L’origine del mondo: Vacanze di Natale, il primo cinepanettone

Tutto ebbe inizio con un plateau innevato e le note di Moonlight Shadow, nella versione originale di Mike Oldfield e Maggie Reilly: il cinepanettone nasce così, un po’ stropicciato dall’esigenza di sfornare la risposta natalizia a Sapore di Mare in tre sole settimane di riprese, sotto la direzione d’orchestra dei fratelli Vanzina.

Anni dopo, Christian De Sica avrebbe detto: «Drammaturgicamente i film di Natale sono un po’ il discount del cinema: ognuno di loro si può smontare, stroncare e rimontare con grande facilità. Sono film semplici, ma non disonesti.» Non disonesti, perché non artefatti, forse grossolani, ma fieri di esserlo. Una lettura satirica del Bel Paese, ha detto qualcuno, uno spreco di pellicola, ha detto qualcun altro, di sicuro un successo di pubblico, visto il riscontro al botteghino – almeno finché l’impalcatura del genere è rimasta in piedi: belle ragazze, comicità greve e attori-feticcio coi loro tormentoni.

Tutte le foto sono state riprese da Sorrisi e Canzoni

Vacanze di Natale uscì il 23 dicembre 1983, incassando circa 3 miliardi di lire a fronte del miliardo e mezzo di Sapore di Mare 2 – Un anno dopo, in contemporanea nelle sale, che i Vanzina avevano accantonato per cedere al corteggiamento della Filmauro.

La trama racconta gli intrecci vacanzieri di alcune maschere tipicamente italiane (milanesi snob, gente di borgata, magnifici cornuti) messe a reagire dentro lo stesso ambiente, in attesa di una reazione che stenterà ad arrivare. Un canovaccio ormai ritrito, che all’epoca però dovette innescare un corto circuito, perché andava a sublimare nella caricatura il fallimento della borghesia del Boom, dopo l’iniziale indignazione, dieci anni prima, del cinema di Gassmann e Tognazzi.

Un film corale, maschile senza essere maschilista, e anzi spietato nel mettere a nudo una certa (insopportabile) leggerezza, portata in scena dal Cesarino Tassoni di Roberto Della Casa o dal Donatone Braghetti di Guido Nicheli, il famigerato “Dogui” di tanto cinema nostrano. Ma sono tre le linee narrative principali, per altrettanti archetipi: il bamboccione viziato di Christian De Sica (che era già De Sica prima del sodalizio con Boldi), il romantico pischello di Claudio Amendola e il playboy impenitente di Jerry Calà, vera icona del libertinaggio postmoderno («Gli yuppies erano dei cazzoni» dirà «ma avevano tanta voglia di fare»).

Vacanze di Natale è forse l’ultima delle grandi commedie all’italiana prima dell’exploit della televisione commerciale, che pure fa capolino quando l’avvocato Covelli di Riccardo Garrone chiede alla domestica filippina di leggergli i programmi della sera. I fratelli Vanzina fanno un film alla vecchia maniera, un affresco vivace che rimodella il gusto nazional-popolare: come ai tempi di Steno, come nelle farse di Totò.

E non si può fare a meno di provare una certa malinconia, forse per i tempi andati, forse per le piccole meschinità di quell’Italietta di cui oggi, a ben vedere, restano le macerie. Niente produce un senso di immedesimazione come vedere le proprie passioni, o le proprie debolezze, riflesse sullo schermo: «Per i vent’anni organizzammo insieme al Fan Club una serata memorabile» ricorda Enrico Vanzina. «Arrivarono persone da tutta Italia, erano ingegneri, avvocati, professionisti di ogni genere che conoscevano il film a memoria e, come in un concerto di Vasco, citavano le battute all’unisono.»

Hanno ragione, i critici, quando rimproverano al genere la deriva demenziale, come testimonia il recentissimo Natale a 5 Stelle di Marco Risi; ma che cos’è un cult, se non la dimostrazione che una storia è poca cosa senza un pubblico che vi si riconosca?

Vacanze di Natale non è bello. Piace.

 

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