. Era abbastanza evidente, anche solo per concordanza con il titolo, che dovesse trattarsi di una giovane donna, di una figura femminile. Altre ipotesi, come per esempio giochi di cortecce d’alberi, o scorci di paesi che potessero ricordare Stellaria, il borgo abbandonato e invaso dalla vegetazione dove la storia de “La ragazza selvaggia” in parte si svolge, sono state anche loro presto abbandonate.
Una giovane donna, quindi. Da qualche parte aleggiava sulla scelta, anche se solo per suggestione, dato che è fin troppo famosa, “L’incantatrice di serpenti” del Douanier Rousseau. Finché, nello scambio di mail, non si è imposto “The Coldness of Dreams”, lo scatto di un fotografo francese di Lione che è stato anche un insegnante di letteratura – e forse gliene è rimasto qualcosa dentro -, Olivier Ramonteu.
E proprio mentre cercavo, e trovavo, questa prima copertina, ho messo da parte l’immagine dell’adolescente con la maglietta gialla e i capelli neri, intitolata “Bitter Skies”. Sospettavo già che un giorno sarebbe potuta diventare la copertina del nuovo romanzo che stavo scrivendo, “La metà di bosco”. Non sappiamo cosa sia, il gesto misterioso che la bambina dai capelli neri compie, se si prepari in qualche modo a spogliarsi e a tuffarsi, a tuffarsi vestita, se cerchi di far cessare uno sbocco di sangue dal naso o nella gola, o se ancora sia solo un gioco, il suo. Intorno a lei si stende una distesa d’acqua e sembra pronta ad accoglierla.

Molti di coloro che ti leggono dai tempi di Sirene hanno trovato in questo tuo ultimo romanzo un senso di compimento, come se il tuo percorso di ricerca avesse trovato l’apice, un punto di sintesi. Daniele Giglioli, nella sua recensione, l’ha definito il punto d’incontro e di equilibrio dei tuoi temi più cari: il selvaggio e il potere, l’inconscio e l’irrazionale, il pre e il post civilizzato. Mentre scrivevi hai avuto questa sensazione? Dove pensi di orientare, adesso, la tua ricerca stilistica?
Sicuramente per me “La metà di bosco” rappresenta una sorta di compimento, di punto di arrivo e allo stesso tempo, di partenza. È il sesto romanzo che ho scritto in questi dieci, dodici anni. Alla fine di “Sirene”, Mia, la sirena mezzoumana, viene portata via dall’acqua e rinasce, in una certa sorta, a una vita animale nel mare. Nelle ultime pagine de “La metà di bosco”, che per rispetto verso chi non abbia ancora letto il libro non rivelerò, quel finale si rovescia allo stesso tempo in sé stesso e nel suo contrario. Questi sono gesti di rinascita, anticipazioni del cambiamento, quello stesso cambiamento che potrebbe avvenire anche nella mia scrittura. Dico potrebbe, perché come sempre queste cose si svelano solo quando sono fatte. Però intanto, accanto al romanzo, accanto alla poesia che è il mio primo amore, sto scrivendo cose diverse, esplorando altre strade, per esempio la via del saggio: “In territorio selvaggio” ne è la prova.

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