Le metamorfosi mancate

di Enrico Nottoli                                                                                                                                                                     foto di Sudlice

 

Era un ponte teso fra lo scarafaggio e una Divinità assente.
Aveva pregato con l’anima e il sangue raggrumato di rivederla, soltanto una volta, ti prego. Non avrebbe chiesto altro, e si sarebbe accontentato di una vita di cappuccini alle otto la mattina, delle stesse facce mascherate a nozze infernali, le trite filosofie di non-vita, gli stessi Gesù Cristi ipocriti, le paranoie, noie, telegiornali sputa odio. Avrebbe accettato la morte ticchettante, se l’avesse potuta rivedere. Ché non l’amava, no, porca puttana, ma almeno una volta, Dio, una volta, per non doversi pentire di aver rinunciato alla sola cosa reale, se il mondo era tale.
Non la vedeva da mesi. Mesi! Erano ere, eoni, cicli cosmici. Erano attimi, pure peggio. E si ritrovava in una dimensione illusoria, sospeso a metà, incerto e incapace di vivere o morire per bene, ma restando lì, fermo, come una nebbia padana, come un cancro al polmone. La odiava con tutto il cuore, non poteva più dire che era amore, eppure la pensava giorno dopo giorno, affidandosi al successivo per dimenticarla. Ma domani lei ancora lì, come ieri. E quando la frenesia non lo spingeva a danzare sulle montagne, sirtaki euforici sotto il cielo stellato di una solitudine inattesa, o quando la noia letale non lo inchiodava alla croce del suo divano, fisso come un moscerino oltre il buio di schermi accesi alla tv, ecco che si ritrovava con se stesso, e con lui c’era sempre anche lei, la sua amata tenebra: samSara.

Un poeta gli aveva urlato dal passato: brucia ogni sua traccia! E lui, che non desiderava che incendiarsi, una mattina chiara e piena di neve, con un sole beffardo e alto in cima alla sua testa d’inverno, partì per dar fuoco ai loro ritratti. Le foto. I sorrisi mal spesi. I ricordi. Il tempo come una giostra arrugginita di cavalli senza morsi. O tre galline bianche su un container, le parche. E aveva ficcato in borsa la diavolina, il diavolo e la sua rabbia viscerale, che tremava e mandava lugubri lamenti dal suo stomaco, che parevano urlare: Non farlo! Ma ormai era deciso. L’ira lo conduceva verso un caminetto di pietre circolari, calcaree, grigie, impilate proprio da lui con samSara, per una certa spensierata grigliata estiva insieme, anni fa, quando poi avevano dormito in tenda fra le ginestre, i ginepri e un frinire eterno di cicale alla penombra lunare. E adesso, solo, col suo ghiaccio e i suoi cocci e il rimorso, si gettava su per sentieri scoscesi. Legna secca sotto braccio, paranoie nel cervello a ripetere: ma stai su, lo sai che è un budello! Il solo pensiero nell’arco di quella mattinata splendente. La neve a specchiarsi nel sole.
Dopo aver preparato il fuoco e averci buttato un collage di foto regalato per un qualche anniversario e un trittico di baci su una spiaggia, che parevano due vecchi bambini, rimase deluso. Aveva sperato di provare piacere nel vedere bruciare quella faccia di merda, con quei suoi occhioni verdi, brutta troia, perché?, e le sue labbra rosee, adesso cenere, la loro cenere, polvere a cui non chiedere. E invece, ciò che era rimasto di tutti quegli anni, era il fumo che lo intossicava e oscurava il sole, e puzzo di polistirolo, e i loro teneri volti di carta plastificata che si sgretolavano e staccavano in piccoli pezzi di un puzzle sottile, tipo vento a trascinarli lontano. E quella rabbia ritta, come lui, di fronte ai tizzoni anneriti dentro al cerchio.
Ma il momento peggiore arrivò dopo il calare del sole.

Per non restare col suo cranio, andò in un Luogo del Cranio come un altro nel quale crocifiggersi: la squallida birreria poco lontano da casa. E ancora a maledire Ovidio e i suoi cazzo di consigli sull’amore, che non funzionavano, no, anche perché lui non l’amava mica, certo che no! Era riuscito ad andare avanti, come lei del resto, conoscere altre persone, ridere in compagnia, che la vita è bella, una favola, e poi farsi un bel viaggio e innamorarsi di nuovo, magari. Stronzate! E da solo si stava distruggendo il fegato e l’anima a suon di Disaronno, seduto in un angolo appartato di questo pub squallido, con una serie di bandiere appese alla parete e una band più sciapa delle birre annacquate tutte intorno. E la gente che rideva, rideva, capito? Come se non si accorgessero della Belva Mortale aggrappata sulle loro teste di cazzo. Ma continuavano a fare finta di nulla e sghignazzare come cani venuti dal Tartaro, a mostrare le loro zanne zeppe di tartaro, ché non erano risate, quelle, erano coltellate alla vita, alla sincerità, rinchiusi tutti nello sgabuzzino pietoso di se stessi, senza nulla da dire, senza nulla da sperare, o credere. Come lui. Lì, ancora, perso nella sua samSara, a sforzarsi di non scoppiare in lacrime davanti a tutti, non urlare o tagliarsi le vene coi vetri rotti dei suoi rimpianti. E fu lì, in quell’istante di disperazione, che si fissò sulle luci intermittenti di un albero di natale di plastica. Si accendevano. Si spegnevano. Per un momento gli era parso di vedere il volto di lei fra quelle lucette a scatti, bello come un angelo, così chiaro. Sarà stata la sbronza, ma a una certa un’energia gli scoppiò dietro le scapole e sembrava, giuro, che gli stessero nascendo due ali di fuoco lieve e tiepido. E un sussurro si insinuò fra le gambe della gente, la chitarra elettrica stridente, i dialoghi monotoni, un sussurro sottile, da quell’albero finto dove c’era la sua essenza, come in Tutto, il riflesso di un amore stuprato e stracciato e strappato precoce come un feto buttato sulla neve, un sussurro che diceva: Addio, mia metà … E le ali crescevano, enormi, sì, stava per spiccare il volo e non tornare mai più, stava per abbandonare il lavoro, i dubbi, l’A1, i semafori, i sogni, il tempo, loro due, se stesso, la Vacuità, il surrealismo, un piccione a mandare il collo lungo i binari della stazione. Ma era il secolo della distruzione, quello, e le sue ali vennero stracciate dalla realtà, quando un ubriacone, brutto, gli si era avvicinato e fra sputacchi: “Un è mia che ce l’hai un cicchino?” aveva detto.
Puzzava. “No.”

Uscì fuori e iniziò a correre. Via. Senza più ali, strisciando, sgottando i Disaronno trincati a morte. Finché non si ritrovò appoggiato al corrimano di un ponte. Sotto scorreva l’acqua, e c’erano delle anatre a nuotarci tranquille. Tentava di respirare, ma sembrava impossibile. Aveva bisogno di aria. Aria! Poi per istinto si era voltato verso la strada, chissà perché. Il buio trafitto dai lampioni arancioni, come selve dei suicidi a cui impiccare aspirazioni o perduti amori. Ed ecco che vide passare una Panda scura come quella di samSara, e allora si era ricordato della sua preghiera. La macchina si avvicinava piano e lui a cercare di penetrare la penombra oltre il parabrezza. Fu un attimo: i loro volti uno verso l’altra. Ma non riuscì a vedere niente di lei, solo il contorno buio del viso, annerito, bruciato, eppure inconfondibile. Solo una piccola brace accesa fra labbra invisibili: era un tiro di sigaretta. E poi, ancora più lentamente, la Panda ha continuato ad andare avanti. E lui lì in piedi, immobile, in mezzo a questo dannato ponte, il gelo fin dentro le ossa. La preghiera di un demone. Dietro, le luci rosse dei freni. Fermati, scendi e voliamo verso il primo letto, amor mio! Ma l’auto era già svoltata dietro una curva. Il fantasma: passato. A lui era rimasto un tremore nelle gambe e un verso di Dante, quando Beatrice si svela in purgatorio:
OH ISPLENDOR DI VIVA LUCE ETERNA
Dice un’alba intramontabile.
E invece per lui, oggi, quel buio, e decadenza, il profilo tetro della faccia. L’unica luce i cinque minuti di una brace, fonte di giovinezza tumorale. E lui solo. Sempre.
Forse, avesse avuto più ironia, non l’avrebbe fatto. Ma lei non era scesa, e quella era l’ultima volta che si sarebbero mai visti in vita, lui e samSara.
Poco prima aveva avuto su un paio d’ali, ora galleggiava sull’acqua fredda, sotto il ponte verso il superuomo. Mentre uno stormo di germani, e non anatre, si era levato in volo gridando disperatamente:
Qua! Qua!

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