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Tra gli scaffali: Convenience Store Woman

Definito da critica, colleghi scrittori e scrittrici e pubblico come «divertente, esilarante, stranino, spiritoso, dolce», Convenience Store Woman di Sayaka Murata è ben altro. È, tanto per iniziare, la stipula di un patto: tra la protagonista Keiko e il piccolo supermercato in cui lavora, ma anche tra noi lettori e il mondo giapponese, che dobbiamo accettare senza riserve e senza preconcetti per capire il funzionamento tanto della trama di un singolo libro quanto di un’intera società.

Keiko Furukura è una donna strana: sin da piccola non si sa comportare, in nessun contesto sociale. Nemmeno crescendo Keiko migliora, nonostante gli sforzi della sorella di crearle dei copioni da seguire; la soluzione che sembra funzionare è una sola: imitare gli altri o, ancor meglio, tacere del tutto. Finché, un giorno, decide di presentare la candidatura come commessa per un convenience store, o konbini in giapponese, uno di quei piccoli supermercati che rimangono aperti 24 ore su 24. L’ordine, le procedure, i rituali e la ripetitività diventano i migliori alleati di Keiko, le modalità con cui riesce a inserirsi nella comunità, diventando un ingranaggio funzionante e produttivo.

Rispettare le scadenze, rientrare nei ruoli prefissati e, in definitiva, essere utili e utilizzabili dal sistema è un tema centrale tanto nella letteratura occidentale – recentemente ho scritto di Come la gente normale e Gusci –quanto in quella orientale – come nelle due opere di Kabi Nagata. Sono tutte, non casualmente, protagoniste: la questione femminile è, oggi, più viva che mai. Perché conciliare la posizione di produttività in un sistema capitalista che si basa sul profitto di pochi servendosi di molti finché sono utilizzabili e quella di essere una donna e dover rispettare il timing biologico per portare avanti la specie, anche solo mostrando la facciata del «ci sto provando, ho un partner con cui mi accoppio», è quello che prova a fare Keiko, partendo già in svantaggio perché della seconda propensione non ha traccia, nella prima riversa tutti i propri sforzi.

In Italia grazie a Edizioni E/O con il titolo La ragazza del convenience store, Convenience Store Woman ricalca meglio il giapponese Konbini Ningen: il focus non è la persona (tant’è che non è, per esempio, «The Woman from the Convenience Store», ma una woman assolutamente generica, senza bisogno di articolo determinativo), ma il supermarket. Ancor di più: la parola scelta da Sayaka Murata in originale non è nemmeno l’equivalente di donna o ragazza. Ningen è traducibile come «umanoide, dalle sembianze umane ma che non è umano», qualcosa che però può stare al suo posto e svolgere la sua funzione, anche senza tutte quelle caratteristiche (la mente? lo spirito? la cultura?) che lo rendono, in definitiva, un essere umano.
Il titolo sembra già annunciarci, quindi, che il fatto che ci sia una donna dipenda dal fatto che ci sia un konbini in funzione di cui esistere, ed è la chiave attraverso cui leggerla per noi, la chiave con cui legittimarsi per lei. Keiko vive grazie al fatto che avrà il turno a cui presentarsi, mangia e dorme il giusto necessario per poter lavorare il giorno dopo, si veste e parla (un dato, questo, che è difficile rendere in traduzione ma che, per chi ha in mente la cadenza e la formulazione delle frasi in giapponese, è di grande effetto) in modo da non destare sospetti ed evitare le domande scottanti, lasciandole tutto il tempo e la libertà di fare quello che veramente vuole: prendersi cura del supermarket.

La parola più adatta a descrivere l’atmosfera in cui ci immerge Convenience Store Woman la usa il Guardian: «spell». Spell è un incantesimo che si può lanciare ma anche una forza da cui si viene soggiogati e a cui si deve ubbidire: per questo I Put a Spell on You può essere cantata da Nina Simone con un effetto e da Marilyn Manson con tutt’altro.

È la soggezione che Keiko prova nei confronti del konbini, che le impedisce anche quando è sola di sfuggire alla sua melodia fatta del ronzio delle luci al neon, delle monete che tintinnano, del registratore di cassa che si apre e si chiude, della porta scorrevole che fa entrare e uscire i clienti, il rumore dei passi nelle corsie, delle confezioni in plastica o dei sacchetti che crepitano, delle lattine che cozzano l’una con l’altra, il tutto ventiquattr’ore al giorno, tutti i giorni, per sempre.

È il dovere a cui non può mancare, la sua chiamata alle armi, la sua vocazione: se il capitalismo americano si basa sul sogno del successo, del benessere, dell’abbondanza, il capitalismo giapponese si basa sulla crescita costante, la costanza nel servizio, l’essere costantemente utilizzabile e produttivo. Non fermarsi, mai. Essere utile allo Stato, sempre. L’aspettativa è alta: il suicidio d’onore si è solo cambiato d’abito, ora non sono più i samurai a effettuarlo ma i direttori di banca al primo scandalo, gli studenti che non passano un esame.

In definitiva, quindi, è forse l’edizione portoghese ad aver azzeccato il titolo: Uma Questão de Conveniência, che possiamo tradurre con «una questione di convenienza». È davvero questo il fulcro del romanzo, che racconta di come Keiko abbia bisogno del konbini per essere un adulto funzionale e funzionante, di come convenga agli store manager di avere un’impiegata come Keiko, precisa, puntuale e quasi maniacale, mentre rimane sempre cordiale; di come le sia conveniente avere Shiraha come facciata per poter sembrare un’adulta completa, di come a Shiraha convenga dire di vivere con una donna e sfruttare lo stipendio e la buona volontà di Keiko. E, ovviamente, di come sia conveniente avere un supermercato aperto a tutte le ore del giorno e della notte, dove c’è sempre qualcosa in offerta da afferrare con sguardo assente, prima di tornare in ufficio.

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