Esordire

di Emiliano Poddi

 

Esordire è un bellissimo verbo, oltre che una bellissima cosa in sé. Viene dal latino ex-ordire e letteralmente significa “iniziare a tessere”.

A me è capitato di esordire due volte, il che potrebbe sembrare una contraddizione in termini e invece, come spero di dimostrare, non lo è.

La prima volta è stata a Firenze, il 17 ottobre del 1993 – mi ricordo la data perché il giorno dopo avrei compiuto diciottanni. Ero il terzo playmaker della squadra di basket della mia città, Brindisi, che allepoca militava nel campionato di serie B. Il primo playmaker si era infortunato nel corso dellultimo allenamento, così per quella trasferta fui convocato io. Il secondo playmaker, che nelle intenzioni del coach avrebbe dovuto giocare tutta la partita, fece quattro falli dopo appena cinque minuti. Il coach – che per inciso era anche mio zio – si voltò sconsolato verso la panchina, mi guardò e disse: «Entra, va». Poi aggiunse: «E che Dio ce la mandi buona». Non esattamente il più grande incoraggiamento della storia.

Mentre mi toglievo la tuta pensavo a come avevo deciso di trascorrere la vigilia della gara. Dal momento che non ero mai stato a Firenze, al mattino mi ero svegliato molto presto ed ero andato agli Uffizi. Poi avevo visitato le Cappelle Medicee. Infine ero salito in cima al campanile di Giotto, rientrando in albergo appena in tempo per la riunione pre-partita. Insomma ero talmente sicuro di non giocare che ne avevo approfittato per fare il turista. E invece adesso ero lì sul cubo del cambio, accidenti a me, e intanto mi chiedevo quanto potessero incidere sulla mia tenuta atletica gli 828 gradini del campanile di Giotto, 414 a salire e 414 a scendere.

Ma sapete, non andò poi così male. Misi in ordine la squadra, chiamai gli schemi dattacco, segnai due bei canestri in penetrazione e in definitiva feci tutto quello che ci si aspetta da un play-maker, ossia fare gioco, disegnare passaggi, suggerire movimenti. In altre parole: iniziare a tessere, esordire.

La seconda volta è stata nel settembre del 2007. Nel frattempo mi ero rotto la cartilagine del ginocchio in un incidente di gioco e dopo quattro interventi chirurgici la cartilagine stava peggio di prima. Sentivo che una parte significativa della mia vita era finita per sempre – la parte più vitale, la più entusiasmante. Così avevo lasciato la mia squadra, la mia città e mi ero trasferito a Torino per frequentare la Holden. Terminata la scuola avevo scritto un romanzo, e il romanzo era piaciuto a una casa editrice, la Instar Libri. Parlava di un ragazzino che entrava in campo, metteva in ordine i compagni, chiamava gli schemi dattacco e faceva canestro.

Sarebbe stato un altro esordio, il secondo, quattordici anni e quattro operazioni dopo il primo. La prova che non era finito un bel niente, che anche quando qualcosa di molto prezioso si lacera, si slabbra e si sfilaccia – una cartilagine, per esempio –, cè sempre un modo di ripararlo, è sempre possibile scrivere, esordire, ricominciare a tessere.

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