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Disegni nell’aria

di Anna Maniscalco

È comparso alla terza settimana in cui non uscivo di casa. Immaginavo che a un certo punto sarebbe successo, dopotutto gli avevo chiesto più volte di tornare. Mi ha ascoltato.
È tornato un venerdì sera, ero sul divano con un gin tonic abbandonato a fianco, leggevo vecchie mail e pensavo a lui. Il ghiaccio si era quasi del tutto sciolto, rimaneva appena un cristallo che galleggiava, una testa trasparente che non voleva inabissarsi. Ha girato la chiave nella porta – non ricordavo di avergliela data – e nello spiraglio sono apparsi i suoi capelli. Ho fatto un balzo, rovesciando il gin tonic dappertutto. Timidamente, ha sporto la testa in avanti, come a chiedere se era permesso.
– Entra, entra.
Dritto, lungo lungo come me lo ricordavo, le spalle larghe strette nel vano della porta come in una bara, ma sorridente. Le cicatrici dell’acne sulle guance, gli incisivi grandi dietro le labbra socchiuse. Non lo vedevo da otto anni. Ci siamo fissati, per un po’. Gli ho lasciato il tempo di abituarsi al mio aspetto che, a differenza sua, in tutto questo tempo è cambiato. Ho un sedere più pieno ora, faccio sempre le scale. Non ho più i capelli rossi, e non scendono più lungo tutta la colonna vertebrale. Sono un’impiegata, ho il caschetto e quando rientro in casa alla sera mi metto comoda. Non sapeva bene cosa dire, e anche io sono rimasta in silenzio. Ho pensato ai fiumi di parole che gli ho rivolto nella mia testa. Alla rabbia, le recriminazioni, le suppliche che non poteva sentire; però poteva immaginarsele, certamente se le era immaginate. Gli ho ceduto il passo, è entrato per bene e si è diretto in cucina. Non c’era, a dire la verità, quando io sono venuta a vivere qui, ma ci conosciamo talmente bene che la pianta del mio appartamento la potrebbe disegnare con un dito nell’aria, a occhi chiusi, e forse dopo, quando saremo a letto, gli chiederò di disegnarmi sulla schiena tutto quello che ha visto senza di me.
Ha aperto il frigo e ha preso la bottiglia di latte, senza lattosio, perché un’altra cosa che è successa è che sono diventata intollerante. Non se n’è accorto, ha svitato il tappo e ha bevuto una lunga sorsata, soddisfatta. Mi sono ricordata che non ha mai preso la patente, deve aver camminato tantissimo, i mezzi non vanno più. Ha camminato per otto anni, voglio pensare. Tutti questi otto anni sono stati solo un ritorno verso di me.
Mi sono appoggiata al forno, arrabbiata perché mi sembrava di sprecare tempo. Volevo essere brillante, farlo ridere di nuovo, e non mi veniva in mente nulla, non una frase, e un rivolo di gin tonic ancora mi scendeva lungo l’interno della coscia. Di cosa chiacchieravamo una volta. Ricordo conversazioni ai tavolini di uno dei tanti bar della nostra città, dove non stiamo più entrambi, una città nel mezzo della pianura che spesso è avvolta dalla nebbia, e forse non è mai esistita.
Ho pensato una cosa stupida, ho tentennato.
L’ho guardato per bene, mentre si scolava tutto il latte.
Ho pensato che la nostra città forse non è mai esistita, ma è stupido perché se no non ci saremmo mai conosciuti.
Ha rimesso la bottiglia, vuota, nel frigo. In quel momento ho capito che ero davvero felice che lui fosse lì.
Gli ho mostrato i miei oggetti: le foto di amiche che non ha ancora conosciuto sulle mensole, le bottiglie vuote con le etichette buffe che ho conservato, il servizio da sei di calici da vino rosso – questo è fondamentale, solo per il rosso – che ho ricevuto per Natale l’anno in cui sono andata a stare da sola. Si è fermato a lungo a guardare i miei libri, meno della metà di quelli che avevo, e nessuno dei suoi autori preferiti.
Sono contenta che sei qui perché in uno degli ultimi traslochi ho perso la tua foto, mi è uscito a un certo punto.
Non gli ho detto che non me ne ero accorta subito che la foto era sparita. Per la sua forma da santino non l’avevo mai incorniciata, la spostavo di volume in volume per non spiegazzarla, e poi non mi sono più ricordata se era tra le poesie o tra i racconti brevi.
Gli ho messo un asciugamano in bagno, gli ho mostrato la camera da letto. Mentre tamburellava il dito sul comodino, assorto in un qualche ragionamento suo, mi sono fermata anche io. Gli ho parlato di me, gli ho fatto vedere chi sono diventata senza di lui, ho cercato ammirazione nei suoi occhi. Uno spreco. Dopo otto anni, lui è davanti a me, con il suo odore, il suo odore di fumo di sigaretta, cannella e aria fredda. Il suo ciuffo, le unghie larghe e piatte, gli occhi allungati. Me l’ero quasi dimenticata, e ora lo vedo di nuovo. L’ultima volta che sono salita su un treno un ragazzo aveva i tuoi stessi capelli e mi è preso un colpo.
Poi taccio, ci sdraiamo vicini, e non parlo più di me. Il suo corpo è morbido come credevo, e sono più morbida anche io e questa volta mi sembra quasi che ci incastriamo meglio. È quello che ho chiesto, qualcuno con cui incastrarmi, e meglio che questo qualcuno sia lui, sono testarda.
La prima settimana senza di lui avevo solo ventidue anni, e non mi avevano lasciata sola un giorno. Un’amica mi caricava sulla bicicletta e mi accompagnava all’università, non mi faceva perdere una lezione. Sedevo per ore dritta al mio posto senza che mi si indolenzissero i muscoli. Un’altra amica veniva al pomeriggio, rimaneva a guardarmi mentre inzuppavo una bustina di tè, fuori e dentro la tazza, finché l’acqua non diventava petrolio. Avevo urlato solo una mattina, la prima, quando erano usciti i giornali. Non avevo urlato perché ero triste, avevo urlato perché mi scoppiassero i polmoni, o il soffitto crollasse.
Non voglio accennare troppo spesso a quei giorni, ora che lui è qui; non gli ricorderò che hanno guidato la mia macchina per portarmi in chiesa. Credo sia un patto implicito: certi ritorni hanno bisogno di regole, e per ogni desiderio esaudito c’è una rinuncia.
Ho il suo profumo sul cuscino, non risentirò più la sua voce. Non conoscerà la mia famiglia, nemmeno i nostri vicini di casa, ma passeremo l’uno accanto all’altra tutte le notti; dormiremo, soprattutto, dormire mi mancava quasi quanto lui.
Questa può ragionevolmente considerarsi felicità. Anno dopo anno ho rinunciato a qualcosa, un pezzetto di qua, un pezzetto di là, e quindi sì, questa cosa mi va benissimo.
Se volessi cambiare qualcosa, se volessi chiedere ancora di più, qualcuno mi verrebbe a prendere e mi direbbe che non mi sto facendo del bene, che ho esagerato, che questa volta ho oltrepassato la linea.
Ma la verità, la verità è che oltre la linea sto benissimo. Le giornate sono lunghe e lente, e non c’è mai il sole ma non piove nemmeno. C’è solo una grande calma, e le lenzuola accartocciate, e il tabacco ovunque, e gli anni che non esistono, non esistono davvero, non come la nostra città che ancora là, solida e vuota senza di noi; gli anni si sono piegati sotto il nostro peso, incurvati dal nostro desiderio fino a toccarsi, sovrapporsi, cancellarsi. L’aveva detto prima di scomparire: ci separa un tempo lunghissimo, ma passerà in un soffio – saremo giovani e vecchi insieme quando ci ritroveremo.
Non ci servono più gli anni e neanche tante altre cose.
Guardo il suo profilo, lo seguo con il dito.

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