Nella buia torre

di Francesco Tarud Zaror
immagine di Sebastian Tarud Bettini

«Dici che è finita?»
«Non saprei.»
«Ormai sono passati diversi minuti, io penso che…»
«Sssh!»
«Hai sentito qualc-»
«Silenzio!»
Entrambi trattennero il respiro, cercando di cogliere qualche suono che fornisse anche solo un piccolo indizio, ma il silenzio fu l’unica risposta.
«Hai sentito?»
«Cosa?»
«Mi è sembrato…»
«Cosa?»
«No, niente.»
«È troppo silenzioso.»
«Forse è davvero finita.»
Ma a quelle parole, la terra cominciò a tremare di nuovo, mentre un boato vibrò fin dentro le mura, fino alle ossa. Le urla di spavento e di terrore vennero sommerse da quel suono così angosciante.
«Non è finito niente, dannazione!» imprecò, non appena fu possibile riprendere la conversazione.
«Quanto tempo è passato dall’ultima scossa?»
«Non lo so, ho perso il conto. Di sicuro più dell’ultima volta.»
«Credo di aver contato almeno oltre trecento.»
«Io mi sono interrotto a duecentosessantotto.»
«Dove sei?»
«Sono sempre qui. Allunga la mano.»
«Dove? Non riesco a trovarti.»
«Segui la mia voce, dai.»
«Oh, eccoti. Aspetta che mi alzo e provo a sgranchirmi le gambe. Non lasciarmi la mano.»
«Buona idea, mi alzo anche io.»
Le gambe erano doloranti. Forse era la paura, forse la posizione. Sicuramente la tensione.
«Deve essersi addormentato un piede, non lo sento più.»
«Scuotilo, muovilo, finché non torna la sensibilità.»
«Lo so, non è la prima volta che mi succede.»
«Scusami, cercavo solo di darti un consiglio.»
Mossero alcuni passi, cauti, lenti, incerti.
«Quanto vorrei rivedere la luce.»
«Da quant’è che siamo qui?»
«Non saprei. Ormai è quasi una settimana.»
«Solo? Credevo fossero quasi due.»
«Dipende da quando inizi a contare. I primi giorni c’era ancora la luce, ricordi?»
«Sì, hai ragione.»
«Poi poco alla volta si è affievolita, fino a spegnersi del tutto.»
«È fin troppo facile perdere il senso del tempo.»
«E dello spazio. Non so tu, ma non ricordo più quanto è grande la stanza.»
La terra tremò di nuovo e per una decina di secondi, entrambi trattennero il respiro. Al termine, iniziarono a tossire.
«Speriamo non ci crolli in testa il tetto. A ogni scossa sembra caderci addosso sempre più polvere o intonaco o qualsiasi cosa sia!»
«Non ci voglio davvero pensare.»
«Sai, a voler essere sinceri, ci sono momenti in cui vorrei…»
«Ti prego, non dirlo.»
«Però l’avrai pensato anche tu.»
«Sì, certo che l’ho pensato, ma no, ti prego, ti scongiuro, non dirlo. Semplicemente non esprimere a parole questo pensiero.»
«Di cosa hai paura?»
«Lo renderesti ancora più reale.»
«Ma lo è già, non capisci?»
«Sì, è vero, ma…»
«Cosa?»
«Senti, ho paura, ok? Non voglio anche iniziare a parlare di… di quello.»
Il modo in cui aveva calcato “quello” li fece rabbrividire.
«D’accordo, scusami. Forse hai ragione tu.»
«Grazie.»
«Comunque mi è tornata la sensibilità al piede.»
«Meno male.»
«E ora comincio ad avere un po’ di fame. Cosa c’è rimasto?»
«Poco, davvero poco.»
«Dammi qualcosa.»
«Non è presto?»
«Presto?»
«Sì, insomma… è vero che non sappiamo che ora sia, ma non ti sembra che sia passato poco dall’ultimo pasto?»
«Poco, tanto? Ormai cosa importa?»
«Il fatto è che vorrei cercare di mantenere ancora delle abitudini.»
«Abitudini? Sul serio? Qui, al buio, mentre…»
L’ennesima scossa li prese alla sprovvista, facendo perdere loro l’equilibrio.
«Che male!»
«Stai bene?»
«No, che non sto bene! Devo essermi anche graffiato.»
«Dove?»
«Cadendo ho appoggiato la mano e sono scivolato sul terreno e ora brucia.»
«Posso… posso fare qualcosa?»
«Cosa? Darmi un bacino dicendomi che passerà? Per favore, comportati da adulto.»
«Cercavo solo di essere d’aiuto.»
«Sì, sì, ok.»
«Senti, anche io sono nervoso. Ma cerchiamo di non sfogarci l’uno sull’altro.»
«Va bene, va bene. Scusa.»
«E ora puoi darmi qualcosa da mangiare?»
«D’accordo.»
«Puoi non sospirare?»
«Posso almeno respirare? O anche per questo ti devo chiedere il permesso?»
«Non devi chiedermi il permesso!»
«Com’è magnanimo!»
«La smetti di prendermi in giro?»
«Oh, mi scusi sua maestà!»
«Basta, smettila!»
«Come desidera!»
«Basta!»
«Ma certo, ora la-»
Si zittì mentre qualcosa gli sfiorò il viso.
«Ma sei scemo?»
«Cosa?»
«Hai provato a colpirmi!»
«No, non è vero.»
«Ti ho sentito. Mi hai pure sfiorato.»
«Ti sbagli, te lo sarai immaginato.»
«Non mi sono immaginato niente. Potevi colpirmi e farmi male davvero!»
«Forse a quel punto avresti smesso di prendermi in giro, non credi?»
«Dove sei? Se ti prendo, ti tiro io un pugno!»
Mentre uno si allungava per cercare l’altro e il possibile bersaglio strisciava indietro, una nuova scossa li interruppe.
«Pensi che finiranno mai?»
«Dopo tutti questi giorni? No, ormai ho perso la speranza.»
Cadde un silenzio pesante. Anche solo respirare divenne faticoso.
«Per poco fa…»
«Lascia stare.»
«Scusami.»
«Ti ho detto di lasciar stare.»
«Ok.»
«Tieni.»
«Cos’è?»
«Non avevi fame?»
«Sì.»
«Ecco la tua parte.»
«Grazie.»
Per alcuni secondi l’unico suono fu quello della sua bocca che masticava.
«Anche se so che sto mangiando del pane, non vederlo gli toglie ogni sapore.»
«Capisco. E non oso immaginare in che condizioni sia.»
«Raffermo» biascicò, mentre metteva in bocca un altro pezzo.
«Speriamo solo quello.»
I due restarono in silenzio, ad aspettare. Venne una nuova scossa e dopo un po’ un’altra ancora. E così via, a intervalli quasi regolari. Nessuna parola gli dava conforto, nemmeno la compagnia o quei pochi morsi a un pezzo di pane raffermo.
Stavano semplicemente lì, immobili. Aspettavano la fine.
Dopo quelle che potevano essere ore – o anche minuti – uno dei due spezzò nuovamente il silenzio.
«Dici che finirà?»
«Certo.»
«Come fai a esserne così sicuro?»
«Tutto prima o poi deve finire, non credi?»
«E se fossimo all’inferno? Non sarebbe eterno?»
«E quando saremmo morti?»
«Forse avviene tutto così, in un momento di cui non ti accorgi nemmeno. Prima sei lì e un attimo dopo sei dall’altra parte.»
«Non potrei crederci. E poi non credo sia così.»
«E com’è per te?»
«Hai mai visto qualcuno morire?»
«No, perché?»
«Potrà anche esserci un momento in cui sei vivo e un momento successivo in cui sei morto, ma la morte non è questione di attimi. È più un processo, è qualcosa di lento, graduale. È un abbandonarsi. C’è rassegnazione, tristezza, rabbia… ci può essere di tutto!»
«E in un incidente?»
«Quella è una disgrazia, e magari nemmeno te ne accorgi di morire. Ma noi abbiamo forse avuto un incidente?»
«Magari non ce ne ricordiamo e siamo passati direttamente dall’altra parte.»
«Ok, d’accordo, tieniti la tua triste teoria! Io, comunque, penso di essere ancora vivo.»
«Credo anche io» disse l’altro timidamente.
«Guarda che non devi compiacermi.»
«Lo so, lo so. È solo che mi sembra di sentire ancora qualcosa. E poi…»
«Cosa?»
«Per quanto folle, credo ancora di sperare che tutto questo finisca.»
«La speranza è l’ultima a morire, giusto?»
«Così dicono.»
«C’è una cosa, però, che non ho mai capito.»
«Cioè?»
«Hai presente s. Paolo che dice che la fede è il fondamento delle cose che si sperano? Ecco, se è così la speranza viene dopo la fede, giusto?»
«Direi di sì, perché?»
«Ecco, se smetti di sperare è perché hai smesso di credere o smetti di credere perché hai smesso di sperare?»
«Che differenza fa?»
«Non lo so… però nel secondo caso sarebbe la fede l’ultima a morire, no?»
«Mi sembra come se stessi chiedendo se è nato prima l’uovo o la gallina. Ha davvero importanza?»
«Hai ragione, forse non ne ha.»
«Se non fa differenza, comunque, vuol dire che fede e speranza sono così strettamente legate fra loro che si alimenteranno a vicenda, no? Per cui se io ancora spero di uscire, vuol dire che credo che sia possibile.»
«Sì, ma questo come ci aiuta?»
«Non saprei. Ma…»
«Ma?»
«Ma potrebbe essere un punto di partenza per farsi venire qualche idea? Per agire?»
«Ti vorrei tanto dare ragione, ma ci abbiamo già provato. Abbiamo camminato in avanti fino alle pareti e non ci sono porte, scale, finestre o uscite. Cos’altro dovremmo fare?»
«Non sto dicendo che ho nuove idee, sto solo dicendo che se credo e spero, allora non mi sono arreso. E se non mi sono arreso, allora credo proprio di essere davvero vivo.»
«Vista la situazione, non mi sembra una gran consolazione.»
«Almeno finché so di essere vivo, posso ancora scegliere ed essere libero, non credi?»
«Libero? Qui, al buio, rinchiuso in questo… questa… qualsiasi cosa sia questo posto!»
Una nuova scossa, più violenta del solito, li fece zittire. Istintivamente, avvertendo il maggiore pericolo, si cercarono a vicenda nell’oscurità, fino a stringersi le mani.
Le vibrazioni durarono più a lungo del solito, finché, d’improvviso, il rumore di qualcosa che si spezzava giunse alle loro spalle, ponendo fine alla scossa.
Appena riaprirono gli occhi – chiusi per il terrore – realizzarono quanto era appena accaduto. Entrambi pensarono a una sorta di allucinazione o di essersi ulteriormente abituati al buio – come se avessero subito una sorta di evoluzione. Ma la verità era lì, alle loro spalle: una crepa, larga non più di cinque centimetri, si era aperta nel muro, lasciando filtrare un timido raggio di luce.
«Guarda!»
«La vedi anche tu?»
«Sì, certo. È una crepa. E…»
«E della luce!»
Il più in fretta possibile si alzarono sulle gambe doloranti. Corsero goffamente fino alla crepa, litigandosi quei pochi centimetri.
«Fammi guardare!»
«No, fammi guardare tu!»
«Sono arrivato prima io.»
«Siamo arrivati insieme.»
«Senti, facciamo a turno. Comincio io.»
«Perché proprio tu?»
«Perché… perché ho proposto l’idea.»
«È uno dei motivi più stupidi che abbia mai sentito.»
«Hai una proposta migliore?»
«Tiriamo a sorte.»
«Per favore!»
«Hai paura di perdere?»
«No, non è quello. È solo che voglio guardare fuori e continuiamo a perdere tempo.»
«Quindi?»
«Quindi guarda tu per primo e non discutiamo ancora.»
«Ok, ma se vuoi guardare tu per primo…»
«Senti, non fare il compiacente. Ringrazia e guarda. Così poi posso dare un’occhiata anche io.»
In silenzio, il primo dei due appoggiò un occhio a quella crepa. La luce diretta lo abbagliò, costringendolo a sbattere ripetutamente le palpebre. Lentamente, mise a fuoco qualcosa.
«C’è qualcosa.»
«Cioè?»
«Credo sia…»
«Sì?»
«No, non so. Guardaci anche tu.»
Il secondo si avvicinò, e come l’altro, dopo essersi abituato, focalizzò quanto stava vedendo.
«Sembra un fiore.»
«Allora ho visto bene.»
«Che fiore è, secondo te?»
«Non ne ho idea.»
«Peccato.»
«Cosa cambierebbe, comunque?»
«Non so, ma non ti farebbe piacere saperlo?»
«Può darsi. Ma questo comunque non ci aiuta. Dobbiamo invece concentrarci sulla crepa. Come possiamo allargarla?»
«Allargarla? Sei matto?»
«Matto? Non vuoi forse uscire?»
«Certo che voglio uscire, ma non credi che allargare la crepa rischi di farci crollare tutto addosso?»
L’altro restò in silenzio.
«L’ideale sarebbe fare un buco, creando un passaggio, ma senza aumentare troppo la crepa.»
«Ok, e come pensi di fare?»
«Non ne ho idea!»
«Ottimo! Allora siamo punto e a capo.»
«Temo di sì.»
Si sedettero entrambi, schiena contro il muro, uno da un lato della crepa e uno dall’altro. Passarono diverse scosse, prima che uno dei due ricominciasse a parlare.
«Non è assurdo pensare che un muro ci separi dall’esterno? Un muro che per quanto spesso sarà comunque sottile a confronto con quello che c’è fuori.»
«Eppure questo muro ci impedisce tutto.»
«Quand’è che un muro passa dalla protezione alla reclusione?»
«Quando toglie comunicazione?»
«Aspetta, cos’hai detto?»
«Ho detto quando toglie comunicazione. Quando preclude la possibilità di…»
«Sì, sì, ho capito cosa intendi. Ma non ti rendi conto?»
«Cosa?»
«C’è una crepa!»
«Sì, lo so. E quindi?»
«C’è un’apertura!»
«Ok, l’ho vista. Ma continuo a non capire dove vuoi arrivare.»
«Ma non ci arrivi? Possiamo comunicare!»
«E come?»
«Non lo so, ma questa crepa apre un canale. Non siamo più completamente reclusi.»
«Credo di capire cosa intendi, ma la situazione è un’altra. C’è un passaggio così piccolo che non ci permette comunque di comunicare con nessuno.»
«E chi l’ha detto? Noi vediamo a malapena pochi centimetri dell’esterno, cosa ne sappiamo di quanto è fuori dalla nostra vista?»
«D’accordo, accettiamo un momento la tua idea. Cosa proponi di fare?»
«Intanto possiamo provare a urlare. Il suono, ora potrebbe raggiungere qualcuno, non credi?»
Sospirò.
«Va bene, proviamoci. Anche se non ci credo molto.»
Si avvicinarono alla crepa e insieme chiamarono aiuto, con quanto fiato avevano in corpo.
«Niente.»
«Magari…»
«No, ti prego, niente false speranze. Non è successo niente.»
«Ok.»
«Senti, io sono stanco, provo a dormire un po’.»
«Va bene. Io resto ancora un po’ sveglio.»
Le ore passarono lente, monotone. La luce andava e veniva al passare di qualche nuvola, fino a che, molte scosse dopo, non arrivò il tramonto.
Entrambi dormirono a tratti, mangiarono qualche pezzo di pane e scambiarono qualche parola.
«Che bel tramonto.»
«Vorrei vederlo.»
«Vieni, ti faccio spazio.»
«No, non importa.»
«Sicuro? Fai ancora in tempo.»
«No, grazie.»
«Ehi, tutto bene?»
«Sono stanco.»
«Non hai dormito?»
«Sì, un po’ sì. Ma sono stanco.»
Il modo in cui calcò quell’ultima parola, mise in allarme l’altro.
«Cosa stai dicendo?»
«Io non credo di avere più le forze. La voglia, l’energia.»
«Non ti starai arrendendo?»
«Credo di essermi già arreso.»
«Non puoi! Cosa vorresti fare, startene lì, sdraiato ad aspettare?»
«È comunque una prospettiva più dolce e rassicurante. Almeno so cosa mi aspetta.»
«Ti prego, non puoi fare così. Come… come farò io?»
«Te la caverai.»
«Me la caverò? Ma cosa dici!»
«Lasciami dormire.»
«No, no, non fare così. Alzati.»
Tentò di afferrarlo e sollevarlo, ma era come un peso morto. Mugugnò qualcosa, ma senza davvero lamentarsi.
«Mangia qualcosa, così recuperi un po’ di forze.»
«Non c’è più pane.»
«Cosa?»
«Non volevo dirtelo, scusami.»
«Allora a maggior ragione dobbiamo cercare di uscire!»
«È finita.»
«Non può essere finita, ti prego!»
«Stai piangendo?»
«Certo che piango! Ho paura e non voglio perderti.»
«Sai, ci sono momenti qui dentro in cui ho odiato con tutto me stesso. A volte pensavo di odiare te, a volte me, a volte il mondo, altre Dio. Ma sai una cosa?»
«Cosa?»
«Avevo solo paura e non volevo accettarlo. E questo mi ha dato un’angoscia infinita.»
«Anche io ho paura, è normale, è…»
«Ti prego, lasciami andare. Ormai sono solo un peso.»
«Non voglio.»
«Scusami per come ti ho trattato.»
«Avrai tempo di scusarti quando usciremo.»
«Mi puoi perdonare per averti detto brutte cose?»
«Certo, certo, ma non ti addormentare.»
«Ho tanto sonno…»
«No, resta con me, stai sveglio! Parlami!»
«Ti voglio bene…»
«No, no, no…»
Una scossa come mai prima, violenta e brutale, fece tremare ogni cosa. Numerose crepe si aprirono sulle pareti, finché una parte del soffitto non crollò. Le macerie si accumularono al centro della stanza, sollevando un polverone che li fece tossire.
L’area fu inondata di luce. Ma in pochi secondi tutto fu di nuovo nero, al suono del crollo del resto del tetto.


La primavera era iniziata da pochi giorni e già i prati erano ricoperti di un manto fiorito. La brezza, ancora fresca, mitigava i raggi del sole, già proiettati verso l’estate.
Una bimba correva, inseguendo una piccola palla gialla: la sua piccola stella.
«Aspettami!» la chiamò l’uomo alle sue spalle.
«Dai, nonno, sbrigati!»
Di colpo, mentre avanzava, la piccola inciampò, ruzzolando a terra.
«Viola! Ti sei fatta male?»
La bimba continuò a piangere, finché il nonno non fu accanto a lei.
«Cos’è successo?» domandò con sincero affetto.
«Sono… sono caduta!» si lamentò.
«Ti fa male da qualche parte?»
«Qui» disse la bambina, indicando il piede.
«La caviglia?»
«No, qui.»
«Il piede?»
«Sì.»
«In che punto?»
«Davanti» rispose la bimba, che tra i singhiozzi non riusciva a dire più di una parola per volta.
«Le dita?»
«Sì.»
«Sei inciampata contro qualcosa?»
«Sì.»
L’uomo si guardò attorno. Solo in quel momento notò qualcosa. Inizialmente pensò ad un sasso o una qualche strana pietra. Ma quello che trovò erano delle rovine.
La bimba, intanto, non ricevendo attenzione e incuriosita da quello che stava guardando il nonno, si era avvicinata a osservare.
«Cos’è?» chiese, senza nemmeno accorgersi di aver smesso di piangere.
«Sono delle rovine.»
«Cioè?»
«Qui una volta c’era una costruzione, un edificio.»
«E ora?»
«Ora non c’è più. Sai, qui, tanti anni fa c’erano delle case.»
«E perché non ci sono più.»
«Perché c’è stata una guerra. E la guerra, che è tanto brutta, ha distrutto tante cose.»
«E perché?»
«Perché in guerra le persone combattono fra di loro.»
«Come Luca e il suo amico?»
«Non proprio. Tuo fratello e il suo amico fanno finta, giocano. In realtà si vogliono bene e sono amici. In guerra, invece, le persone non si vogliono bene. E cercano di farsi male.»
«È brutta!»
«Sì, lo è. E il problema è che in guerra si usano delle armi che distruggono tante cose. E purtroppo colpiscono anche chi della guerra non vorrebbe saperne niente.»
«Io non voglio la guerra.»
Il nonno la accarezzò, sorridendole, senza avere il coraggio di rivelarle che di guerre ce n’erano ancora e che per come andava il mondo, nessuno avrebbe potuto escludere la possibilità di trovarsi un giorno coinvolti in un nuovo conflitto.
«E chi abitava in queste case?» domandò la bimba.
«I più fortunati hanno dovuto cambiare casa.»
«E i più sfortunati?»
«Non avevano più bisogno di una casa.»
«Non capisco.»
«Si racconta una storia di una di queste case. Vuoi che te la racconti?»
«Sì, sì! C’è una principessa?»
«Quella è arrivata dopo.»
«E come si chiama?»
«Adele.»
«Come la nonna!»
«Proprio come lei.»
«E cosa faceva?»
«Calma, calma. Questa storia parte dal principe, rinchiuso in una torre.»
«Il principe? Ma non è così nonno! È la principessa a essere chiusa nella torre!»
«No, no, in questa storia è il principe a essere nella torre. Rinchiuso lì senza possibilità di uscire, intrappolato al buio, per tanto tanto tempo!»
«E come faceva?»
«Devi sapere che il principe non era da solo. Con lui c’era suo fratello.»
«Almeno potevano giocare!»
«Sì, si tenevano compagnia, anche se chi li aveva rinchiusi lì, aveva anche lanciato una magia.»
«Quale magia?»
«Nel buio, non vedendosi, i due fratelli era come se non si riconoscessero più. Litigavano, discutevano. A volte rischiarono anche di picchiarsi!»
«E chi aveva lanciato la magia?»
«Una strega cattiva.»
«E come si chiamava?»
«Guerra.»
«Ma nonno, la guerra non è una strega!»
«E invece ti dico di sì, ed è molto molto cattiva.»
«Ma il principe come ha fatto a uscire?»
«I giorni passarono e i due fratelli pensavano ormai di non farcela. Finché, un giorno, non si aprì una crepa nel muro. E dopo un po’, un’altra e un’altra ancora.»
«Così uscirono?»
«Non esattamente. Le crepe fecero crollare il tetto.»
«E il principe come ha fatto?»
«Devi sapere che il fratello in quel momento dormiva, a causa di un sortilegio. Rischiava di non svegliarsi più.»
«Era stata la strega?»
«Esatto.»
«E il principe l’ha salvato?»
«Sì, quando il tetto è crollato, il principe ha difeso con lo scudo il fratello.»
«E a quel punto è arrivata la principessa?»
«Non proprio.»
«Dai, nonno, racconta!»
«Il principe prese il fratello e lo portò via da lì. Finalmente erano liberi.»
«E la principessa?»
«La principessa aveva atteso il loro ritorno e quando li vide tornare fu piena di gioia.»
«E si sposarono e vissero per sempre felici e contenti?»
«Sì, per sempre.»
«E come si chiamava il principe?»
«Gualtiero.»
«Che brutto nome, nonno!»
«Ma era il suo nome.»
«E poi, scusa, se la principessa si chiamava come la nonna, allora il principe si doveva chiamare come te.»
«No, no, io non sono certo un principe!»
Il nonno e la nipote si avviarono verso casa, ridendo e scherzando. Alle loro spalle, poco oltre le macerie, nascosta dai fiori, una piccola lapide riportava un nome e un epitaffio:

Gualtiero
1924-1945
“Ha dato la vita nel buio della guerra: per sempre sarai nostra luce.”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.