In territorio selvaggio. Intervista a Laura Pugno

Appena un mese fa, un uomo ha attraversato l’Antartide a piedi. Portava con sé una slitta con quasi due quintali di equipaggiamento, che, se ci pensate, è molto poco per camminare da soli nel peggior posto del mondo.

Quando si parla di scrivere un libro – concepirlo, trovare il modo per dirlo, scriverlo dall’inizio alla fine, se necessario riscriverlo una o più volte, attendere la valutazione dell’editore, la  correzione delle bozze, la copertina, partecipare alle presentazioni, ascoltare il parere dei lettori – è esattamente così che lo immagino.

Come camminare soli su una distesa di ghiaccio per quasi duemila chilometri, trascinandosi dietro un bagaglio troppo pesante, vitale e contemporaneamente inutile.

Scrivere è avere a che fare, in qualche modo, con il selvaggio dal quale proveniamo, che tentiamo di dimenticare, che in qualche modo dobbiamo affrontare. Ma è anche un’azione che implica l’altro, fatta sapendo che prima o poi avverrà un incontro.

Laura Pugno è una scrittrice poliedrica, e in ognuna delle sue pubblicazioni sembra fare i conti con questo processo. Un confronto che finora è diventato poesia e narrazione, e che adesso ha assunto anche una forma saggistica, in un volume leggero intitolato proprio In territorio selvaggio. Alla prima pagina, l’Autrice lo riassume così: «un quaderno d’appunti, in territorio selvaggio. A partire dalla parola: selvaggio. Le cose che scriverò qui, potrà sembrare, avranno poco a che fare con ciò che normalmente per selvaggio s’intende, parole e cose come corpo, romanzo, comunità».

In territorio selvaggio

In territorio selvaggio. Nottetempo, 2018.

È un libro piccolo che, come la slitta di Colin O’Brady, contiene elementi vitali per attraversare indenni il bosco. Ma, come gli oggetti magici, non pesa nulla e può essere messo in tasca – come una caramella, un fazzoletto, una mappa, o un segreto.
L’editore Nottetempo ha scritto, in apertura: «Questo libro è nato da un incontro, un incontro in un bosco in cui non ci si era dati appuntamento. E però non un incontro casuale (gli incontri casuali non esistono)»

L’incontro è breve come il libro, ma le parole che vengono fuori richiedono una certa resistenza: si parlerà di poesia e di romanzo, di nomadismo e di comunità, di cose il cui confine si sposta continuamente.

Per questo abbiamo chiesto a Laura di rispondere ad altre (forse troppe) domande su alcuni di questi argomenti.
Incontrare qualcuno nel bosco è traumatico, ma può rivelarsi una fortuna.
Per questo continui a chiedere indicazioni, sperando che se ne vada il più tardi possibile.

 

«Esiste un’esperienza del giardino che abbia in sé il bosco? Che comprenda il bosco, che ci riporti al bosco?» scrivi, quasi all’inizio del tuo “quaderno di appunti”, In territorio selvaggio. Ho riflettuto molto su questa domanda, perché secondo me la risposta è sì, deve esserci. In qualche luogo della mia memoria, c’è un’esperienza (finzionale o reale) dove questa cosa è accaduta. Forse nell’infanzia, quando il principio di non contraddizione non sussisteva? Quando facilmente un giardino può essere bosco, deserto, montagna, valle, continente lontano, e le piante e il clima hanno dimensioni giurassiche, e l’angolo di una siepe può essere un antro contenuto nel tronco di un baobab? Quando anche ciò che si trova all’intero dei confini della propria casa può essere fonte perturbante di pericolo?
Sì, come la domanda implica. Anch’io credo che questa esperienza esista, se non altro nella forma della memoria che ne abbiamo, appunto, dall’infanzia; ma che sia ancora di più un qualcosa a cui tendere, e quindi nella forma dell’asintoto, di ciò che non sarà mai raggiunto e come la linea dell’orizzonte si sposta sempre più avanti, ma nel suo esserci più avanti, e davanti, ci influisce e ci modifica.

Torniamo nei luoghi dell’infanzia e abbiamo sempre l’impressione di ritrovarli rimpiccioliti, su scala mentalmente lillipuziana, o di un’Italia in miniatura. E questo accade anche quando li abbiamo frequentati a lungo, fino a raggiungere, sulle soglie dell’adolescenza, lo stesso corpo, almeno per altezza, che abbiamo ora. Dunque perché questa sensazione di rimpicciolimento? Perché il bosco che ombreggiava alle spalle delle cose-giardino è scomparso? O è più corretto dire che si è sedimentato sul fondo, come un residuo che può essere decifrato per leggervi il futuro, come un’ambra con dentro un insetto dalle ali meravigliosamente conservate, una falena che non si è bruciata nella fiamma, una conchiglia fossile perfetta?

La presenza di questo stato di tensione fa sì che le cose non restino immobili, che appunto tendano verso qualcosa di più ampio, un di più della somma delle sue parti, e nel superamento di questo principio di contraddizione, o sarebbe più corretto dire nell’idea di compresenza – perché i contrari restano sé stessi e allo stesso tempo diventano la stessa cosa – è implicita anche un’idea di restitutio ad integrum: l’ideale di ogni medicina, la guarigione perfetta da qualcosa che non è malattia.

Quando cresci i confini del giardino diventano nitidi, le piante si abbassano, i colori non sono più segni di eccitazione o pericolo, ma si rivelano fiori o sporcizia.
Quella che noi chiamiamo sporcizia in un giardino, poi, di solito, è il passo del bosco che avanza, nella forma di erbe e fiori indesiderati, di animali nocivi. L’abbandono è condizione necessaria perché il giardino ritorni bosco. È necessaria l’assenza di un custode, di un interesse che ristabilisca con violenza l’ordine umano.
Dunque forse il giardino è anche bosco solo in quelle condizioni transitorie, necessariamente finite, destinate a evolvere presto in una delle due cose? In entrambi i casi, non sono forse cura e conoscenza che scacciano il selvaggio dal giardino?
Cura e conoscenza possono scacciare come accogliere. Quella condizione transitoria in realtà è costante. Il potere del quotidiano è enorme, al punto da avere qualcosa di spaventoso. Siamo abituati a pensare al cambiamento come folgorazione, irruzione del discreto, stacco, trauma: ma esiste qualcosa di più profondo che è continuamente tra cellula e cellula e lavora sui connettivi, sciogliendoli in continuazione, con la delicatezza e la potenza di un acido.  Forse proprio questa è la cura, deve contrapporre un potere pari al potere che vuole contrastare, ma lo fa in modo diffuso, lentamente nel tempo. Oggi forse quella frontiera tra giardino e bosco è di nuovo pronta a cadere, perché anche la convinzione che i giardini siano per sempre difendibili, e che questo sia desiderabile, si è allentata. Il Terzo Paesaggio di Gilles Clément rimane come testimonianza.

Queste condizioni transitorie, poi, sono il luogo in cui tutto torna – per un istante e un istante – a essere possibile, in cui possiamo riscrivere – nel senso di rileggere – il passato. Penso alla minuscola casa abbandonata, l’unica dell’isolotto di Krev in Grecia, invasa da piante di albero di fico, nell’ultimo romanzo che ad oggi ho scritto, La metà di bosco (Marsilio, 2018): per gli antichi Greci le piante di fico, il frutto più dolce e pregiato, segnavano le aperture dell’Ade, ed è lì che nel romanzo avvengono gli incontri impossibili tra corpi presenti e passati.
Questo fluire dell’uno nell’altro stato può quindi anche essere dolce. Chiudo la risposta con qualche verso, anche qui tra gli ultimi che ho scritti, dalla raccolta I legni (Pordenonelegge/Lietocolle, 2018):

 

*

il qui, non più uno,
nocciolo di mandorlo
non ancora aperto,
di pesco
tu portavi i rami
sempre, ai primi di marzo
ora si alzano selvaggi
alberi e rami e braccia del tuo corpo

**

la pianta di basilico sul davanzale
spezza il vaso,
la terracotta non tiene le radici,
raccogli la terra e un vento altissimo
in una giornata chiara
muoversi verso la parte di chiarore,
qualcosa sottile si conserva,
ti chiude le dita giovani
su quello che non vedi, è dato in mano

***

dici che il basilico sul vaso
ha memoria dell’estendere dei rami,
rovinare, rompere,
ora dopo ora si fa bosco
e dilaga il selvatico,
la parte di natura è tutto il verde
incandescente sulle cose.

“Il bosco è il luogo della nuova conoscenza, ciò che arrecherà dolore? Il luogo per eccellenza in cui si viene abbandonati, dove si è condotti a questo scopo. Che la conoscenza sia una forma di abbandono da parte di altri è un’idea interessante: di fronte all’albero della conoscenza del bene e del male si è lasciati soli», scrivi più avanti. In mitologia come in letteratura il bambino è spesso lasciato nel bosco, e l’abbandono del genitore è evento necessario perché il bambino trovi i mezzi per uscire dal bosco, cresca, e una volta uscito cerchi o fondi la propria comunità. Ma la conoscenza, un dolore necessario, se esperita e non narrata, non è forse inutile? Non è necessario che la tradizione continui, che il bambino diventi a sua volta il genitore che abbandona il figlio nel bosco? In questo dolore non è forse contenuto allora un atto di conforto, quello stesso atto da cui nasce la tradizione?
La letteratura – l’arte, le arti, ma la letteratura in particolare – è uno dei pochi mezzi che sono stati trovati o inventati per trasmettere l’esperienza del tempo. Il modo in cui il tempo ci incide e fa di noi, nello stesso tempo, la stessa persona che eravamo – io ritengo possibile la continuità negli anni del sé, anche se è un sé intermittente, traslucido, non granitico, più energia che qualsiasi altra cosa – e insieme una persona molto diversa, come se fossimo abitati dai nostri stessi fantasmi, e questi fantasmi, che sono insieme immaginazione e memoria, prendessero possesso di alcune parti di noi, di piccoli appezzamenti di quello che siamo. L’esperienza del tempo è qualcosa che si può solo fare, letteralmente. Il modo in cui a quaranta o a cinquant’anni si è diversi che a venti, dall’interno, è in un certo senso indescrivibile.

Eppure, la letteratura, l’arte, in qualche modo ci riesce, fa improvvisamente intravedere, come una luce tra gli alberi al calare del giorno, o come un’immagine che si forma sul fondo dell’acqua di un bacile, qualcosa che potremo conoscere solo per averlo vissuto. Quando arriveremo ad averlo vissuto, un po’ di quel tempo sarà stato inoculato in noi come un vaccino, saremo meno impreparati ad affrontarlo, il corpo reagirà. La letteratura in un certo senso è un fatto fisico. Questa è, effettivamente, una forma di conforto, che ci viene portata da quegli estranei a noi che hanno scritto e che scrivono i libri che abbiamo amato.

Mentre mi preparavo a scrivere il romanzo La ragazza selvaggia (Marsilio, 2016), o anzi, più esattamente, tra la prima e la seconda stesura, ho letto i memoriali di Jean Itard, il medico che accolse ed ebbe in cura, negli anni della Rivoluzione francese e immediatamente seguenti, uno dei più famosi feral children, Victor de l’Aveyron: il ragazzo selvaggio a cui poi dedicò un film François Truffaut. Sono testi molto interessanti, anche perché sono scritti per essere in qualche misura giudicati, sono report, rese dei conti per qualcuno che valuterà. Eppure quello che sembra palpabile, in quei testi – sembra, perché quando scriviamo di noi stessi siamo comunque sempre nell’autorappresentazione – è una sensazione di calore, tra medico e paziente, tra adulto e ragazzo, tra chi ha la parola e chi ne è privo. Questa sensazione di calore è il conforto del testo.

In un contributo a L’Espresso del 15 ottobre 2018, scrivi «La parola comunità è l’antidoto alla parola gente». Comunità è una parola che torna spesso anche nel tuo In territorio selvaggio, quella comunità su cui si basa la società democratica, l’esatto contrario del selvaggio. Il selvaggio non è democratico, è terribilmente meritocratico. Ciò che incontriamo nel selvaggio è una violenza non celata, che spesso sfocia in un’aggressione per la supremazia. In società come nel bosco, il contrario della parola comunità è la parola branco?
Sì, ed è interessante vedere come il branco umano sia sostanzialmente qualcosa di diverso dal branco animale. Il primo si fonda su una supremazia fisica collettiva, di deboli uniti contro deboli soli. Nel secondo, la supremazia fisica collettiva è strumentale soprattutto, per esempio nel caso dei branchi di lupi, alla caccia di prede di grossa taglia, che comporta sempre, anche per il predatore, un rischio di morte e menomazione fisica molto concreto. Barry Lopez in Of Wolves and Men chiama questo concetto, che inizia in un primo scambio di sguardi, in un avvistamento tra predatore e preda, la conversazione della morte. La caccia così può fallire, o andarti bene una volta su dieci, la tua preda ti può ledere, anche per il predatore non esiste immunità. Anche la preda di piccola taglia, la capra selvatica, non è la pecora indifesa, ha zoccoli e corna. L’idea è: pagherai un prezzo. Quest’idea è ciò che il branco umano espelle, e che rende il concetto di branco umano così atroce.

Cercando di definire il selvaggio hai adottato un processo di sottrazione più che di definizione, hai identificato elementi che non appartengono a ciò che definiamo selvaggio a seconda del contesto. «Il selvaggio – lo sanno tutti – è infinito, nel senso di sconfinato. Non ha confini, o meglio noi non li conosciamo. Le mappe riportano “hic sunt leones“», hai scritto.
L’ultima volta che ho letto questa frase, “hic sunt leones”, era riportata come severo avviso su un tutorial che spiegava – a grandi linee – cosa dovrebbe contenere la parte nascosta della Rete, il deep e il dark web. Metafora forse audace ma realistica: è un luogo, anche se non fisico, dove si rischiano identità, dignità, reputazione, beni economici, addirittura la vita. Un luogo dove il carnivoro più grosso sbrana l’animale con il processore più lento. Esiste oggi un luogo fisico sul pianeta Terra che può essere definito altrettanto selvaggio? Come tu stessa scrivi, siamo noi a creare il concetto di selvaggio per differenziazione, e abbiamo creato noi questo selvaggio. Abbiamo creato un selvaggio dove il corpo non è necessario, ma dove è comunque possibile rischiarne l’incolumità. Come si sposta a questo punto il confine tra natura e cultura?
Domanda molto bella. Il confine tra natura e cultura è sempre mobile. Lo sposta in primissimo luogo il linguaggio, la sua invenzione, la capacità di dare istruzioni, conservare memoria, organizzare una caccia in gruppo in modi non possibili nel mondo animale. A quel punto il corpo comincia a estendersi, a ampliarsi, a tendere oltre sé stesso: in fondo un processore è una sorta di atlatl, di propulsore per proiettili. E il confine continua a spostarsi continuamente, perché – a quel punto – il mondo, se lo è mai stato, non è più uno, ma comincia a essere pensato in mille forme di linguaggi diversi, ognuno dei quali lo inventa di nuovo.

Cambiando prospettiva, credo che la domanda vada ribaltata: quali luoghi, non selvaggi, e proprio per questo estremi, siamo in grado di inventare? Pensa a quanto sia estrema l’idea che esistano dei diritti umani, detenuti per sé soli, per il solo fatto di esistere come esseri umani compiuti. L’idea che non sia etico nuocere a un corpo – a una mente, a un’identità – per la sola ragione che siamo materialmente in grado di farlo. In questo senso la vecchia Europa è il luogo più estremo di tutti, e non è un caso che si stia cercando di bruciarla, radura per radura, come un’Amazzonia.

Se non sono necessari i corpi nel selvaggio che abbiamo creato, lo sono per creare comunità?
Lo sono sempre, anche se ci appaiono solo di tanto in tanto. La mente si estende nelle interruzioni tra l’incontro di due o più corpi e l’incontro seguente, e in qualche modo li avvicina.

Una domanda sui libri e sugli oggetti-libri. Hai ripreso più volte l’immagine della poesia come arma di guerriglia, talismano portatile e nomade, contrapposta al romanzo come genere di conforto, basato sulla stabilità. Tenere un libro in mano porta indubbiamente conforto, pone un limite al senso di abbandono, è prova fisica della società, di altri che ci circondano. Probabilmente l’e-reader è stato un insuccesso perché strumento decisamente meno confortante di un libro – un e-reader può portare molte cose con sé in un piccolo spazio leggero, è come uno zainetto da escursione, di quelli che servono per fare il giro del continente in treno, un’idea emozionante ma terrifica nel suo evidenziare l’instabilità. Una copia stampata di Guerra e pace, nella sua pesantezza e fragilità, ti tiene ancorata il più possibile vicino casa. Anche se poi nella lettura, appunto, si è soli.
La tendenza editoriale di oggi però viaggia sempre più veloce verso l‘audiolibro, nella formula commerciale dell’abbonamento, in modo simile a Netflix e Spotify. L’audiolibro contiene una promessa nuova, su cui né il romanzo cartaceo né quello digitale possono confrontarsi: l’oralità. Un’oralità che non è più trasmissione, piuttosto è materializzazione del «ti tengo compagnia io, non sei più solo mentre viaggi». L’audiolibro è l’ologramma di un compagno di viaggio, una voce preregistrata sicura dei suoi passi, che interpreta in modo deciso i significanti per dare risposte già chiare sui significati. È forse la voce che vorresti avesse il tuo cane – e di certo nessuno ha mai detto del lupo «gli manca solo la parola».
Con l’audiolibro, insomma, puoi essere lontano da casa e avere accanto una voce umana nota, altrimenti dovresti investire del tempo, leggere e sentire la tua, e questo può apparire terrificante. Di nuovo, c’è ricerca di comunità senza corpo. E davanti a questa richiesta il romanzo invade il campo su cui finora la poesia era padrona: il suono. Pensi che l’audiolibro possa essere una piattaforma di rilancio per la poesia, che possa trovare ora un supporto per il suo più naturale utilizzo? O la lama della poesia è così arcaica che necessita ancora di un corpo reale che la vibri?
Non credo nel porre limiti ai mezzi. L’audiolibro farà le sue prove – le vincerà o le perderà, più probabilmente si affiancherà al resto, come l’ebook si è affiancato al libro cartaceo, o, per fare un esempio molto pragmatico e quotidiano, l’aspiravolvere alla scopa di saggina.

In Oralità e scrittura di Walter Ong si dice, a un certo punto – cito a memoria da molti anni fa, qui a Madrid non ho il libro con me – che nel mondo dell’oralità, il mondo uditivo, il centro si sposta con il soggetto che si muove, che è quindi sempre in quel centro – ed è anche sempre in allerta, aggiungo, perché l’udito è il senso del pericolo. Quando poi si entra nel mondo del visivo, nel cosmo del soggetto che legge scrittura e guarda, sopraggiunge il sentimento della lontananza, connaturato al guardare lontano – ma anche qui ritorna l’allerta, l’idea dell’avvistamento. Nella vista, nella scrittura, nel lontano, per Ong il soggetto è lasciato solo.

La parola detta, quindi, può far parte di un processo di riavvicinamento? Senza entrare nel merito di una scrittura strettamente performativa – la mia in poesia non è tale – è vero però che negli ultimi anni si percepisce con più forza un bisogno di presenza, un volerci essere con il corpo, un essere con il corpo in un momento di incontro.

Penso, per esempio, all’ultima edizione del Festival Pordenonelegge, in cui a una serie di poeti nati dopo il Sessantotto era stato chiesto di riflettere su una serie di parole chiave del Sessantotto stesso nell’anno dell’anniversario. Parole come desiderio, realtà, gioventù. La mia parola era immaginazione – l’immaginazione al potere – e io ho scelto di interpretarla in un reading poetico, con un testo scritto ad hoc, quasi teatrale. Molte cose, mi sembra, sempre più spesso vanno in quella direzione.

Tornando all’audiolibro, l’anno scorso mi è stato chiesto di partecipare a un’iniziativa interessante della Fondazione PeccioliPer, dal titolo Voci. Un progetto in comunione tra arte e scrittura, in cui a partire dai racconti di alcuni scrittori (tra cui Mauro Covacich, Laura Bosio, Maurizio De Giovanni), venivano progettate e abbinate dall’artista Vittorio Corsini delle installazioni destinate a luoghi significativi del paese di Peccioli, in Toscana, e del vicinato. A me, per esempio, è toccata una piccola, meravigliosa pieve medievale nella frazione di Fabbrica. L’installazione veniva poi completata dalla voce dello scrittore, o della scrittrice, con la lettura del racconto, in una sorta di audiolibro site specific. È stata un’esperienza molto bella, anche perché, inevitabilmente, la lettura – e quindi l’audiolibro stesso – porta la traccia del corpo, la fisicità della voce che l’ha inciso, in questo caso la mia. E proprio l’altro giorno, in taxi qui a Madrid, mi sono imbattuta in un tassista che ascoltava, in audiolibro e in spagnolo, Piccole donne. Non so se la somma di audiolibro + taxi contribuisca a una guida particolarmente sicura, ma è stato bello fare un pezzo di strada in compagnia di Jo.

Quando parli di comunità, credi che possa essere una realtà anche nella scrittura? Credi nei collettivi letterari e nella possibilità di scrivere insieme, oppure la scrittura – come spesso la lettura – è un atto che ci abbandona soli nel bosco?
Nello scrivere si è soli, sì. Ma nello stesso modo in cui lo si è quando si scrive una lettera, con un altro in mente. Non un altro che è qualcuno in concreto – a volte accade, certo – ma un altro che può riempirsi di moltissimi altri, nel presente e nelle epoche del futuro.

Nel bosco, con la lettera in tasca, o la mappa – che è sempre semicancellata, che non porta mai dove dovresti andare, e non ti hanno, comunque, insegnato a leggerla, forse non è possibile farlo, dovrai imparare da sola – ti accorgi, a poco a poco, che intorno a te ci sono tracce, brandelli di corteccia strappati, resti di fuochi, un lembo di stoffa rimasto impigliato sui rami di un albero, forse addirittura una fila di briciole o di sassi.

Ci rendiamo conto che qualcuno è stato lì prima di noi, forse molto tempo prima, forse invece si aggira ancora da qualche parte e tendiamo l’orecchio o lo appoggiamo a terra per capire dov’è, e se ci arriva il rumore dei suoi passi. Magari quel qualcuno ci raggiungerà, o lo raggiungeremo, e sarà amicizia o scontro. Quelle tracce possono essere involontarie, lasciate per caso, ma forse non è così, forse siamo stati pensati, forse – le tracce – sono destinate proprio a noi.

Questo pensiero ci colpisce, ci sembra magnifico e terrificante allo stesso tempo, e mentre quest’idea ci si apre in mente, prima quasi senza accorgercene ma poi, senza dubbio, con intenzione, anche noi ammassiamo un mucchietto di ciottoli, spegniamo il fuoco lasciando ben visibile un cerchio di ceneri a terra, ci tagliamo una ciocca di capelli e la annodiamo al ramo di un albero.

Consiglieresti ai nostri lettori una poesia da tenere in tasca come talismano?
Questi versi dai Sonetti a Orfeo di Rilke, nella traduzione di Alessandro Cecchi:

Sii oltre ogni addio, come se fosse già dietro
di te – come l’inverno che appunto se ne va.
Perché tra i tanti inverni c’è un inverno talmente infinito
che, se il tuo cuore lo sverna, allora sopporta ogni cosa.

 

 

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