Notes on the Met Gala – Il Camp tra cultura e couture

È passata una settimana dall’ultimo Met Gala e in molti, giustamente, ancora si chiedono quale fosse il tema. Il più mondano degli eventi newyorkesi, che dal 1948 raccoglie fondi per l’omonima fondazione, prevede infatti ogni anno un diverso dress code. A deciderlo è Anna Wintour, direttrice di Vogue America, che ha scelto di consacrare quest’edizione alla cosiddetta cultura “camp”.

Ma cosa indica in realtà questo termine? L’attuale definizione, redatta da Susan Sontag nella raccolta Against interpretation, risulta essere quantomai controversa e, appunto, di difficile interpretazione. La scrittrice canadese dedica all’argomento poche, e criptiche, note, nelle quali celebra l’“amore per tutto ciò che è innaturale: l’amore per l’artificiale o l’esagerato”. Secondo questa accezione, che è del resto assai vaga, camp diventa quasi un sinonimo di kitsch, parola ormai abusata ma che alla sua comparsa, nel saggio Avant-gard and kitsch di Clement Greenberg (1939), significava un manufatto di scarso valore artistico ma di larga diffusione: “le belle cose di pessimo gusto”, per dirla alla Gozzano.

Milan Kundera, nella sua opera più famosa, parla invece di “un mondo dove la merda è negata e tutti si comportano come se non esistesse”. Secondo questo ideale estetico, infatti, tutto ciò che è inaccettabile viene omesso, e proprio in questo consiste la maggiore differenza rispetto al camp. Camp sono, ad esempio, i film di John Waters (Pink flamingos, Hairspray, Polyestere) dove la merda non solo è esibita, ma addirittura mangiata. La provocazione rientra dunque tra le finalità di questo movimento, che vede tra i protagonisti anche molte icone dell’universo queer (si pensi a Divine o ad Amanda Lepore, muse, rispettivamente, del già citato regista e del fotografo David LaChapelle). Tutto ciò che è eccessivo viene dunque esaltato, in una maniera che potrebbe sembrare kitsch ma non lo è affatto. Il risultato è infatti simile ma diverse sono le premesse: al candore del kitsch, fatto di gattini di porcellana e centrini di pizzo, si contrappone la malizia tipica del trash, all’accondiscendenza il gusto per lo scandalo. Il camp, appropriandosi di elementi kitsch, attribuisce loro un valore politico che a questi manca. Si tratta insomma di una rivoluzione, tanto estetica quanto sociale.

Definito il tema, vediamo ora se gli abiti ne hanno colto l’essenza. Chiaro, anche se forse non troppo efficace, è il riferimento a Divine nell’abito di Donatella Versace. La stilista riesce però a riscattarsi vestendo Jennifer Lopez, che indossa una retina di cristalli che richiama la Julie Andrews di Victor Victoria. La pellicola di Blake Edwards, che già negli anni 80 giocava sull’ambiguità di genere, è presa a modello anche in altri capi: un accessorio simile è indossato sia da Aquaria (Maison Margiela) che da Celine Dion (Oscar de la Renta). E se il vestito della cantante canadese somiglia a un candelabro, quella di Katy Perry (Moschino) lo è davvero. Certo si tratta di un look pacchiano ma, proprio per questo, in linea con quanto richiesto: i lavori di Jeremy Scott sono infatti dei veri e propri ready made, ed è difficile pensare a un artista più camp di Marcel Duchamp. Un candelabro, così come un hamburger, sono oggetti di per sé kitsch, ma vederli indossati li rende ancora più eccentrici e perturbanti. Li rende camp. La stessa cosa si può dire dell’abito di Violet Chachki, sempre firmato Moschino, che si conclude in un elegante strascico a forma di guanto. Farle indossare un corsetto sarebbe stato banale, dato che questa drag ne ha fatto il suo accessorio feticcio, ma modellare su di lei un guanto si rivela invece un’idea geniale: l’arte del burlesque è qui ridotta al suo emblema, di cui si mantiene la forma pur cambiandone funzione e proporzioni. Dadaista è anche il look di Janelle Monáe, disegnato da Christian Siriano, che ne distorce la silhouette e vi applica due occhi altrettanto sproporzionati. Dello stesso stilista è l’abito indossato da Michael Urie, che non solo ripropone l’androginia di Victor Victoria ma, addirittura, arriva ad invertirla: l’uomo è infatti truccato, mentre è la donna ad avere la barba.

Per la prima volta, finalmente, è la moda maschile a sorprendere. Billy Porter, che già agli Oscar si era distinto per il suo tuxedo tutt’altro che convenzionale, inaugura il Met Gala con un’entrata degna di Cleopatra, mentre Ezra Miller, dopo aver posato per Playboy con tanto di tacchi e cerchietto, calca ora il red carpet in un magnifico completo di Burberry. Riccardo Tisci, da poco subentrato alla direzione della maison, vi apporta il suo talento e si dimostra, ancora una volta, capace di attenersi al classico pur continuando a sperimentare. Il suo è infatti l’outift più riuscito dell’intera serata: divertente senza essere grottesco, sobrio ma stravagante. Gli occhi, che Siriano ha trasposto in chiave pop, tornano qui ad ornare il viso, trasformandolo in quello di un aracnide senza però deturparne la bellezza. Invece poi di riprodurre la testa stessa del modello, come ha fatto Alessandro Michele con Jared Leto, Tisci si limita a fornirlo di una maschera, accessoria come lo è il corsetto di cristalli. Tutto in questo look non è altro che pura finzione, a partire dal genere a cui lo si vuole associare.

E, parlando di generi, è doveroso fare alcune precisazioni. Il camp, anche in questo articolo, è stato spesso associato alla cultura queer, di cui in effetti rappresenta una componente significativa. L’immaginario LGBT si nutre infatti di riferimenti camp, siano essi Amanda Lear o Carmen Miranda, ma è parimenti importante che questa sorta di iconografia non si riduca a stereotipo. Quelli che criticano RuPaul per non essersi presentato in drag dimostrano, prima di tutto, di non saperne apprezzare l’audacia. Camp significa anche evitare la scelta più ovvia, e un completo zebrato fucsia forse lo è meno di una delle sue tante parrucche. Meglio, insomma, lasciare che sia Harry Styles ad optare per un look più femminile.

Non dimentichiamo poi che molti dei vestiti proposti sul red carpet richiamano, più o meno indirettamente, alcuni look già apparsi sulla runway di RuPaul Drag Race (si vedano, tra le altre, le creazioni di Bebe Zahara Benet, Moniquet Heart o della stessa Chachki). In quanto fenomeno legato anche al post-moderno, è giusto che nel camp ci si rifaccia a modelli iconici: così ha fatto Tom Ford nel realizzare il copricapo di Gemma Chan, ispirato a un modello indossato da Elizabeth Taylor. È altrettanto giusto, però, che chi si veste da donna le ispiri a sua volta. Questo, in definitiva, è quanto successo quest’anno al Met Gala.

Ed è anche il motivo per cui può dirsi camp.

Photocredits: www.vanityfair.com; www.iodonna.it; www.teenvogue.com; www.gq-magazine.co.uk; edition.cnn.com; www.vogue.com.au

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